Etica della comunicazione pubblica
Situazioni kafkiane.
Non sembri strano il partire da Kafka per parlare di piani di comunicazione e
di pubblica amministrazione. Non sono forse “kafkiani”, spesso, i problemi che
ci troviamo ad affrontare come funzionari pubblici o come amministratori, non
sono “kafkiane” le situazioni che, come cittadini, ci troviamo talvolta a
subire? Parrebbe dunque naturale istituire un collegamento fra Kafka e la sfera
pubblica. Leggiamo allora un piccolo suo brano, scritto alla fine dell’ottobre
del 1920, nel quale vengono toccate alcune questioni che ci possono
interessare. Esso s’intitola Sulla
questione delle leggi. Scrive Kafka:
“Le nostre leggi non sono conosciute
da tutti, ma sono un segreto di quel pugno di nobili che ci domina. Noi siamo
convinti che queste antiche leggi vengano diligentemente rispettate, e tuttavia
È estremamente penoso essere governati sulla base di leggi che si
ignorano. Non alludo, a questo riguardo, alle diverse possibilitÀ di interpretazione,
oppure agli inconvenienti che ne conseguono allorché alla loro interpretazione
possono intervenire soltanto pochi eletti anziché tutto il popolo. Forse
perÃ’ questi inconvenienti non sono neppure molto gravi. Le leggi,
effettivamente, risalgono a tanti anni addietro, la loro interpretazione
s’È protratta per secoli e secoli ed essa stessa, a sua volta, È
giÀ divenuta legge; e anche se È vero che le libertÀ
d’interpretazione permangono tuttora, esse sono tuttavia assai limitate. […] In
ciÃ’, naturalmente, È presente una certa saggezza – chi mette in
dubbio la saggezza delle leggi antiche? – ma anche un tormento per noi;
probabilmente È un fatto inevitabile”.
Queste
parole, adeguatamente comprese, mostrano fin da subito in che cosa consiste la
funzione della comunicazione pubblica e per qual motivo essa È
necessaria. La comunicazione pubblica, infatti, dovrebbe contribuire a far
sÃŒ che non ci si trovi a dover vivere in una serie di situazioni –
queste sÃŒ – kafkiane: situazioni che si determinano, ad esempio, quando
le leggi “non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto” (come Kafka scrive)
“di quel pugno di nobili” (potremmo dire di notabili, burocrati, governanti)
“che ci domina”. Infatti, “È estremamente penoso essere governati sulla
base di leggi che si ignorano”.
Quale
rimedio vi puÃ’ essere di fronte a questa situazione? Oggi si direbbe:
È necessaria una maggiore “trasparenza”. PiÙ precisamente,
È necessario proporre un’interpretazione delle decisioni e delle norme,
ed È opportuno che questa interpretazione risulti il piÙ
possibile chiara, certa e verificabile. Giacché, come Kafka afferma, bisogna
evitare quegli “inconvenienti” che conseguono allorché all’interpretazione
delle leggi “possono intervenire soltanto pochi eletti anziché tutto il
popolo”.
Certo, ciÃ’ È oltremodo difficile, perché le leggi,
effettivamente “risalgono a tanti anni addietro, la loro interpretazione si
È protratta per secoli e secoli”, e dunque “le libertÀ
d’interpretazione”, che pure tuttora permangono, sono “assai limitate”. E
tuttavia, nonostante questo sia “un fatto inevitabile”, esso risulta pur
sempre, conclude Kafka, “un tormento per noi”. Di quale “tormento” si tratta?
Potremmo tentar di rispondere: il tormento È quello che nasce dalla
necessitÀ che le leggi siano davvero efficaci, che le norme risultino
davvero il fondamento condiviso del vivere comune. È “saggezza”,
appunto, rendersi conto di questa situazione. Possiamo dire, di nuovo: È
proprio questo, in generale, il compito dell’interpretazione.
Interpretare e
comunicare. Perché dunque c’È bisogno
di un’interpretazione? La risposta piÙ semplice e immediata a
questa domanda È la seguente: perché, di solito, ciÃ’ con cui
abbiamo a che fare, ciÒ che vogliamo interpretare, non È affatto
qualcosa di semplice, di chiaro, di direttamente accessibile. È invece
qualcosa di complicato, di comprensibile a piÙ livelli e in diversi
modi, a seconda dei differenti punti di vista che vengono assunti. CiÃ’
che fa dunque l’interpretazione È, potremmo dire, gettare un ponte, stabilire
un collegamento, istituire un tramite fra chi vuole comprendere e ciÃ’
che deve venire compreso. E, lo vedremo, questo È ciÒ che fa
anche il comunicatore. E a un’opera di mediazione allude la stessa etimologia del termine “interpretazione”.
“Interprete” (interpres), molto
prosaicamente, È il negoziatore, vale a dire colui che stabilisce un “interpretium”: il prezzo intermedio tra
le esigenze del compratore e quelle del venditore.
Al
di lÀ di questi significati mercantili, comunque, rimane il fatto che
l’interpretazione È necessaria quando si ha a che fare con situazioni
complesse; e che dunque il termine “interpretazione” puÃ’ essere
definito, attraverso una metafora, come l’atto del dipanare ciÃ’ che
risulta in se stesso involuto, il tentativo di spiegare ciÃ’ che appare
complicato. Da questo punto di vista emerge allora la funzione sostanzialmente
interpretativa del pubblico comunicatore: di colui, cioÈ, che fra le
altre cose deve esplicitare e chiarire ciÃ’ che non sempre (o quasi mai,
per i motivi ad esempio indicati da Kafka), risulta di facile comprensione. E
inoltre, soprattutto, puÃ’ delinearsi l’essenziale carattere di
intermediazione che definisce l’attivitÀ del gestore della pubblica
comunicazione.
Ma come, concretamente,
questa attivitÀ di interpretazione puÒ svolgersi? Quali sono le
regole e i canoni da applicare nell’intermediazione che si svolge entro
l’amministrazione pubblica? Tre, soprattutto, sono gli ambiti con cui il
pubblico comunicatore ha a che fare, e rispetto a cui egli svolge la sua opera
di intermediazione: 1. Quello che riguarda i diritti e i doveri del cittadino
all’interno una specifica comunitÀ; 2. Quello che concerne i diritti e i
doveri dell’istituzione nei confronti del cittadino; 3. Quello, infine, che
È relativo alle intenzioni, ai programmi (politici e amministrativi), o
alle decisioni prese da un’amministrazione nei confronti del cittadino.
Come si vede, il
comunicatore puÃ’ svolgere la sua attivitÀ solo perché presuppone
un’elaborazione precedente, compiuta da altri sulle questioni che ho appena
indicato. Le leggi, ci ricorda Kafka, “effettivamente risalgono a tanti anni
addietro, la loro interpretazione s’È protratta per secoli e secoli ed
essa stessa, a sua volta, È giÀ divenuta legge”. A sua volta il comunicatore pubblico È
chiamato a inserirsi in questa serie di processi precedenti e a svolgere,
rispetto ad essi, un’ulteriore opera di intermediazione. Per esprimerci in
altro modo: sia l’addetto stampa, sia il portavoce, sia l’addetto all’Ufficio
Relazioni con il Pubblico di un Ente (tanto per limitarci alle figure previste
dalla L. 150/2000) ha alle spalle l’opera di contestualizzazione e di
applicazione normativa che viene compiuta nelle differenti istanze e ai diversi
livelli della pubblica amministrazione della quale egli fa parte. Anzi,
È appunto a partire da questo sfondo che egli È chiamato a fare
da tramite, a compiere sempre nuove mediazioni al servizio del cittadino. Lo
vedremo proprio nel corso che veniamo a inaugurare.
Questo, tuttavia, non accade
in generale, bensÌ secondo quella modalitÀ specifica che
È, appunto, quella della comunicazione. Anzi: secondo un’idea ben
precisa di comunicazione. Dobbiamo perciÃ’ dedicare una breve analisi
all’atto comunicativo e alle sue implicazioni.
La comunicazione pubblica non È
rivolta a un target. Iniziamo con il chiarimento di ciÃ’ che vuol
dire, in questo contesto e per il nostro uso, il termine ‘comunicazione’. Il
nostro punto di vista sulla comunicazione È un po’ diverso da quello
della linguistica e della semiotica. Secondo queste discipline la comunicazione
risulta la trasmissione di un messaggio (o di una informazione) da un
“emittente” a un “ricevente”. Il modello, qui, È di tipo “meccanico”. E
ciÃ’ significa che, proprio a partire da un tale modello, possono essere
elaborate quelle tecniche, quei “metodi”, che consentono di raggiungere un
certo risultato. Il risultato È anzitutto quello di ottenere una
ricezione adeguata. Il ricevente È target dell’atto di emissione:
propriamente, il suo “bersaglio”. E in questa prospettiva appare possibile verificare l’avvenuta ricezione di un
messaggio mediante procedimenti, solitamente di tipo quantitativo (come ad
esempio i sondaggi), di gestione del feedback.
Questo,
tuttavia, non È l’unico senso di ‘comunicazione’ a cui possiamo fare
riferimento. Anzi, a ben vedere, non È neppure quello piÙ
adeguato a comprendere e a gestire i processi della comunicazione pubblica. Il
cittadino, a differenza del consumatore, non puÃ’ essere esclusivamente
identificato in termini di target.
Ma cosa d’altro puÃ’
significare, allora, il concetto di ‘comunicazione’? Facciamoci guidare
dall’etimologia. ‘Comunicazione’ deriva dal vocabolo latino ‘communicatio’ e indica propriamente il
“mettere a parte”, il “far partecipe” altri di ciÃ’ che si possiede.
È operante in questa nozione una particolare metafora, quella della
“partecipazione”, che ad esempio si ripropone esplicitamente nella lingua
tedesca (dove il vocabolo ‘Mitteilung’
puÃ’ venire tradotto, letteralmente, piÙ che con “comunicazione”,
come avviene di solito, con “compartecipazione”).
Nel latino, rispetto a
ciÃ’, vi È tuttavia qualcosa di ulteriore. Ed È l’evidente
riferimento al munus, al dono.
CiÃ’ che viene messo a parte È donato, affinché sia comune a
tutti. ‘Communico’, infatti,
significa originariamente “mettere in comune”: con un singolare effetto di
ridondanza, considerato il legame evidente che sussiste tra il verbo communico, il sostantivo communio e l’aggettivo communis. Non dovrebbe dunque affatto
stupire il fatto che un ente chiamato “Comune” sia destinato, fra l’altro,
proprio a comunicare. In barba a Kafka.
E tuttavia, da questa breve
incursione sul terreno dell’etimologia, non possiamo ricavare suggestioni retoriche di alcun tipo. Anche la
messa in comune di notizie e informazioni, anche il compartecipare che È
proprio della comunicazione risulta un processo i cui esiti non sono affatto
scontati. Giacché vi sono due elementi di ambiguitÀ, almeno, che vanno
sempre tenuti presente.
Il primo È
individuato proprio dal duplice senso che possiede l’aggettivo ‘comune’. Esso
indica, per un verso, ciÒ che È proprio di tutti, ciÒ che
È condiviso o condivisibile, e, per altro verso, ciÒ che appare
del tutto ordinario, volgare. In effetti, massimamente condivisibile È
appunto ciÃ’ che risulta “appiattito verso il basso”: il riferimento a
certi programmi televisivi, volgari proprio per poter ottenere il massimo della
diffusione e quindi degli introiti pubblicitari, È tutt’altro che
casuale.
In secondo luogo a risultare
ambiguo, a ben vedere, È l’esercizio del linguaggio stesso. Il
linguaggio È infatti “organo”, strumento di collegamento, e “ostacolo”
della comunicazione. Mediante le parole io posso intendermi con gli altri
uomini, ma posso anche essere frainteso. È dunque un’utopia il
raggiungimento di una comunicazione pienamente trasparente, nella quale tutto
ciÃ’ che si possiede viene, attraverso il linguaggio, pienamente “donato”
(il munus della communicatio). È un’utopia, appunto, perché carattere del
linguaggio È l’istituzione di un rapporto che istituisce, in vari modi,
sempre una differenza. La comunicazione, in altri termini, È in qualche
modo “disturbata” e fonte di disturbo. Sta ai gestori della comunicazione
essere consapevoli di ciÃ’ e mettersi in condizione di gestire le diverse
situazioni che essi debbono di volta in volta affrontare.
Etica della comunicazione. A partire da
quanto ho finora brevemente accennato, dovrebbe apparire chiaro che la
comunicazione non si misura solamente secondo il metro dell’efficacia di
penetrazione di un messaggio, e che il destinatario della comunicazione, non
puÃ’ essere solamente considerato il “bersaglio” di un’efficace strategia
di marketing. Non giÀ per moralismo, ma per ciÒ che
significa ‘comunicazione’ nel suo senso piÙ ampio. Ed È proprio a
partire da questo senso – da questa creazione di uno spazio comune che si attua
attraverso l’uso della parola e degli altri mezzi di comunicazione – che
possiamo comprendere perché vi È una dimensione etica ben
presente all’interno dell’atto comunicativo stesso.
CiÃ’ vale in
particolare per il comunicatore pubblico. Soprattutto nel suo caso si tratta di
comprendere che cosa significa impostare in maniera corretta il rapporto tra
colui che comunica, le sue intenzioni, ciÃ’ che dev’essere comunicato e il
destinatario della comunicazione. Impostare questo rapporto in maniera corretta
vuol dire anzitutto essere in grado di governare quel rischio che sempre si
accompagna all’uso del linguaggio: il rischio che l’istituzione di un rapporto
riproduca lacerazioni e differenze. CiÃ’ perché ogni parola, come abbiamo
detto, È un filtro. Essa consente di realizzare un’intermediazione fra
gli interlocutori, ma nel far ciÃ’ ribadisce la loro separazione. E
questa separazione va rispettata. Essa non dev’essere affatto approfondita o esaltata,
come ancora rischiano di fare certi documenti redatti in stile burocratico:
espressione ancora attuale di quella “legge dei nobili” di cui Kafka parlava.
Per
gestire questo duplice carattere del linguaggio, ancora una volta, non È
sufficiente assumere una concezione tecnico-strumentale della comunicazione. In
realtÀ il problema È di altro tipo: È in gioco, infatti,
la possibilitÀ di compiere un’adeguata opera d’interpretazione di
ciÃ’ che dev’essere comunicato. Far sÃŒ che l’ostacolo non prenda
il sopravvento: questo È uno degli scopi ai quali deve rispondere il
pubblico comunicatore. L’efficacia della comunicazione, nel caso della
comunicazione pubblica, non va allora misurata, solamente, sulla base delle
esigenze comunicative (o addirittura di promozione) che sono proprie, in
maniera del tutto legittima, dell’amministrazione, ma anche tenendo conto delle
istanze del cittadino e delle sue aspettative, della sua situazione e delle sue
domande.
Lo spazio comune che il
comunicatore pubblico crea, nel suo lavoro di intermediazione, non È
insomma il frutto di una manipolazione dei desideri altrui o della persuasione
dell’interlocutore: giacché in questo modo un tale spazio non potrebbe mai
risultare stabile e ben definito. Esso risulta invece dall’intesa, che egli
contribuisce a promuovere, sulle esigenze dei cittadini, comunemente
riconosciute, e sui tentativi, che l’attivitÀ amministrativa mette in
opera, di dare ad esse appagamento. In questo spazio autenticamente politico il
ruolo del pubblico comunicatore, se adeguatamente interpretato, risulta
essenziale: come È finalmente riconosciuto anche dalle norme, dai
regolamenti e dalle direttive che oggi lo regolamentano. Com’È
dimostrato ad esempio dal Codice etico del pubblico comunicatore proposto circa
due anni or sono dall’Associazione Italiana di Comunicazione Pubblica. E su
questa strada, ormai tracciata, possono opportunamente inserirsi i progetti
integrati e partecipati di comunicazione degli enti: come ad esempio quelli
finalizzati alla stesura di piani di comunicazione.