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Sapienza Università di Roma Facoltà di Lettere e Filosofia |
Corso di Laurea in Teorie e pratiche dell’Antropologia
CAPITOLO I
Brevi cenni sui fenomeni migratori pag. 4
Etnocentrismo ed etnocentrismo critico
Emigrazione - immigrazione
Il “doppio” e la doppia assenza del migrante
CAPITOLO II: Il corpo
Il corpo del migrante
Il corpo che si ammala
L'immigrato non è che il suo corpo
La crisi di presenza e la crisi d’identità
CAPITOLO III: La pelle
3.1 La pelle
3.2 Metafore e significati simbolici della pelle
CAPITOLO IV
4. 1 I “cafoni”
4.2 La donna contadina e il mito
4.3 La donna e il silenzio
CAPITOLO V
5.1 La fotografia, documento, simbolo, lettera iconica
5.2 Il viaggio come metafora iniziatica e come processo di rinascita
5.3 emigrazione – morte
CAPITOLO VI
6.1 Viaggio in Argentina
6.2 Interviste
6.3 fotografie
6.4 Conclusione
CAPITOLO I
“Tu lascerai
ogni cosa diletta
più caramente e questo è quello strale
che l’arco dello essilio pria saetta.
Tu proverai si come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l’altrui scale”
Dante Alighieri, Paradiso XVII 55 – 60)
1.1 Brevi cenni sui fenomeni migratori.
Lo sviluppo dei movimenti migratori è stato un fenomeno sociale particolarmente problematico nella maggior parte dei paesi occidentali. L'Europa occidentale ha conosciuto, durante i trenta anni di prosperità economica, 1950-1979, 1'immigrazione massiccia: all'inizio il flusso migratorio proveniva dai paesi europei del Sud (italiani, portoghesi, spagnoli), allora meno ricchi, in seguito dai paesi del terzo mondo , in particolare dal Maghreb e dall'Africa nera.
Ricordiamo che i fenomeni migratori non sono nati negli anni ottanta, né tanto meno negli anni cinquanta. I movimenti di popolazioni sono sempre esistiti e sono inevitabili soprattutto per ragioni politiche ed economiche. Le migrazioni che hanno seguito la Seconda Guerra mondiale si sono direzionate verso i paesi ricchi del Nord dell'Europa occidentale. Secondo la storia nazionale, le loro tradizioni politiche, i loro bisogni economici e demografici, le politiche di immigrazione di questi paesi sono state, ogni volta, differenti. La situazione in Europa adesso è cambiata in quanto tutti paesi membri cercano di utilizzare la politica 'immigrazione zero', inscritta nello statuto europeo. In effetti, già tra il 1970 e il 1974 i governi europei hanno deciso di limitare l'immigrazione: alle famiglie attraverso i ricongiungimenti, ai richiedenti asilo, agli studenti, ai lavoratori stagionali e ai cittadini della C.E.E.
La Francia seguita a una certa distanza dall'Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tiene sempre il primo posto tra i paesi di destinazione dell'emigrazione continentale in questo primo venticinquennio.
Storicamente il flusso migratorio più importante è stato quello diretto dall'Europa verso le Americhe che ha avuto come protagonisti, in epoche diverse, Spagnoli, Portoghesi, Olandesi, Francesi e soprattutto Irlandesi, Scozzesi, Tedeschi e Italiani.
L'Argentina e Brasile, che assorbono la maggior parte dell'immigrazione transoceanica nei primi vent'anni, si vedono invece rapidamente sorpassare dagli Stati Uniti verso la fine del secolo.[2]
Gli italiani sono sempre stati tra i protagonisti dei flussi migratori. Negli ultimi anni del XIX secolo i 'nostri' emigrati furono in media 150.000 all'anno . La cifra annuale raggiunse le 300.000 unità tra il 1906 e il 1910 per toccare una punta di 880.000 persone nel 1913.
1.2 Etnocentrismo ed etnocentrismo critico
La figura dell'emigrante nella situazione contemporanea potrebbe essere considerata emblematica: in un mondo che muta sempre più rapidamente, le dimore tradizionali divengono inabitabili e ogni individuo fa in qualche modo l'esperienza di chi è costretto a percorrere cammini che gli sono sconosciuti e a risiedere in luoghi poco familiari. Il “problema” specifico del migrante è stato per lungo tempo studiato in una prospettiva eccessivamente riduttiva.
I concetti di identità e di cultura sono oggi al centro di un'attenzione molto viva in più ambiti disciplinari: l'antropologia culturale, la psicoanalisi, la sociologia, discutono sempre più attentamente la binomia identità e differenza.
Un'idea fissa, sottolinea Benoist[4], attraversa il nostro tempo saturo di comunicazione, è l'idea del ripiegamento di ciascuno di noi sul territorio, su quello che costituisce la sua differenza e, quindi, la sua propria identità separata. Nello stesso tempo è viva in vari ambienti l'istanza a proclamare l'urgenza di un'unità dell'Uomo in sé, l'urgenza, cioè, di ritrovare la certezza rassicurante di una natura umana. Con questa contraddizione che caratterizza l'immagine dell'uomo disegnata dalle scienze umane si intreccia anche un'altra oscillazione del desiderio di identità: la ricerca delle proprie radici etnico-culturali, sociali e la contemporanea aspirazione a condividere una cultura sempre più universale, di tipo tecnologico-produttivo. All'omologazione dei simboli, all'impoverimento delle differenze indotto dalle culture tecnologico-produttive, scriveva Pier Paolo Pasolini, si somma poi l'omogeneizzazione dei linguaggi prodotti dai mass-media e la diffusione del consumismo, che cancella ormai anche le differenze tra le stesse culture materiali .
L'asse centrale intorno a cui ruota oggi gran parte del lavoro delle scienze umane, sembra essere il superamento dell'etnocentrismo[6] e la ricerca del punto di equilibrio tra le culture, sia che analizzino culture tecnicamente distanti, sia che cerchino di vedere le differenti culture esistenti all'interno di una stessa società. Il superamento dell'etnocentrismo è in fondo l'esigenza che muove i tentativi di rifiutare la propria cultura messi in atto da scienziati e intellettuali per cercare una 'reincarnazione' in movimenti terzo-mondisti o in culture lontanissime nel tempo e nello spazio; ed è sempre la stessa esigenza che ha portato molti, al contrario, ad un relativismo agnostico, che pone tutte le culture come universi isolati, assoluti, allo stesso tempo non le ricompone nella dialettica storica che le ha portate a confronto .
Uscire dall’etnocentrismo dunque per affrontare correttamente i problemi dell'identità culturale, senza rifiutare la 'propria' identità culturale. La proposta di Ernesto De Martino ci sembra essere ancor oggi valida e si chiama etnocentrismo critico.
Assumere, come criterio di metodo, il principio dell'etnocentrismo critico permetterà di leggere le differenze culturali introdotte dalle minoranze etniche e sociali, dalle comunità immigrate, dai popoli della periferia del mondo nelle società del Centro, come divergenze a valenza positiva anche se altamente conflittuale. Minoranze dunque di cui va riconosciuto il diritto all'identità culturale, come base dell'identità socio-politica, identità che non è certo più ulteriormente leggibile come mero fatto folklorico. Il diverso, l'altro, l'emigrato rielaborano attraverso i propri strumenti mentali, i propri codici simbolici, i modelli culturali imposti dal potere dominante; questa rielaborazione, questa metabolizzazione si configura, di fatto, come infrazione, come divergenza, al di là delle volontà soggettive. Paradossalmente è proprio nel momento in cui il 'diverso', l'emigrato, il rappresentante della periferia cerca di adeguarsi alle culture delle società complesse, che emerge più chiara la distanza tra i modelli imposti e la mentalizzazione che egli può realizzare.
Anche Lévi-Strauss[9] parlando dell'identità come un'esperienza di crisi afferma: 'Quando certe abitudini secolari crollano, quando certi tipi di vita scompaiono, quando certe vecchie solidarietà rovinano, certamente capita con frequenza che si produca una crisi di identità”. .
Per evitare quello che De Martino chiamava 'il pettegolezzo storico-antropologico', ho cercato di affrontare la questione emigrazione-immigrazione percorrendo un percorso multidisciplinare, cioè riportando alcuni punti di vista non solo di antropologi di fama indiscussa ma anche di altri studiosi come sociologi, psicologi e psichiatri.
1.3 Emigrazione - immigrazione
Emigrazione. Tra le definizioni riportate nel vocabolario della lingua italiana[11], troviamo: 'L’emigrazione è un fenomeno demografico caratterizzato dallo spostamento di grandi masse di popolazione da uno Stato a un altro o da una regione all'altra di una stessa nazione. In genere i fenomeni migratori sono motivati da uno squilibrio fra popolazione e risorse. Chi non trova dove è nato possibilità di lavoro sufficienti a permettergli una vita decorosa, si sposta dove ritiene che esistano maggiori possibilità di lavorare e condizioni di vita favorevoli'.
Occorre una vera e propria cecità mentale per accettare e riprodurre la riduzione operata del fenomeno migratorio, quando viene definito come semplice spostamento di forza lavoro. Come se non ci fosse nulla di più: là una mano d'opera (relativamente) in eccedenza e non ci si interroga né sulle ragioni di questa 'eccedenza' né sulla genesi del processo che ha reso questa 'eccedenza' disponibile (a migrare), non ci si interroga nemmeno sui meccanismi che hanno reso questi impieghi disponibili per gli immigrati. L'immigrazione non può essere definita come se fosse un'esportazione di forza lavoro e nient'altro, e l'emigrato definito anzitutto come disoccupato e in seguito come disoccupato che emigra per smettere di essere disoccupato .
Lo spettro delle migrazioni inquieta l'animo umano, proiettando in esso la paura dello sradicamento, della scissione, della solitudine e dell'esilio. In effetti, così come Dante, qualche secolo fa, anche il sociologo algerino Abdelmalek Sayad[13] ha parlato della durezza dell'esilio, alghorba in arabo, la sofferenza di chi è costretto dal destino a vivere lontano dalla propria terra natia. Per ogni essere umano la terra d'origine conserva lo scrigno della propria identità sociale e culturale e spesso ne custodisce gli affetti e le aspirazioni più profonde.
Emigrazione e immigrazione, come non smetteva mai di ricordare Sayad, sono due parole che indicano due insiemi di fatti assolutamente differenti ma indissociabili e che occorre pensare assieme con grande vigore. È chiaro che lo studioso aveva molte ragioni per vedere subito ciò che prima di lui sfuggiva a tutti gli osservatori: affrontando 'l'immigrazione' - lo dice la parola - dal punto di vista della società di accoglienza che si pone il problema degli 'immigrati' solo nel caso in cui gli immigrati 'creano problemi', gli analisti omettevano, in effetti, di interrogarsi sulla diversità delle cause e delle ragioni che avevano potuto determinare le partenze e orientare la diversità delle traiettorie. Primo gesto di rottura con questo etnocentrismo inconscio, egli restituisce agli 'immigrati', che sono pure degli 'emigrati', la loro origine e tutte le particolarità che a essa sono state associate e che spiegano numerose differenze constatate nelle loro sorti ulteriori.
“Non si può fare una sociologia dell'immigrazione senza riflettere allo stesso tempo su una sociologia dell'emigrazione” diceva Sayad: immigrazione di qui ed emigrazione di là sono due facce indissociabili di una stessa realtà, l’una non si può spiegare senza tenere conto dell'altra. Il movimento di emigrazione-immigrazione si sviluppa nella sua doppia dimensione di fatto collettivo e di itinerario individuale: la traiettoria e l'esperienza singolare dell'immigrato-emigrato. Per cui, quando l'autore parla di immigrazione parla di fatto sociale totale, un fenomeno nella sua interezza, senza mutilare l'oggetto dal processo di emigrazione.
1.4 Il “doppio” e la doppia assenza del migrante
Bordieau , nella prefazione al saggio 'La doppia assenza'[15], sostiene che il sociologo algerino Sayad ha saputo cogliere, con ardore e passione avendo vissuto sulla propria pelle la condizione di migrante, da vicino i dettagli infimi e più intimi della condizione degli immigrati. Sayad ci trasporta nel cuore della contraddizione: da una parte una vita impossibile e inevitabile nella 'terra d'esilio', e dall'altra, invece, le illusioni che si avevano al momento della partenza.
Doppiamente assente, nel luogo d'origine e nel luogo d'arrivo, vivendo una condizione disagiata, nel corpo e nello spirito, il migrante è atopos, un curioso ibrido privo di posto, uno “spostato' nel duplice senso di incongruente e inopportuno, intrappolato in quel settore ibrido dello spazio sociale in posizione intermedia tra essere sociale e non-essere. Né cittadino, né straniero, né veramente dalla parte dello Stesso, né totalmente dalla parte dell'Altro, l'immigrato si situa in quel luogo 'bastardo' di cui parla anche Platone, alla frontiera dell'essere e del non essere sociali. Fuori luogo, nel senso di incongruo e di inopportuno, egli suscita imbarazzo. E la difficoltà che si ha nel pensarlo - anche da parte della scienza che riprende spesso, senza saperlo, i presupposti o le omissioni della visione ufficiale - non fa altro che riprodurre l'imbarazzo creato dalla sua inesistenza e ingombrante. Ormai ovunque di troppo, sia nella sua società d'origine sia nella società d'accoglienza, obbliga a ripensare da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e della relazione tra il cittadino dello Stato, la nazione o la nazionalità. Le sofferenze fisiche e morali che lo straniero sopporta rivelano all'osservatore attento tutto ciò che l'inserimento dalla nascita in una nazione e in uno stato nasconde nell'intimità più profonda delle menti e dei corpi, quasi al livello di Stato natura, cioè fuori dalla presa di coscienza.
Anche Vito Teti Professore di Letterature Popolari presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università della Calabria, si è interessato al 'doppio', molte nostre antiche città sono nate come doppi dei paesi della Grecia.
Nei libri le strade di casa e il paese e l'ombra è ben descritto il senso di spaesamento e la sensazione di essere stranieri in tutti i luoghi.
Teti, che negli anni 50 non è emigrato a Toronto (città che ha ospitato migliaia di suoi compaesani[17]), ha scritto del suo “doppio” in Canada. Vincenzo, il compagno di scuola partito per l'America, era un altro 'io' partito per il Canada, l'uno come doppio dell'altro.
L'emigrazione come distacco, uscita fuori da sé, disperazione, lutto prolungato, rischio di perdita del sé, follia, il motivo del doppio e il motivo dell'ombra [18].
La tematica dell'ombra e quella del doppio sono presenti nella letteratura del mondo classico, nelle culture folkloriche dei paesi europei ed extraeuropei, nei miti e nei riti delle popolazioni primitive come manifestazioni inquietanti del rischio di perdita d’identità.
Molti osservatori hanno già parlato di paesi e campagne che si svuotano, i paesi si spostano, viaggiano. Nasce altrove, fuori del paesaggio geografico ed esistenziale noto, il paese due come trasferimento, dispersione, dilatazione, emanazione del paese uno[19].
CAPITOLO II
IL CORPO
“L'emigrazione ha provato in tutti i tempi fautori ed avversari numerosi. Però dalle opere di coloro che l'hann combattuta come dannosa, si vede chiaramente la miseria di argomenti degli avversari… Parlare d'amor patria a chi emigra per fame, perché il lavoro gli manca e perché la ricompensa, che nella dolce patria riceve, è così esigua da non poter nemmeno bastare ai primi bisogni della vita, è una stupidità che non ha nome.”
Francesco Saverio Nitti
2.1 Il corpo del migrante
Anche il corpo dell'immigrato, come i concetti di identità e di cultura, è diventato oggetto di molteplici indagini, abbracciando discipline diverse. Il discorso psichiatrico si è impossessato del corpo dell'immigrato, cioè del linguaggio con cui il corpo si esprime, come fosse un sistema di segni da decifrare.
Nell’ immigrazione, l'emigrato fa un'altra esperienza del proprio corpo.
L'emigrato viene immerso in un universo economico e sociale in cui la virtù cardinale è l'individualismo generalizzato. È infatti sottoposto all'azione di meccanismi economici, sociali, giuridici, culturali che, attraverso la regolamentazioni che impongono e la regolazione dei comportamenti che realizzano ciascuno nel proprio campo, hanno l'effetto di inculcare la morale individualistica che caratterizza gli stranieri e gli stranieri di bassa condizione sociale (gli immigrati).
Lo psichiatra Bruno Callieri[20] e la psicologa Elisabetta Franciosi mettono in risalto quanto l’antropologia si interessi allo studio del corpo.
Dall'essere corpo si sostituisce l'avere il corpo, la sofferenza del corpo, il problema dell'identità, la perdita dell'identità. Il corpo ci percorre ed è il nostro trascorrere quell' istanza egoica che fa del corpo l' esperienza primaria di un corpo presente al mondo. Il corpo non è solo l'esterno ma anche l'abitabilità del corpo.
Il filosofo fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty , al cui pensiero chiunque si occupi di corporeità deve riferirsi parla del concetto di “corpo proprio e corpo vissuto”. Nella duplice ambiguità del corpo come struttura biologica e del corpo come struttura vissuta, Merleau-Ponty coglie tutta la complessità della dimensione corporea, dissolvendo la separazione lineare operata da Cartesio, tra res cogitans e res extensa . Il corpo vissuto è infatti nella sua ambiguità costitutiva, permeato dall'anima che, a sua volta, non può trovarsi fuori dalla corporeità soggettiva. Il corpo non è solo l’ esterno (l’essere), ma anche l’ interno (l’avere), nella lingua tedesca, infatti, si utilizzano due termini distinti per indicare il corpo anatomico (corpen) e il vissuto (liven).
Anche Merleau-Ponty tematizza che il corpo umano appare sempre sotteso da uno schema sessuale, delinea una fisionomia sessuale, evoca una gestualità connotata sessualmente.
Il corpo è anche l’ elemento di intermediazione tra il “me” e “l’altro” - o tra il me e il mondo - un’ intermediarietà che porta al mascheramento, oppure nel momento sessuale quando si fonde con un altro corpo, quando si sente la presenza, come scriveva Ernesto de Martino : “quando l’ altro è nel mio mondo”.
Dal mio corpo capisco, apprendo, sento, percepisco, dialogo; un corpo come appartenenza e come risorsa attraverso la familiarità di un gesto, il contatto, uno sforzo, il desiderio, un ostacolo quando somatizziamo, un disagio (ansia, ipocondria, anoressia e bulimia). Il corpo diventa un corpo gravante (se lo aggravo di cibo o lo denutrisco).
Callieri ci fa capire come è possibile analizzare le forme di deviazione sessuale in cui viene meno l'intenzionalità del corpo che cessa quindi di essere partecipe (incontro mancato) la vita sessuale non è solo natura, e soprattutto storia: è il mio corpo che recita la mia storia.
Nel libro “Non uno di meno”[24] il tema focale non riguarda gli adulti ma l'integrazione dei bambini stranieri nelle scuole italiane, discussione quanto mai attuale. Si da’ voce ai traumi di memorie interrotte usando la metafora del naufragio.
Laura Faranda parla di corpi naufraghi, corpi vissuti, corpi di colore, corpi a contatto, corpi e memoria.
Bisogna sforzarsi di seguire quei corpi in quello spazio virtuale che congiunge le loro peregrinazioni identitarie con la nostra coscienza immaginativa. Prestare attenzione alle sequenze spezzate del loro vissuto quotidiano, senza pretendere di classificarle o di ordinarle subito in una visione critica rubricabile. Cercare di sorprendere in presa diretta le modulazioni esteriori dei loro corpi in praesentia.
Come andrebbe fatto con i figli di migranti, per comprendere l'immigrato e per dare corpo alla sua memoria, sarà necessario reimparare l'ascolto, investire nell'attesa, alla ricerca di un linguaggio comune, aiutarlo a ricollocare le tessere sparse, come in un gioco di pazienza, rispecchiarci nei suoi fallimenti , abbandonare ogni tipo di pregiudizio.
Michela Fusaschi parla di corpi 'fuori luogo' riferendosi al corpo vissuto dei migranti che mettono in pericolo la propria vita, attraversando il mare su imbarcazioni di fortuna, per tentare di mettere al sicuro non solo il proprio corpo ma con esso la propria dignità.
Dal corpo del migrante si pretende un ipercorrettezza, si pretende che sia più corretto dell’autoctono. Il sociologo dice che il corpo.
Saiad, né “La doppia senza” dice che rispetto alla migrazione dobbiamo pensare a come lo Stato pensa ai corpi dei migranti che giungono nel paese. Lo Stato pensa sempre al corpo del migrante come corpo disciplinato e a questo fine si creano le disposizioni. Il potere politico interviene anche nella gestione delle malattie.
Nel suo lavoro, Fusaschi mette in luce l'abisso che c'è tra i corpi giovani, belli, magri, muscolosi, privilegiati di questa 'nostra' società post-moderna in cui sembra davvero possibile progettare interamente il proprio corpo e i 'loro' corpi (quello degli/le immigrati/e) in cui il corpo è solo uno strumento di lavoro. In sostanza mentre per noi si tratta soltanto appagare i desideri, per loro si tratta sempre, o quasi, di ripiegarsi verso una posizione di annullamento e di invisibilità della soggettività
Evitando di aprire una parentesi sociologica (che si potrebbe rivelare una voragine), va detto solamente che l’ abisso tra i corpi 'vissuti ' degli immigrati e i corpi 'a norma” è anche frutto del passaggio da una società moderna a una società post moderna caratterizzata un forte processo di emancipazione generale dove aumenta la libertà a scapito della sicurezza sociale, dove accusano colpi la tradizione, la dignità, la religione. Nella società post-moderna la vita umana diventa una semplice appendice della produzione di consumo, la domanda che ci si pone non è 'cosa si deve essere' ma 'come si deve essere'; si mina all'identità personale, la stessa industria culturale di cinema o tv mira a un intrattenimento sempre più massificato.
2.2 Il corpo che si ammala
La personalità può essere messa in crisi da condizioni di varia natura, una di queste è, senza dubbio, l’esperienza migratoria dove un soggetto viene depersonalizzato in quanto il suo corpo non riconosce lo spazio e dove anche gli oggetti appaiono alterati, l’emigrante vive l’esterno con un senso di irrealtà. In una situazione di destabilizzazione anche il tempo vissuto si frammenta, subentra la malinconia, (non a caso la traduzione letteraria della parola “nostalgia” in inglese è homesick che significa “malattia della casa”), il migrante sfuma l’immagine della madre (imago materna) e include il prefisso madre davanti a patria: madrepatria [30].
La solitudine del migrante, quindi è una vera e propria malattia e la sezione dermatologica del pronto soccorso, è spesso affollata di emigranti.
Al fondo di tutti questi atteggiamenti da malato e di questi atteggiamenti davanti alla malattia si trovano sicuramente il rapporto con il corpo e le trasformazioni che questo rapporto subisce, generalmente connesse ai cambiamenti verificatisi nell'ambiente fisico e sociale in cui il corpo è immerso, cioè nelle sollecitazioni esterne esercitate sul corpo e negli usi e socialmente differenziati che se ne fanno.
Abbondano gli indizi del rapporto 'sfortunato' che l'immigrato può avere con il lavoro. Questo rapporto assume talvolta la forma di comportamenti prossimi alla patologia (assenze saltuarie e non motivate, comportamenti 'nostalgici ', 'stress', se il termine non fosse abitualmente riservato a un'altra categoria sociale, quella dei quadri ecc.) ed è collegato alla condizione dell'immigrato, così come alle condizioni di lavoro propriamente dette.
Qualunque sia il punto di vista - emigrazione o immigrazione - dal quale consideriamo la situazione dell'emigrato e dell'immigrato, le contraddizioni non mancano. Una delle contraddizioni maggiori è senza dubbio quella che colpisce le relazioni dell'immigrato con il proprio corpo - corpo come oggetto di rappresentazione e presentazione di se, come sede dell'affetto e dell'intelletto (perché il corpo è abitato da tutto il gruppo che si porta dentro), come strumento di lavoro e come luogo di espressione della malattia.
Come avviene per la contraddizione della coscienza temporale, la contraddizione della coscienza corporea, contraddizione incorporata, è all'origine di tutte le altre contraddizioni. Con la malattia crolla tutto l'equilibrio precedente già precario.
Per quanto l'emigrazione possa essere giustificata, essa rimane sempre sospetta. Un altro aspetto è quello del sospetto di 'tradimento', di 'fuga' e al limite di rinnegamento basta che capiti un 'incidente' di percorso, una leggera deviazione nei comportamenti, perché emerga il senso di colpa, del peccato originario consustanziale dell'atto di emigrare.
La condizione assurda dell'immigrato è particolarmente vulnerabile da attentare all'integrità psichica dei più deboli. Risiede in quella che egli non riconoscerà mai come la causa del suo male e la causa del rapporto di colpevolizzazione che ha con se stesso in quanto emigrato (cioè in quanto assente da casa sua). Il 'male' risiede nella natura pubblicamente 'clandestina' o segretamente 'pubblica' dell’ 'infamia': è in questi termini che si parla della 'cosa' presente allo spirito di tutti i membri del gruppo ma che nessuno vuole pronunciare e di cui l'emigrazione in definitiva si rende responsabile. Il 'male' (la malattia e il malessere) colpisce l'immigrato che non sa dare un senso credibile alla propria immigrazione o, più di questo, che tende a denunciare la propria immigrazione, a metterla sotto accusa e a istruire il processo. Cosa 'clandestina', nel senso che l'attacco portato all'onore e al morale della persona dipende dall'intimità più stretta e tocca il punto più profondo della sfera domestica e della vita privata.
2.3 L'immigrato non è che il suo corpo
Dalla definizione etnocentrica dell'immigrazione come mero spostamento di forza-lavoro e dall'interpretazione dell'immigrato come macchina corporea, è breve il passo che ci porta a pensare che l' immigrato non è altro che corpo. L'importanza organica del corpo, non è altro che l'importanza del corpo come organo, cioè essenzialmente come forza di lavoro e come forma di presentazione di sé: l'immigrato è prima di tutto il suo corpo, la sua forza corporea e la sua presenza attraverso il suo corpo biologico. Tranne che nel lavoro e nelle altre circostanze che riguardano e impiegano il corpo dell'immigrato, l'immigrato rimane inferiore. Nelle molte imprese di 'sollecitudine' filantropica di cui il lavoratore immigrato (specialmente maghrebino) è l'oggetto: esse gli apportano un'assistenza che in fondo costituisce un lavoro pedagogico e un'azione di persuasione comparabile al processo educativo che si esercita su un bambino. Agendo in questo modo, esse contribuiscono a mantenere l’ immigrato in una situazione che lo rende un eterno assistito inoltre, l'immigrato è trattato come un 'bambino' a cui bisogna insegnare a comportarsi bene (tecnicamente e moralmente), a conformarsi alle regole e alle esigenze (tecniche e morali), e in breve a 'vivere' secondo le regole della società di immigrazione.
2.4 La crisi di presenza e la crisi di identità
L'emigrante, come scrive Vito Teti, al momento di partire si separa da se stesso, si 'libera' dal suo 'io' che resta in paese e con il quale spera, un giorno, di ricongiungersi. Chi emigra a paura di quello che può succedere in sua assenza, da una parte vuole trovare il paese così come l' ha lasciato, dall'altra teme di non poter più tornare, a paura del nuovo, dell'ignoto, del mare, di morire lontano dal proprio paese, di non avere sepoltura e di restare spirito vagante per l'eternità, secondo quanto recitavano molte credenze diffuse in tutta la Calabria.[31] Come scrive Perri[32] in Emigranti i calabresi erano atterriti dal pensiero di morire tra gente sconosciuta, senza un parente,un paesano, forse anche senza sepoltura cristiana. Essi che erano abituati a vivere nel loro villaggio come in una grande famiglia.
L’esperienza della migrazione definita frammentazione biografica è da intendersi anche come trauma. È il trauma di chi, muovendo in un nuovo contesto socio-culturale, è costretto a convivere e confrontarsi con soggetti che, non essendo stati socializzati allo stesso senso comune, non possono dargli conferma dell'adeguatezza in assoluto del suo bagaglio di sapere i comuni.[34]
Le identità del migrante si dovranno ricostruite intorno a una linea ideale di confine fra coordinate spazio-temporali sconvolte e ridisegnate dalla migrazione. Le strategie identitarie saranno l'una di ridefinizione e l'altra di ricomposizione di una condizione esistenziale deprivata del senso di appartenenza e di consistenza, entro gli orizzonti di una quotidianità messa in forse e da ristrutturare.
La nostalgia dell'emigrato è anche consapevolezza di non poter tornare indietro. L'emigrante quando pensa di partire è già un altro, ha già attuato cambiamenti.
Nell’ esperienza migratoria ci si trova davanti ad un soggetto depersonalizzato (l’emigrante) che vive l'esterno con un senso di irrealtà, viene disancorato dall'approccio di spontaneità del suo corpo che non riconosce lo spazio, dove anche gli oggetti sono alterati e il tempo vissuto si frammenta col passato. Con il passato che si frammenta nasce l'estraneamento dei ricordi, lo stato melanconico, la solitudine. Perdendo di consistenza il mondo dei ricordi, anche il corpo altrui cessa di essere elemento di relazione.
De Martino nel testo postumo 'La fine del mondo', riprendendo i due concetti di derealizzazione e depersonalizzazione, ci parla della ' crisi di presenza', dove all'interno di una singola cultura un uomo perde la propria presenza (messa in crisi) e la corporeità cessa di essere . La depersonalizzazione è quella condizione nella quale l'essere corpo e l'intenzionalità del corpo viene messa in crisi da condizioni di varia natura .
De Martino analogamente ha studiato le “tarantate” deprivate della propria presenza fattesi ostaggio dell’ animale mitico .
Il senso di smarrimento, la paura di perdersi, il rischio di 'perdita della presenza', non erano sconosciuti alle persone del mondo contadino tradizionale. Molti racconti popolari narrano, appunto, della possibilità e del rischio degli individui dell'antica società di uscire fuori da sé, di perdere la propria identità, di diventare irriconoscibili a se stessi[37]. E così i valori tradizionali, e il 'sapere popolare' diventano oggetto di scherno quando vengono affermati fuori dalle loro 'mondo', perché i valori tradizionali non servono come orientamento nel nuovo mondo.
Ernesto De Martino ha scritto anche del senso di smarrimento e di ansia che vive un contadino calabrese allorquando non scorge il suo campanile, la cui perdita suggerisce il terrore di morire senza il 'pianto triste e consolante' delle campane, la paura di morire tra gente sconosciuta, senza sepoltura cristiana. C'è da dire che l'inquietudine dei primi emigranti è 'giustificata' dall'inesperienza diretta o indiretta di viaggi oltreoceano, c'era gente che non aveva mai visto il mare, e quindi la consapevolezza di sentirsi proiettati in un altrove spaziale, temporale, mentale, culturale era notevole.
Le paure degli emigranti calabresi
Sono i casi di psicopatologia fenomenologica da sempre esistiti: dal padre della medicina Ippocrate[38] che dialogava con la psiche, occupandosi di malati mentali.
Una metafora attuale di un corpo sofferente potrebbe essere quello raffigurato nei cartelloni pubblicitari esposti circa un anno fa di Oliviero Toscani “Anorexia” dove si espone un corpo prosciugato che va incontro ai due stati : de-realizzazione (quando il mondo intorno a noi precipita in un abisso) e de-personalizzazione ( quando in questo mondo non solo ci si perde ma si smarrisce anche il proprio corpo).
CAPITOLO III
3.1 La pelle
Se il corpo è l’ elemento di intermediazione tra il 'me' e l’ altro, la pelle ne sarà il confine, in quanto rivestimento esterno del corpo stesso, lo protegge; essa è la membrana, il filtro tra il dentro e il fuori, l’elemento di distanza.
Anche la pelle, come il corpo, diventa uno strumento di osservazione non solo del medico ma anche dello psicologo.
Elisabetta Franciosi ci dice che la pelle è il rivestimento esterno ed estremo del corpo: protegge, contiene, definisce. La pelle è il filtro tra il dentro e il fuori dell'organismo, la pelle si mostra al mondo: evidenzia l'età, l'etnia, lo stato di salute e le sue ferite. La pelle diviene metafora delle emozioni: 'salvare la pelle', 'rimetterci la pelle' o ancora 'amici per la pelle'.
3.2 Metafore e significati simbolici della pelle
La pelle come contenitore, con i suoi significati simbolici, ci porta inevitabilmente alla metafora pelle-vaso chiuso e alla relazione madre-bambino.
Lo scollamento e la rottura di questa unità mobilitano l'orrore della Madre Terribile[39]. La pelle della Madre Terribile è la pelle da cui bisogna difendersi, ma solo confrontandosi con il suo potere il figlio può nascere.
Preziosi contributi ci arrivano dagli psichiatri citati dal sociologo Sayad, che studiando l'immigrato maghrebino, analizzano come la circoncisione e in generale tutte le tecniche del corpo, danno luogo a 'scientifici' sviluppi.
A partire dalla fasciatura e dallo svezzamento di cui parla Jalil Bennani , o ancora la madre come 'ambiente e essenziale per il bambino, che dispone di lei in modo assoluto', madre che, da parte sua, 'non rinuncia mai al suo bambino, soprattutto se è maschio, poiché costituisce per lei garanzia di riconoscimento sociale', fino all'uso servile che viene fatto, nei cantieri o nelle officine, del corpo dell'immigrato per tutta la durata della sua emigrazione ('il trasferimento, che priva l'individuo delle sue difese sociali abituali, gli fa perdere all'improvviso questo pseudo-fallo necessario da cui derivano pesanti regressioni e, eventualmente, la ricerca compensatrice di una pensione di invalidità il cui ottenimento permette al malato di non perdere la faccia, in quanto compensa la sconfitta professionale'- il riferimento è al trasferimento 'castrante', evocazione psicoanalitica della 'circoncisione-castrazione' del bambino).
Secondo lo studioso R. Berthelier[41], citato da Sayad, si è portati a sottovalutare sessualmente ciò che è già determinato miticamente, cioè il luogo e il potere attribuiti alle donne, in particolare alla madre: gli uomini hanno solo le apparenze di un potere che in realtà non hanno, mentre le donne hanno la realtà di questo potere senza averne le apparenze; la società di origine 'attribuisce all'uomo e valorizza le manifestazioni di un potere detenuto in realtà dalla società delle donne'. Ed ecco spiegarsi le 'reazioni depressive nevrotiche' dell'immigrazione con le sue difficoltà e la frustrazione generata dalla sparizione del 'transfert materno', che assicurava, oltre alla 'società-madre', alla terra nutrice ecc., la madre che si ama presentare come onnipotente e onnipresente, prima durante l'infanzia e più tardi nell'immaginario adulto.
Non ci sono dubbi per gli psichiatri, ansiosi di 'leggere' nel comportamento dei loro 'malati' maghrebini i segni delle strutture sociali, affettive, culturali che credono di aver colto come costitutive della loro personalità di questi malati: la relazione presentita tra il 'corpo', e la 'madre' è una relazione diretta e immediata. Se torniamo sul tema della circoncisione e il rapporto con la madre vediamo che è proprio quest'ultima che introduce il bambino alla cerimonia e che la organizza. La madre segna il bambino con questa castrazione simbolica e detiene perciò un potere sul bambino.
Non a caso il migrante, sfumerà l’immagine della madre (l’ imago materna) includendo il prefisso “madre” davanti a patria.
Non ci sono dubbi per gli psichiatri, ansiosi di 'leggere' nel comportamento dei loro 'malati' maghrebini i segni delle strutture sociali, affettive, culturali che credono di aver colto come costitutive della loro personalità di questi malati: la relazione presentita tra il 'corpo', e la 'madre' è una relazione diretta e immediata. Se torniamo sul tema della circoncisione e il rapporto con la madre vediamo che è proprio quest'ultima che introduce il bambino alla cerimonia e che la organizza. La madre segna il bambino con questa castrazione simbolica e detiene perciò un potere sul bambino.
CAPITOLO IV
Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli »
Carlo Levi
4.1 I “cafoni”
Il sud che sto per descrivere è quello del dopoguerra, affetto da depressione e disoccupazione, situazione paragonabile per certi versi al Maghreb, paese degli immigrati francesi descritti da Sayad e per altri versi a quello studiato da De Martino, raccontato da Carlo Levi o da Ignazio Silone.
Decido anche di dare una voce alla figura della donna, a quella donna che dalla sperduta campagna di Palizzi Superiore (R.C.) abbandona ogni cosa a lei cara
Nel dopo guerra la maggior parte dei contadini lavorava la terra per conto dei padroni. Lungi dal sentirsi esseri umani e cristiani , i 'cafoni' erano sfruttati, affamati, mal pagati, e costretti a lavorare per più di quattordici ore al giorno in un meridione emarginato. I bambini, quando per la tenera età dovrebbero ancora non occuparsi di nulla, sono costretti ad aiutare i loro genitori nell'opera laboriosa ed improficua.
La fame e i soprusi che ogni giorno i contadini erano costretti a subire da parte dei padroni, costringono siciliani, calabresi, pugliesi e campani, a lasciare il proprio paese.
Dare a chi lavora tredici o quattordici ore al giorno, 60 centesimi, come retribuzione del suo lavoro, era una vergogna , un’ingiustizia.
Molti contadini pagavano un fitto elevato, altri erano vittime di usure crudeli, pur di coltivare un pezzo di terreno, spesso sterile e pietroso.
Nel mondo contadino del Sud così isolato e arretrato, povero e illetterato, la popolazione ancora si lega alla magia ed è viva più di ogni altro luogo l ’ esigenza di affermare la propria presenza .
Come ha scritto Francesco Saverio Nitti parlare d'amor patria a chi emigra per fame, perché il lavoro gli manca e perché la ricompensa, che nella dolce patria riceve, è così esigua da non poter nemmeno bastare ai primi bisogni della vita, è una stupidità che non ha nome . La patria intesa in questo senso è un carcere duro. Intere famiglie della Calabria, della Sicilia, della Basilicata, del Salernitano, sono emigrate dopo lunghe lotte per raccogliere le poche centinaia di lire necessarie al viaggio. 'Non si può parlare di patria a quei disgraziati, che la sola fame costringe ad abbandonare il proprio paesello. Il contadino, specialmente il contadino del mezzogiorno, tranne la passione brutale per la terra, ch’egli ha coltivata con tanti stenti e con tanto poco frutto, non intende altro amore ed altra passione' . Così, ad ogni partenza di piroscafo, dal fondo delle province, torme di emigranti vanno ad imbarcarsi, e danno un addio, per fortuna non eterno, alla patria, che è stata crudele con essi.
Chi parte e sa scrivere, possiede una grande ricchezza poiché potrà avere notizie suoi familiari riguardo gli avvenimenti più importanti di quello che succede in Italia.
Il migrante manderà una fotografia ai familiari, egli deve riconquistare il proprio corpo (lo farà rappresentandosi in modo vincente) prima ancora di riconquistare la posizione. I corpi fotografati sono molto composti ed esibiscono una sicurezza sociale che era insolita negli anni difficili. A loro volta i corpi fotografati dai parenti italiani si raccontano in termini positivi. Produrre immagini significa produrre valori, nutrire la propria memoria con le fotografie.
Il corpo del migrante, se ritorna, torna come Ulisse, un eroe, un vincente, dopo un'assenza che non ha mai previsto.
Spesso le famiglie rimaste, perdenti, sono in eterna competizione con i migranti.
4.2 La donna contadina e il mito
Le donne contadine, costrette anch'esse a lavorare in duri lavori, emarginate tra gli emarginati, erano spesso sottomesse ai padroni, ai genitori e ai mariti . Queste donne e i loro corpi stanchi, mi fanno pensare al Mediterraneo antico, ai corpi femminili preclusi al potere. Tra i corpi degli eroi come Ulisse o Achille, figure che illustrano sistemi di pensiero, modelli esistenziali, vedo che quello della donna, congiuntamente alla sua immagine, rimane nelle retrovie.
Come nel mondo greco non esisteva la storia femminile e tutte le eroine dello skenè erano rappresentate solo da uomini che indossavano delle maschere, ruoli pensati da una comunità maschile che pure li incarna, alle donne era proibito recitare, se ne evinceva quindi una donna pensata a misura dell’uomo.
Sono presenti alcune metafore fondamentali che affondano il loro essere nella mitologia: il corpo femminile imita la terra
La donna, come la terra accoglie i semi, infatti nel tema della creazione tra il Caos e il Cosmos nasce Gaiaeuristernos , una Gaia dai fianchi larghi che, al contrario della madre Freudiana non ha bisogno di essere fallica per emanare potere. La metafora terra-corpo nasce dal campo, dalla sacralità dell’ aratura. Diceva Plutarco che il corpo della sposa, prima di essere seminato, va trattato, plasmato, ammorbidito.
La metafora terra-vaso nasce dal concetto che la terra contiene i semi, i frutti, il cibo, accoglie i morti, come il vaso.
La metafora pietra-utero si prolunga nella tavola scrittoria, deltos, che ci rimanda al simbolo delta ( D ) la cui forma richiama quella del sesso femminile. Un’altra connessione in questo caso è quella con Medusa, la Gorgone che pietrifica chiunque incroci il suo sguardo, Medusa che ha in testa un groviglio di rettili , simboli fallici in Freud.
Il serpente, simbolo fallico nell’ interpretazione dei sogni dello studioso austriaco, ci dice che la donna, accostata al serpente, ha invidia o è vittima del potere.
La nozione di corpo-soma slitta in corpo-sema dal momento che di fronte a un cadavere caduto in battaglia Priamo dice che tutto è bello, poiché il corpo feconderà la terra.
4.3 La donna e Il silenzio
Intervistando le donne, ci si accorge che sono loro che conservano tutte le lettere, sono loro le interlocutrici più preziose. Entrando nella casa di una donna, specie se è anziana, lei indica subito le fotografie del congiunto caduto custodite sul ripiano della credenza, tra le immagini delle madonne e dei santi e dei nipoti sposati . L’ approccio dei discorsi è quasi lo stesso : l'America, il lavoro, i giovani che abbandonano la terra, l'Italia, Berlusconi.
L'America per queste donne significava il distacco dai loro mariti, l'angoscia continua dell'attesa, lo spavento dell'ignoto, forse l'abbandono, la vedovanza.
Se si intervista la coppia di coniugi, si va incontro ad un'altra dinamica.
Di solito è l'uomo che occupa il posto di comando, è l'uomo che si siede subito dall'altra parte del tavolo, di fronte al registratore o alla telecamera, ed incomincia a parlare. La donna invece, per rispettare la tradizione e potere rendere credibile l'immagine dell'uomo padrone, si rifugia zitta in un angolo come se lo spazio della cucina non le appartenesse più
Il silenzio della donna migrante è un silenzio lucido, strategico, a cui si contrappone un corpo naufrago La donna interferisce raramente, e solo quando intende puntualizzare una situazione o ridimensionare il racconto troppo trionfalistico dell'uomo. La donna ascolta tutto però, e giudica.
Decido di non intervistare una coppia in una stessa seduta, perché spesso, a causa della prepotenza dell'uomo, la donna rimane in silenzio.
Il tema del silenzio è presente anche nel mondo greco in cui è molto difficile trovare la voce delle donne: Teano, maestra del silenzio, aveva il compito di trasmettere i saperi della dottrina pitagorica, segreti tramandati da madre in figlia poiché la donna è il contenitore più sicuro].
“E’ preferibile affidarsi a un cavallo senza freni piuttosto che ad una donna dissennata” si diceva.
Il silenzio femminile non è sempre passivo o sottomesso se pensiamo a quello omertoso delle donne mafiose dei nostri tempi che occupano anche ruoli di spicco e di comando.
Anche tra le fiabe calabresi di Raffaele Lombardi Satriani troviamo una duplice visione della figura femminile: da un lato quella riservata, chiusa al silenzio, dall’altro una madre potente che fa’ dei propri figli quello che vuole, può permettersi addirittura di sgozzarli.
Tornando al mito, le voci delle donne che hanno affollato la scena della cultura greca classica, vengono sottratte al silenzio storico che era stato loro inflitto. Il principio del silenzio che la filosofa trasmette alle donne era molto sentito nella setta Pitagorica, era anche un rito iniziatico (per Pitagora il silenzio deve essere l’ abitus che riveste sia l’ ethos che il pathos) , è un silenzio solidale, di genere. Teano suggerisce di stare fuori dalla vita cittadina, di bandire qualsiasi culto dionisiaco, di offrirsi ai sacrifici di Apollo, di mantenere un contegno pudico in pubblico, di provare vergogna quando si parla davanti agli estranei. Bisogna quindi astenersi poichè parlare equivale a denudarsi.
Teano, donna di Crotone, col suo compito di custodire segreto di Pitagora, funge da contenitore, elargendoci la metafora donna-vaso.
CAPITOLO V
5.1 Il viaggio come metafora iniziatica e come processo di rinascita
E’ proprio quel forte desiderio di annullarci che ci spinge a partire[60].
L’ Antropologia considera il viaggio come uno strumento di analisi, fondamentale per studiare e capire l’ “altro”, per comprendere ciò che noi chiamiamo “diverso”, sia che si parli di popoli lontani o vicini a noi.
Prima ancora di formarsi come scienza, l’ antropologia vive come letteratura di viaggio, nei diari dei geologi, dei mercanti degli esploratori, dei militari, vive quindi nel viaggio.
Il tema del viaggio nella letteratura ha origini molto antiche: l’ eroe omerico Ulisse viaggiando e scoprendo nuovi luoghi, si confronta inevitabilmente con altri popoli ma anche con se stesso, mettendosi alla prova.
Già nel IV sec. avanti Cristo, Erodoto fa delle osservazioni con descrizioni minuziose e dettagliate sulle diversità tra i Greci e i Barbari. Lo storico dell’ antica Grecia si potrebbe considerare un precursore, per certi versi, della disciplina scientifica.
Gli studi sul fenomeno del tarantismo[61] di De Martino, mi danno modo di introdurre il viaggio come metafora.
Mentre si consumano le proprie energie nella danza il malato percorre un vero e proprio viaggio , come espiazione, come ripensamento, come rimorso (il fatto che ogni anno la taranta ritorni e rimorda e il tarantato, per curarsi, deve ballare ancora).
Il corpo del migrante che viaggia (e che torna) è come quello di Ulisse, un eroe vincente, dopo un'assenza che non ha mai previsto.
Leggendo “Andare lontano[63]”, importante antologia di Sandra Puccini, il viaggio è inteso come processo di “rinascita”, dove il “se” si rinnova, si mette in discussione, si purifica, cambia aria (come diceva il Mantegazza a proposito dell’ Argentina ) .
Pensare a noi stessi equivale a un viaggio come rinascita iniziatica: morte e rinascita.
il viaggio viene descritto attraverso il lavoro di alcuni uomini che partono con ambizione, emulando le vecchie imprese coloniali inglesi e francesi, un colonialismo spesso protagonista di un’ acculturazione violenta.
Nel libro della Puccini lo spirito è quello dei viaggiatori dell’ ottocento italiano, quello della gloria, di superare prove ardue, il tema del viaggio è un tema vincente. L'emigrato diventa errante, viaggiatore, sognatore.Vince chi viaggia. Come Ulisse nell’ Iliade (il viaggiatore eroe, che torna in patria per raccontare le sue gesta).
C'è da dire che in quel caso, l’ emigrazione era vista come una scelta, una terapia e non come un’ esigenza o una forzatura.
Il viaggio reale, comunque, è uno spostamento nello spazio: un andare altrove.
Se il viaggio è un andare altrove, sarà anche un andare oltre, oltre la cultura del viaggiatore stesso, al di là dei confini mentali che separano il “noi” dagli “altri”, oltre quei confini psicologici della propria cultura, ed ecco che il viaggio assume un carattere mistico, metaforico.
5.2 Emigrazione e morte.
Partendo dal presupposto che è sempre importante contestualizzare e che non possiamo rinchiuderci in un intellettualismo esasperato come spesso fa una certa cultura neopositivistica che ha bisogno di risposte immediate, logiche, razionali.
I criteri valutativi andrebbero invece buttati dalla finestra, dobbiamo prescindere dall’ imperialismo positivo, poiché in passato abbiamo avuto a che fare con credenze, ma anche con il mito che, con la sua dimensione simbolica, necessita di un altro approccio, un altro punto di vista.
Non sorprende l'accostamento tra emigrazione e morte la cultura folklorica ha stabilito da tempo un'equiparazione che non annulla le differenze ma pone in risalto le analogie. Si pensi al lamento funebre fatto in occasione oltre che della morte, della partenza dell’ emigrato; si pensi alla 'corredo della tomba' analogo al corredo del viaggiatore; si pensi ad altri numerosi segni attraverso i quali viene notificata dalla cultura folklorica la sostanziale identità tra la condizione di emigrato e quella di morto.[65]
Si pensi al 'ponte di San Giacomo[66]', quel ponte simbolico che le persone devono attraversare prima di entrare nel regno dei morti.
Vito Teti sottolinea il nesso morte-emigrazione e fotografia-morte riferendosi al bisogno umano di mettere assieme e custodire, per essere protetti e garantiti, le immagini di 'persone' che venivano in una dimensione altra, fossero essi morti, e immigrati, santi .
Il viaggio oltreoceano viene paragonato dal professore calabrese al viaggio ultrà terreno, il viaggio senza ritorno dei defunti.
Vergini folli e
donne esemplari, madri assassine e miti fanciulle relegate dalla storia nel
silenzio della sfera domestica: questo volume trae dal panorama mitico ed
epico-letterario della Grecia antica modelli rappresentativi di una nozione
occidentale dell’identità (o dell’alterità) femminile.
quando un soggetto in condizione migratoria si depersonalizza, lascia la
famiglia, lascia i figli, chi va in America parte perché cedere all'immagine
del paese mitizzato, l'America paese del 'bengodi'.
5.3 La fotografia: documento, simbolo, lettera iconica
In questo lavoro sono presenti alcune fotografie scattate dai soggetti migranti nei paesi che li hanno ospitati.
La fotografia per l'emigrato si può costituire come strumento di ricomposizione dell' io, come modo e mezzo di recupero di identità, come quella dei calabresi che si è affermata e formata anche in relazione alla cultura osservante.
Gli emigrati fotografano e fissano, ovviamente da dilettanti, momenti da loro ritenuti importanti (scansioni della ritualità familiare-battesimi, matrimoni - e collettiva - processioni e altri rituali festivi - ). Tali momenti sono fissati anche da coloro che sono rimasti nei paesi e fotografie e film possono essere oggetto di uno scambio - realistico e simbolico - tra 'coloro che sono rimasti' e 'coloro che sono andati via'. L’ insieme di tali documenti costituiscono, a nostro avviso, sguardo nell’ altrove e sguardo dell’ altrove.
Gli emigrati fotografano il filmano secondo modalità suggerite da quel magma di parametri valutativi nel quale vecchia cultura e nuove forme sono andate confluendo, quasi sempre conflittualmente o, quanto meno, schizofrenicamente.
Come ci fa notare Roland Barthes , ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più 'false' (meno 'autentiche'). Il consumo di immagini ha sostituito, nella nostra società, il consumo di credenze.
Si va incontro ad una progressiva cecità nella cultura subalterna.
Non è un caso che si trovano sempre più turisti intenti a immagazzinare immagini piuttosto che interessati a guardare davvero la realtà circostante.
Un elemento indiscutibile è la ritrosia ad essere ritratti, fotografati o filmati che equivale a un consegnarsi inermi al dominio. Un ritratto sottrae qualcosa alla persona ritratta, l'immagine: e, per questa sottrazione, il pittore acquista un potere assoluto su chi ha posato per lui. C'è una spiegazione in ambito etnologico: 'secondo la mentalità primitiva, farci fotografare significa perdere la propria anima; in quanto che chi ha la fotografia può esercitare su di essa qualsiasi azione che, per effetto magico, si ripete nell'originale' . Il primitivo, ricorda J. Frazer, considera la sua ombra e il suo riflesso come la propria anima, allo stesso modo il ritratto pittorico e quello fotografico, essendo rappresentazioni dell'anima o comunque racchiudendola in qualche modo sono sottoposti a un regime protetto, atto a scongiurare il rischio che la loro cattura comporta per l'integrità psichica e fisica dell'uomo. La cattura delle immagini, il loro possesso in mani estranee, il loro trasferimento in luoghi lontani, offre agli operatori iconografici un indefinito e smisurato potere di dominio e manipolazione.
Contemporaneamente all'iconofobia vi è l'intenso bisogno del migrante di rappresentarsi, di figurare, attraverso la realtà della propria presenza, il indietro del silenzio e dell'emarginazione, proprio della cultura contadina.
La fotografia dei corpi viaggianti che hanno avuto una funzione di raccordo e di comunicazione sistematica tra emigrati e parenti rimasti nel luogo di origine, diventa documento e oggetto di reciproco scambio fra emigrati e comunità di appartenenza, verrà a ad offrirsi costitutivamente ad una duplice lettura: come fonte di documentazione e 'autenticazione del reale' e al tempo stesso come simbolo, 'referente mitico' di ogni dato reale.
Come scrive Vito Teti l’ invio della fotografia da parte degli emigrati nella comunità origine, risale a fine 800. La fotografia informa visivamente, trasmette notizie, curiosità, segnala le novità e il benessere 'del nuovo mondo'. Le fotografie divengono lettere composte secondo codici culturali condivisi, che coniugano il linguaggio del corpo con un'abile e partecipe scrittura iconica.
Reciprocamente anche per chi rimane la fotografia è avvertita come strumento privilegiato nella relazione con chi è emigrato. Costui resta, nella vita sociale e paesana, come un fantasma. Farsi fotografare significa sacrificarsi, offrire parte di se, offrirsi a colui che è lontano.
CAPITOLO VI
La prima classe costa mille lire, la seconda cento la terza dolore e spavento e puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare e morte.
F. de Gregori
6.1 Viaggio in Argentina
Approfittando delle festività natalizie, mi sono recato in Argentina, a Buenos Aires, per raccogliere le testimonianze di alcuni lontani parenti e connazionali emigrati negli anni ‘50 del secolo scorso.
Il viaggio, ufficialmente concepito per raccogliere materiale utile per la mia tesi di laurea triennale, è stato un pretesto per andare a trovare una parte di me.
Ho portato loro in dono, tra l’altro, dei prodotti alimentari, certamente introvabili in Argentina, come i dolci tipici che in Calabria si preparano per Natale (pretali), salumi e formaggi del paese, ma anche pasta e caffè italiani che, sebbene sia possibile acquistare sul posto, hanno prezzi proibitivi per le loro finanze.
Ivania (cugina di mia nonna paterna) vive a B.A. da oltre 50 anni, la sua accoglienza è stata sorprendentemente affettuosa (era il nostro primo incontro) ed emotivamente coinvolgente. Mi ospita nella sua casa le cui pareti sono ricoperte di fotografie dell’ Italia e scaffali che contengono un’innumerevole quantità di volumi d’arte dei più grandi autori italiani del passato e libri di storia.
In casa di Ivania ci sono anche due delle sue sorelle, tutte donne forti con trascorsi di sofferenza alle spalle.
Sina, Ivania ed Egle mi chiedono notizie dei paisani di Palizzi Superiore, senza quasi rendersi conto della smisurata quantità di tempo trascorsa dalla loro partenza domandandomi infatti, della tale persona o del tal’altro, gente già anziana all’epoca, quindi defunta da tempo, sembra quasi che per loro il luogo e le conoscenze della giovinezza siano rimasti immutati nel tempo.
Dopo calorosi abbracci ci accomodiamo per guardare insieme l’omaggio che hanno gradito di più: un dvd dalla durata di oltre di due ore (che loro hanno giudicato troppo breve!) contenente centinaia di fotografie del loro amato paesello che un cugino di mio padre, con la passione della fotografia, ha realizzato appositamente per loro.
Anch’io tra loro riconosco luoghi ed oggetti obsoleti: la mmendolara dove giocavo da piccolo insieme ai miei cugini e da cui mi ritiravo con le tasche piene di mandorle, la foto di un asino mi fa ricordare Ciccio, quello dei miei nonni, penso all’odore della merenda fatta con pane olio e zucchero, all’ uva che rubavo nel vigneto dei vicini insieme a Bruno (che non c’è più) e Gianni; rivedo la Rocca , la piazza, le cantine col vino in cui gli anziani giocavano a carte a patruni e sutta , la gigantesca chiave della cantina di nonno appesa ad una parete , una vecchia carabina militare , utensili che non si usano più.
6.1 Interviste
Intervista a Giovanna Egle Versace, Buenos Aires, 3-1-2009
Mi chiamo Giovanna Egle Versace, parente dei Versace già famosi, adesso ho settant’anni, mi mantengo bene, grazie a Dio in salute, ho fatto la professoressa di storia, di italiano e di spagnolo, adesso sono entrata in pensione da un anno, ho cambiato casa, vivo da sola. Sono italiana a tutti gli effetti, ho la nostalgia della nostra bella Italia. Dopo la guerra, 1950 siamo arrivati in Argentina il 4 gennaio dopo un viaggio disastroso come tutti gli immigrati che venivano da quelle parti, è una famiglia numerosa, tutti piccoli, io avevo undici anni, in Italia le condizioni economiche erano molto precarie, non si sapeva cosa fare e mio padre ha cercato fortuna in quello che si chiamava America. Allora l’ America era tutta una, non c’era differenza tra quella del nord e quella del sud.
Siamo entrati in America del Sud grazie a un atto di chiamata da parte di un parente, il fratello di mio padre che è venuto prima insieme alla mia sorella più grande e al fidanzato, due ani dopo siamo venuti noi. Cosa mi aspettavo? A dieci anni molte aspettative non avevo, ne’ sapevo a cosa andavo incontro. Ad essere sincera non mi sono mai trovata perché mi mancava moltissimo e mi manca ancora la mia patria la mia bella Italia, il mio posto di origine, avevo i compagni, avevo finito anche la scuola elementare, mi trovo qua senza sapere la lingua spagnola, la cultura, non conoscevo niente.
Dopo un mese sono entrata in una scuola, mi hanno fatto l’esame, mi hanno messo un grado meno nell’ elementare, poi mi sono messa a studiare moltissimo perché avevo quel complesso di non saper parlare, della conoscenza che avevano i miei compagni, poi sono arrivata ad essere una dei migliori, ho studiato sempre, non ho smesso mai di studiare nemmeno adesso, mi piace e lo faccio con interesse personale. Adesso mi trovo in pensione, con gli anni, con tanta esperienza, conoscendo molto bene la cultura, grazie a Dio, ho viaggiato molto negli Stati Uniti, sono stata anche con gente molto per bene, ho incontrato istituti culturali, consolati italo-argentini, nel 90 fino al 94 lavoravo per l’intercambio tra il consolato argentino e quello italiano. Le condizioni e la durata del mio viaggio sono state disastrose, le difficoltà all’arrivo, l’ho detto tutto era un problema, poi ci siamo sistemati, mio padre ha preso in affitto un bellissimo appartamento con gli anni tutti hanno preso la sua strada.
Ora ho due figli, due maschi, ho anche due nipotini, preziosi e intelligenti, anche la mia nuora insegna. L’ altro figlio ce l’ho a Milano perché l’idea era sempre quella di ritornare in Italia, però i problemi di famiglia sono stati moltissimi e non è stato possibile, sicchè siamo rimasti un po’ disgregati. Siamo così adesso. Mio padre si è radicato qui in Argentina, logicamente anche noi abbiamo fatto casa, ma il mio desiderio, forse morirò con questo desiderio, è di ritornare in Italia e di vivere gli ultimi anni miei in Italia, non so se è possibile perché adesso siamo ben sistemati, abbiamo belle case, sorelle e fratelli. andiamo e vediamo! Ho nostalgia dei miei compagni di scuola, dei compagni di gioco della piazza del nostro paesello che adesso lo vedo attraverso i cd che sono bellissimi ma è diventato una rovina, il centro degli studi di archeologia, di antropologia…E’ stato molto difficile integrarsi, ci sono stati tanti milioni di italiani quando è finita la corrente migratoria anni ’54, ‘55 siamo rimasti qua, gli italiani hanno costruito tantissimo e hanno fatto tanto per portare avanti l’ Argentina. I rapporti con gli italiani sono bravi [tanti] e buoni, mi piace andare alle conferenze, alla Dante Alighieri, alle riunioni, è un motivo anche per stare un po’ insieme con gli italiani che sono rimasti. Noi qui siamo in Argentina però hai visto in casa mia che ci sono tutte cose italiane, ci vestiamo all’italiana, le nostre case, la nostra cucina è tutta italiana specialmente la mia, noi abbiamo due vite, una vida che abbiamo lasciato quella di qua. Anche l’Argentina ha posti bellissimi, bisogna riconoscere che ci sono stati tanti italiani che hanno portato tanta cultura….potrebbe essere uno dei paesi più belli del mondo ma i governanti…
Con il luogo di origine cerchiamo di parlare il nostro dialetto calabrese, facciamo un poco di miscela con lo spagnolo e l’italiano e sempre ci divertiamo molto e sempre parliamo del nostro paese, quando ci siamo riuniti tutti parliamo dell’ Italia, delle nostre usanze, dei nostri parenti dei nostri amici e sembra che la lingua batte dove il dente duole, è la nostalgia che non si perde mai, la mia e di tutti gli italiani. Il desiderio di tornare è sempre latente, spero di farlo se Dio ci aiuta, di abbracciare i miei compatrioti, parenti e amici e di sfruttare, di perdermi, contemplare tutto quello che è l’arte italiana, la musica, le bellezze naturali, la gente, la cultura, la sua moda, la sua cucina, mi piacerebbe stare in tutti i posti…e un bacio e un arrivederci a tutti gli italiani!
6.2 Intervista a Sina (Teresina) V. Buenos Aires, 4-1-2009
Sina, la maggiore delle cinque sorelle, è emigrata in Argentina all'età di vent'anni. La mia richiesta di intervistarla con l'ausilio di un registratore o di una telecamera è stata gentilmente respinta ma l'alternativa che ho avuto in cambio è stata molto preziosa: una lettera scritta con un linguaggio sincretico contenente parole in spagnolo, italiano e dialetto calabrese.
Ho dato un foglio con poche domande che toccavano alcuni punti salienti lasciando però la libertà all'intervistato di scrivere come volesse.
[…motivo della partenza: la desolazione a vent'anni vissuti in una valle fra due alte montagne: Palizzi Superiore senza conoscere altro che tutto ciò che offre la 'naturaleza', vent'anni dal 1928 che sono nata, al 1949, sono stati anni semplici, con la preparazione che ci infundia il Fascismo, l'allegria dello sport, la cultura del lavoro e del sapere basico, io dico basico perché la mia età era molto giovane però molto avida di sapere, però in quel luogo le notizie erano poche. L'Italia era devastata dalla guerra e non offriva niente erano anni di paura, di bombardamenti e di fame. Finalmente nel 1949 riesco ad ottenere il mio diploma di maestra, lo posso assicurare e eroicamente perché gli esami li facevo a Reggio Calabria, 60 km lontano dal mio paesello con molti sacrifici… allora con i miei diciotto anni e credo modestamente un poco attraente, mi sono fidanzata, con un reduce di guerra molto simpatico e buono ma più povero di me. In quel periodo chi aveva un parente in America si faceva carico del familiare che voleva emigrare c'era la possibilità, allora mio padre aveva un cugino in Argentina.. siamo arrivati in Argentina e il 24 settembre 1949 con un misero barco Giuseppe Verdi, credo l'ultimo viaggio che ho fatto perché ero distrutta, dopo 24 giorni di navigazione posso dire un viaggio pessimo e affollato siamo sbarcati senza un soldo in tasca. Non posso parlare del mio stato d'animo in quel momento, non avevo esperienza, non conoscevo privazione di ogni genere, le estreme difficoltà della guerra, il bisogno di tutto per le mie sorelle e fratelli e la mia famiglia il mio diploma nuovo di zecca, la speranza di formare una mia famiglia con la contrarietà di mio padre assoluta. Siamo sbarcati senza meta, senza conoscimento a niente, perduti non mi è sembrato un luogo che ci aspettava, che ci accoglieva era tutto da esplorare con difficoltà, con l'idioma, le usanze tutte differenti… la prima volta che ho visto prendere il mate[75] era da una signora molto grossa seduta nel mezzo di una terrazza che sembrava un monumento… durante il viaggio non avevo immaginato quello che potevo incontrare. Ci ha ricevuti mio zio con la famiglia, la zia due figli e genitori della zia conosciuti al nostro arrivo, mai avevamo avuto una corrispondenza, per me sono apparsi dopo la guerra. I disagi sono lunghi e irripetibili, i primi tempi convivere senza lavoro, senza mezzi economici, senza idioma, senza un alloggio comodo e indipendente. Al quarto mese mi sono sposata, iglesia e civile senza altri movimenti mio padre e il mio fidanzato e incominciano a lavorare, affittiamo casa con tutte le peripezie, dopo un anno di risparmio e di lavoro intenso paghiamo i viaggi a tutta la mia famiglia,7 persone, vivevamo tutti insieme in un appartamento, però incominciavamo a rivivere. Prima di un anno dalla mia permanenza in Buenos Aires ero pronta a ritornare in Italia, ma ricordando l'ambizione di mia madre, fuggire da quel Palizzi, mi sono tranquillizzata a lottare in questo paese, non volevo stare lontano da tutta la mia famiglia. Cuando tutta la famiglia si è riunita abbiamo incominciato a lavorare e poco a poco ci siamo sistemati, io sapevo bene che da questo continente mai più ci saremmo ritirati e così fu. Io mi sono formata nel mio paesello una formazione amplia in tutti i sensi perché le vicissitudini, il tempo, la precarietà, mi hanno insegnato tutto ciò che ho bisogno per una vita sana solidaria e affettuosa. Io amo il mio paesello anche ora che quasi non esiste, spesso mi rispecchio nell'addio di Lucia del Manzoni. La integrazione è stata molto difficile, e devi abituare ad un altro stile di vita e stare attenta a non sbagliare, ci osservano e non tutti sono contenti accanto agli immigrati, non sanno calcolare se la loro reputazione è buona o mala hanno certo. iniziativa, voglia di fare, e questo si vede ma non tutti lo vedono con ammirazione. I rapporti in tutti i sensi sono freddi hanno solo un senso di materialismo e allora non esiste pienamente una confianza . Il rapporto con il luogo di origine e io lo conservo intimamente non c'è campo di svolgimento salvo qualche parente che ancora ci sentiamo. Sempre ho vivo il desiderio di radicarmi nella mia Italia, ma a ottanta anni ho una bellissima famiglia tutta Argentina con la mia esperienza, lo dico triste, inculco ai miei discendenti che amino la sua Patria.
Fra la copiosa diversità etnica c'è una silenziosa rivalità che non impedisce tu libero svolgimento d'azione, non c'è partecipazione politica cioè noi immigrati non votiamo, non contano gli anni di permanenza nel paese.]
Intervista a Ivania Francesca Versace, Buenos Aires, 5-6-2009
“Il mio nome è Ivania Francesca Versace, ho settantadue anni, adesso sono casalinga infermiera, cuciniera. Luogo di origine? sono italiana, calabrese, di Palizzi Superiore. Io non sono partita, a me mi hanno portato, ero una ragazza di quattordici anni, avevo appena terminato la seconda media e quindi mio padre, anzi mia madre ha deciso di venire in Argentina e siamo venuti tutti in un blocco. Eravamo cinque minorenni, mia mamma, io ero la più grande dei cinque minorenni poi c'era mia sorella più grande che aveva il suo passaporto… il contatto era uno zio che aveva fatto la domanda, anche lui a suo tempo,ehm come si dice, latitante con la prima guerra verso il 1915 se n'è andato per non fare la guerra… Questo zio è stato molto affettuoso, ci ha accolti come figli ci hanno ricevuto in una casa dove c'era un gran “patio[78]”, c'erano delle piante e avevano fatto pure ”l'assado ”, in Argentina abbonda la carne, c'è molta carne ed è particolarmente saporita e quindi era un omaggio fare l’ assado quando si arrivava. C'era una cugina che era come un monumento, grande e grossa e vestita di nero e che sembrava una statua, per noi era una curiosità silenziosa, nessuno di noi parlava con quelli che c'erano, due cugini che già erano grandi ci guardavamo e nient'altro… in quel tempo abitavamo in affitto presso uno zio,il fratello di mio nonno, che come tutti gli emigrati, quelli che c'erano già da prima, si approfittavano di quelli che arrivavano, si approfittavano della povertà dell'innocenza e della fiducia, tutte le cose più povere dello spirito umano, quindi mio padre ha dovuto pagare per questo appartamento una somma di quattro o cinque volte superiore a quella che lo Stato stipulava perché l'appartamento che noi abbiamo abitato era fatto con la mutua dello Stato… dovevamo pagare ottanta pesi e invece ne pagavamo quattro cento cinquanta, somma che in quel tempo guadagnava un impiegato importante e mio padre doveva pagare quella somma! Vuoi che segua su questo tema? Questo è un tema psicologico su come si trattavano gli immigrati tra loro, quelli che erano già in possesso, sistemati, che avevano case, in quel tempo l'Argentina stava bene, si approfittavano degli emigranti che venivano dopo, era un usufrutto, come si dice? -sfruttamento- sì, sfruttamento sul genere umano, su quelli che venivano dopo con tutte le sofferenze, le sue nostalgie, le sue pene per aver lasciato la sua casa, i suoi genitori, i suoi parenti il suo ambiente, i suoi esiti, i suoi trionfi e tutto quello che avevano potuto ottenere fino a quel momento della vita. Quindi fuori! Emigrati, si usciva dalla guerra,una cosa bruttissima, io ricordo mia mamma che faceva la scrittrice di tutte le persone che avevano i figli, mariti, zii, cognati, in guerra e mia mamma faceva le lettere, ricordo la scala di Palizzi con le donne con il fazzoletto nero tutte vestite di nero aspettavano che mia madre o gli leggesse le lettere o le risposte. Mia madre non voleva quello per noi, assolutamente e nella prima opportunità siamo venuti in Argentina, giustamente per lasciare tutte le sofferenze che apporta la guerra.Le aspettative erano enormi, o silenziose, eravamo piccole, non avevamo una esperienza o un'illusione o una speranza, la nostra era seguire studiando, seguire i nostri genitori come lo abbiamo fatto e per l'età ognuno ha fatto come ha potuto: la sorella maggiore che era Sina si è sposata con il fidanzato che portava e così siamo rimasti con mio padre e Mimma, la sorella più grande delle sette che siamo venute. Mimma pure si è messa fidanzata più o meno presto e si è sposata quindi io sono rimasta la maggiore a fianco di mio padre e allora siccome mio padre doveva pagare un affitto così alto perché lo zio lo aveva 'agevolato'… quando ho visto che le cose per mio padre si mettevano difficili io ho deciso di non studiare più e di aiutare mio padre e così ho fatto, mi sono messa a lavorare…[ Ivania si commuove quando mi dice di aver rinunciato agli studi per lavorare]. siamo partiti da Palizzi il 23,24 dicembre del 50, siamo stati a Roma, l'anno Santo e dopo di Roma siamo andati a Genova per fare la visita, c'era una grande burocrazia, eravamo tutti piccolini in fila e bidelli in forza dopo siamo stati a Napoli e da Napoli siamo venuti in Argentina. Era una nave di trasporto di grano che si era aggiustata più o meno per portare le persone e mi ricordo che eravamo divisi, le donne da una parte degli uomini dall'altra. Le condizioni del viaggio erano nefaste, la “durazione” era quasi 25 giorni, noi eravamo una famiglia numerosa sulla nave, era la prima volta che noi uscivamo dal paese con tutta la famiglia, mia madre non aveva una grande esperienza, voleva proteggerci ovviamente a tutti i figli, noi non mangiavamo niente perché gli odori e tutta quella frutta, carne, pane e tutto quello che c'era per noi erano troppo forti ed allora il capitano aveva preso in considerazione mia madre e nei bambini veniva dato cioccolata e quadretti di zucchero, quando andavamo al “comedor[80]” tutti ci tappavamo il naso per gli odori. Le mele erano grandi ma puzzolenti per il nostro olfatto. Ci è toccato un posto in cui faceva un caldo da morire perché c'era la caldaia, la madre era piccola, con le mareggiate specialmente passando il Golfo di Gibilterra… ci siamo confermati, la mia sorella più grande ha passato molto tempo in infermeria e anch'io ma sapevamo che si arrivavamo a Buenos Aires e qualcheduno aveva febbre o qualche infermità non poteva scendere, doveva fare la quarantena nel porto, nella casa degli emigranti dove ti ho mostrato, io sono stata la ultima che era in infermeria e mi ricordo che quando siamo stati fermati sul Rio della Plata, passando Montevideo, non so quante e quante ore e alla sera verso l'imbrunire e siamo arrivati a Buenos Aires con l'ansia di scendere e di abbracciare mio padre. A Montevideo avevo la febbre e quando venne l'infermiera e mi dà il termometro da mettere dove corrispondeva, io invece l'ho tenuto lontano! [Ivania si commuove e ride di gusto]. siamo tutti scesi, grazie a Dio perché eravamo tutti sani e ovviamente anche la febbre non avevo più, era tutto sparito. Per noi piccoli non c'erano difficoltà, perché eravamo protetti da mio padre e da mio zio..[Giorgio, il marito ottantaseienne di Ivania di origini spagnole ma con un bisnonno genovese, ci interrompe dicendo che donna Maria, la madre e delle sorelle Versace sognava di andare in Nord America però non poteva entrare lì perché avevano stabilito un limite e così il governo italiano mandava i nuovi emigrati in Venezuela, in Brasile, Uruguay, in Argentina]. Non sapevo che fosse un viaggio definitivo però in nessun momento abbiamo pensato di ritornare più o meno c'eravamo sistemati, i miei fratelli hanno studiato, io non ho frequentato perché dovevo aiutare mio padre però ho avuto un professore,un maestro che mi ha aiutata moltissimo e tutto quello che so lo devo a lui..[veniamo di nuovo interrotti da Giorgio che ci dice: “la gente que llegó del norte de Italia deseó entrar en América, hacer l'America, ganar dinero y volver a la Italia pero la gente pobre del sur de la Italia cuando ella ha llegado en Argentina se siente protege, porque la manera de como vino repartido, ha comenzado a construir casas y a tenerlas decidido para permanecer. ]
Mia sorella Egle ha studiato e si è diplomata da maestra, tutti gli altri si sono laureati e qualche cosa, mia sorella più grande ha avuto un figlio argentino, Marcello, mia madre amava l'Argentina e quindi era impensabile ritornare. Mia madre voleva ritornare in Italia e l'abbiamo fatto grazie al mio marito e tre volte però che si era innamorata di Buenos Aires, specialmente di notte, mia madre ha scritto una biografia dalla sua “salita[82]” dall'Italia, un libro che ci aiuta a riconoscere vari posti dell'Argentina… ho la nostalgia della fanciullezza, perché non avevo nessuna preoccupazione, l'unica era quella di divertirmi con le mie amiche, con le mie sorelle e con le monache, fra monti e valli e fiumi e “crape !”. Quella è una ferita che è rimasta aperta, lasciare la casa… uno guarda indietro e vedi che la casa che ricordavo grande grande quando sono tornata con mio marito e gli dicevo di una grande piazza quando siamo tornati ho detto: 'Madonna mia i a chiazza aund’è? S’a levaru a chiazza?” La piazza era la stessa, era piccola, non era grande come nella memoria e così per la chiesa di Sant'Anna, si aveva la nostalgia di quegli anni felici, felici per noi e non per i nostri genitori perché come ho detto prima c'era la guerra incluso quando “toccavano” le campane, l'allarme delle punte quando dovevamo correre tutti al rifugio, sotto una roccia ed eravamo costretti a fare i nostri bisogni in mezzo agli altri e mia madre 'aspettava' Anna Maria, le prime volte andava dopo ha deciso di non spostarsi nemmeno con l'allarme bomba. Ricordo un'esperienza più 'festiva' quando mio padre ha messo su 'nu scieccu ” le cose più importanti della casa, coperte, pentole, roba per noi, posate e bicchieri tutto dentro 'una bertula ”, e quando si saliva verso la montagna, con tutte quelle cose che dentro il sacco che facevano rumore noi bambini ci siamo messi a cantare e ci siamo divertiti molto, una cosa molto felice per noi ma molto triste per i nostri genitori: l'allarme, la fuga dalla casa e proteggere i bambini “chi eravamu nui chi ndi rridivumu da situazioni!”
È stato difficile integrarsi perché noi venivamo con una sensibilità ed una preparazione ed una cultura malgrado eravamo della montagna noi eravamo in un certo senso civilizzati perché mia madre era presidente dell'azione cattolica da moltissimi anni, era una persona che leggeva molto, filosofo, il suo unico lavoro e imparare ai suoi figli la cultura e la buona educazione, in più Sina studiava a Reggio Calabria, siamo state tutte e a Reggio Calabria e quindi c'era una corrente di civiltà, eravamo differenti e per questa sensibilità e per questa cultura, si che abbiamo sofferto! Come la gente di qua ignorante voleva prendere in giro o superarti, io vedevo come soffriva mia madre, mia sorella Sina come soffriva mia sorella Mimma, si soffriva la differenza di cultura noi non sapevamo lo spagnolo e si burlavano non c'era la carità umana… ho lavorato in una ditta, tutti giorni mi facevo 30 km, ero l'unica donna, ho fatto carriera, mi hanno dato un ufficio ma dopo la disgrazia della morte di mia sorella Mimma non ho potuto più lavorare, mi sono sposata con Giorgio e siamo andati avanti, sempre ci siamo riusciti. Dopo mio padre Giuseppe si è ammalato e io ho preso le redini della famiglia…”[Ivania si commuove ancora ed io cerco di distrarla]. Alla domanda riguardante i rapporti con i connazionali in Italia, Ivania tira fuori di nuovo il suo ottimismo, parla di come riesce a combattere la nostalgia di sempre grazie… “Grazie a Dio c’ho mio cugino Saverino, prima c’era Francesco, lo zio Ciccio, il periodista di mia madre.. a mia mamma scriveva chi era nato e chi era morto, chi partiva e chi tornavadopo la morte di mia madre abbiamo come giornalista il cugino Saverino ma non con le lettere ma con la voce, con il telefono…Certo che desidero ritornare in Italia, tutte le volte che c’è la possibilità, però andata e ritorno, non vivrei mai in Italia, in più nei primi tempi quando arrivava la tessera per andare a votare in Italia, io ho viaggiato con mia sorella espressamente per la nostalgia, la speranza, l’orgoglio, non so che era per andare a votare, sono andata con mia sorella Sina, dopo, con il tempo, ho pensato che a noi l’Italia non ci ha dato niente, niente di niente. A noi, a mio padre, a mia madre ha dato solo la guerra, la perdita degli amici e dei parenti, nel momento della pace siamo andati via, l’Italia ci ha mandati via, noi abbiamo lottato qui in Argentina e l’Argentina ci ha dato tutto, possibilmente [forse] se eravamo in Italia potevamo avere di più o di meno però quello che abbiamo in Argentina, abbiamo amici, tutti ci siamo sposati, benissimamente sposati, tutti abbiamo la nostra casa modesta o non modesta, sempre abbiamo fatto onore agli italiani e al nome dell’ Italia ma l’Italia a noi non ci ha dato niente. Comunque e malgrado tutto questo sempre ci piace ritornare in Italia. Voglio rettificare una cosa: ho detto che l’Italia non mi ha dato niente, ma dico che noi abbiamo avuto due vite: la vita anteriore che è stata bellissima, è stata la base della nostra educazione, della nostra intelligenza, dell’unione familiare sappiamo di tutti i benefici della famiglia, la religione e l’educazione, sappiamo fare di tutto perché in quel tempo si faceva di tutto in casa, noi diciamo che può venire la carestia che noi tanto non moriamo di fame perchè abbiamo la cultura che ci ha dato la nostra bellissima Italia nel tempo però nella seconda vita, quella in Argentina, noi non dobbiamo niente all’ Italia anche se abbiamo avuto il privilegio di avere l’educazione che pratichiamo.
Solo chi soffre sa
Eschilo, Agamennone
Conclusione
Non bisogna avere un'immagine totalmente negativa dell'emigrazione. Essa non rovina uomini, donne, paesi, non è soltanto l'espulsione, cacciata, necessità, costrizione, l'emigrazione è stata anche una scelta, una rinascita, un desiderio di liberazione e di cambiamento.
Come ha scritto Nitti, è stata soltanto l'emigrazione che ci ha salvato dalla miseria e dalla crisi agraria, che ha distrutto la triste necessità della vendita dei bambini addetti a mestieri girovaghi, e che, per alcune province, che la mancanza di ogni ricchezza sociale aveva discreditato, è stata in faccia al mondo una vera e propria riabilitazione.
Intervistando le donne calabresi emigrate in Argentina cinquant’ anni fa, mi accorgo quanto i loro modi di vivere siano lontani e inaccettabili per le nuove generazioni. Un tempo non si rinunciava mai alla speranza, sebbene umiliati i contadini di un tempo andavano avanti con una dignità esemplare. Per quanto riguarda le donne, accade qualcosa di più: esse sono più degli uomini chiuse in una rete di pesanti vincoli materiali e simbolici, l'equilibrio di cui si diceva consente l'espressione di una individualità femminile che di norma, in tutti i contesti sociali e culturali, ma in particolare in quello contadino, fa molta fatica a prender forma. La donna contadina e 'l'anello forte' della comunità in cui vive.[88]
Le contadine, quelle che forse hanno avuto una vita peggiore, non appaiono come mere vittime di una vita durissima ma come coscienti protagoniste della loro storia, schiacciate si dà gravi oppressioni e fatiche, e tuttavia vive e capaci di pensieri e sentimenti che denotano autonomia individuale. Non posso fare a meno di constatare quale grande ricchezza di esperienze, conoscenze e soprattutto emozioni e sentimenti ho davanti quando parlo con queste donne.
Le famiglie italiane in Argentina, Brasile e Stati Uniti hanno contribuito notevolmente alla crescita di questi Paesi in vari settori: politica, scienza, musica, cucina, cinema, cultura, religione. Economicamente la famiglia italiana sta bene. Gli Italiani sono sempre stati lavoratori infaticabili. Per loro il lavoro è una cosa sacra. Gli emigrati vennero in America appunto per trovare lavoro e per garantire alla propria famiglia la dignità e l'agiatezza che l'Italia non aveva dato loro. Molti sono diventati imprenditori e commercianti. Ma non è stato facile: parecchi hanno sofferto i disagi della povertà e dell'emarginazione, però hanno incoraggiato i loro figli a istruirsi, così oggi i loro discendenti hanno raggiunto elevate posizioni sociali e molti, adesso, appartengono definitivamente alla middle class (sud)americana.
In genere la famiglia italiana in America è molto religiosa, e non è affatto anticlericale. Anzi, gli Italiani insistono nel volere sempre il sacerdote alle loro feste, alle loro riunioni per dire la preghiera prima di incominciare i lavori o prima di mangiare. Vogliono la benedizione del sacerdote per gli anniversari di matrimonio, o in chiesa, o nelle sale pubbliche. Gli italiani che vengono dall'Italia a far visita alle nostre comunità italiane ne rimangono un po' stupefatti. Un'altra caratteristica della famiglia italiana è che sente il bisogno di trovarsi in compagnia di altri italiani, specialmente delle proprie regioni d’ origine. Una cosa interessante è che i giovani italoargentini e italoamericani si sentono attratti da queste feste dei loro genitori e dei loro nonni, e coltivano queste tradizioni. Gli italiani mantengono usanze religiose originali allo stato puro, come i loro compaesani le praticavano 50 o 100 anni fa in Italia. Usanze che forse sono cambiate o non esistono più nella penisola.
Il giovane italoamericano, sia del nord o del sud America, è (e rimarrà sempre) americano con l'orgoglio di esserlo. Benché sia di origine italiana, la sua mentalità è americana, o, per così dire, anglosassone per quanto riguarda lingua, storia, leggi, gusti musicali, feste nazionali, sport e folklore. Nonostante questo, nei suoi cromosomi c'è sempre quell'italianità che conferisce una connotazione ineguagliabile al suo modo di pensare, ai suoi valori etici e familiari, al suo modo di essere americano. E i non-italiani lo sentono. I giovani italoamericani sono cittadini di due mondi: vogliono bene al Paese dei loro antenati e amano la loro madre patria americana, però in modo diverso. Alla domanda se amassero di più l'Italia o l'America ho sentito rispnondere spesso dagli italoamericani: «Amo tutte e due, ma in modo diverso: l'America è mia madre, l'Italia è mia nonna».
Mi viene da pensare a quanto siano stati capaci, possenti, svegli, quei contadini che erano partiti con i soldi 'imprestati' e che ora sono diventati, in meno di trent'anni, proprietari di case e negozi e, a volte, di fabbriche e palazzi. Mi viene da pensare a quanto siano stati aperti quei contadini meridionali, quei calabresi, siciliani pugliesi, napoletani provenienti da una terra definita troppo spesso ferma e chiusa. Si tratta, allora, di restituire la dignità all'uomo, prima ancora che al migrante.
Di fronte alla globalizzazione e alla convivenza con ' l'altro', c'è sicuramente il rischio o l'opportunità di crescere. Saremo pronti ?
D. Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso XVII 55 – 60.
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Termine obsoleto ormai in disuso -per non dire in via d'estinzione- usato per designare, a partire dalla metà degli anni cinquanta (conferenza di Bandung del 1955), l'insieme dei paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina che non appartenevano né alle economie industrializzate di mercato (paesi del primo mondo dell'Europa e dell'America del Nord), né ai paesi a economia pianificata (paesi socialisti). Il terzo mondo era formato da paesi sottosviluppati, che oggi si preferisce chiamare paesi poveri o sud del mondo, che a mio avviso, comunque, termini discriminatori.
Tra i paesi di destinazione dell'emigrazione continentale, la Svizzera passò al primo posto superando la Germania, l'Austria e la stessa Francia. Nell’ emigrazione verso paesi d'oltremare si accentua invece il primato degli Stati Uniti, dove si diressero, dal 1901 al 1913, oltre 3 milioni di italiani, contro i 951.000 dell'Argentina e i 393.000 del Brasile. Gli alti salari offerti al mercato nord americano, la diminuzione delle terre libere nei paesi dell'America Meridionale, la maggiore facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande industria degli Stati Uniti, concorsero a dirottare il flusso dell'immigrazione dell'Italia.
Fonte: Archivio del Novecento, www.archividelnovecento.it .
J.M.Benoist, Sfaccettature dell’identità, Sellerio, Palermo 1980.
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1981. ”Ho scritto e lo ripeto che l’ acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle colture del Terzo Mondo, a cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La prima conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell'esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua al lingua comunicativa, con enorme impoverimento dell'espressività.
L'etnocentrismo, nella sua accezione più moderna e comune, è la tendenza a giudicare le altre culture ed interpretarle in base ai criteri della propria proiettando su di esse il nostro concetto di evoluzione, di progresso, di sviluppo e di benessere, basandosi su una visione critica unilaterale.
De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 1977.
Ernesto De Martino (Napoli, 1s dicembre – Roma, 9 maggio ) è stato un antropologo italiano tra i suoi scritti : Morte e pianto rituale, Sud e magia, La terra del rimorso, La fine del mondo.
Claude Lévi-Strauss (Bruxelles, 28 novembre ) è un antropologo, psicologo e filosofo francese.
Lévi-Strauss, Premessa a L’ identità, cit, pp.11.
Grande Dizionario Garzanti, Milano 1987.
Cfr. Sayad, La doppia assenza, Cortina Editore, Milano 2002. p272 [.. non essendo un cittadino, cioè un membro del corpo sociale e politico (la nazione) in cui vive, è l'unico lavoratore a non avere altra funzione se non quella del lavoro. L'immigrato dovrebbe essere 'idealmente' solo un corpo puro,1 macchina semplicemente corporea,1 puro meccanismo,1 sistema di leve che richiedono solo il minimo necessario per mantenere un buon funzionamento. Il lavoratore immigrato viene istruito, durante tutta la sua esperienza di immigrazione, in relazione a questo 'ideale'].
Abdelmalek Sayad (1933-1998), sociologo algerino, i suoi lavori si imperniano sui problemi connessi all'immigrazione-immigrazione, in particolare algerina, fenomeno cui si è dedicato per oltre quaranta anni.tra le sue ultime opere ricordiamo: L’immigration ou les paradoxes de l’ altérité (1991) e Un Nanterre algerién, terre de bidonville (con E.Dupy, 1995).
P. Bordieau, L. Wacquant, 'The Organic Ethnologist of Algerian Migration' in Ethography, 1-2,2000, pp 182-197
Sayad, La doppia assenza, Cortina Editore, Milano 2002.
Il prof. Vito Teti , insegna attualmente Etnologia e Letterature Popolari presso l'università della Calabria. Cit. p. 174, i luoghi dell'identità
La comunità in questione è quella di San Nicola (Lamezia Terme), emigrata in Canada a metà del secolo scorso. Cfr. Vito Teti, Le strade di casa, Mazzotta, Milano 1983.
Cfr . VitoTeti, il paese e l'ombra, p 27.
Cfr . VitoTeti il paese e l'ombra, p 31.
Bruno Callieri psichiatra, fenomenologo autorevolissimo.
Elisabetta Franciosi, psicologa psicoterapeuta, analista associata CIPA (Centro Italiano Psicologia Analitica).
Maurice Merleau-Ponty, ha inteso sempre rinviare alla capacità di esperire il proprio corpo come soggetto ed oggetto nel medesimo tempo, con un’irriducibile 'ambiguità', come una vera struttura dialettica che è il nostro trascorrere, la nostra storia. In 'Le visibile e l’invisible' (Paris, Gallimard, 1964) egli pone il riconoscimento del proprio io (corporeo) come simultaneo alla scoperta dell’alterità dell’altro.
Laura Faranda, Non uno di meno, Armando Editore Roma il 2004.
La bambina bulgara, Albena viene disegnata in classe da un bambino italiano, Fabrizio, in un naufragio di stranieri con tutta la famiglia [”…i naufraghi sono i negri che vengono dall’ Africa, anzi dal Marocco, così c'è una spremuta de’ sangue, è tutto rosso il mare!”] , Albena lo corregge dicendo che è venuta in macchina. Si è visto anche come un bambino originario di Capoverde che non ha mai esitato nello scegliere i colori opportuni per il cielo, la terra, il sole, al momento di disegnare perde tutta la sua sicurezza nello scegliere il colore per autoritrarsi. Il corpo migrante di una bambina rumena è carico di pathos ed incline al pianto a causa del forte coinvolgimento emozionale, dell'ansia del pregiudizio dei compagni e della loro latente ostilità al contatto.
Cfr. Laura Faranda, Non uno di meno, Armando editore Roma,2004, cit.p.135.
Cfr. Laura Faranda, Non uno di meno…cit.p.156.
Fusaschi Michela , Corporalmente corretto, Meltemi editore, Roma, 2008.
Cfr. Fusaschi p. 12.
Daniele Ungaro, Capire la società contemporanea, Carocci, Roma 2001
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Lombardi Satriani Luigi M., Meligrana Mariano, Il ponte di San Giacomo, Sellerio Editore, Palermo 1996.
Fracesco Perri (Careri, 5 luglio – Pavia, 9 dicembre ) è stato uno scrittore e giornalista italiano.
Perri, Emigranti, Milano, Mondadori, 1928
Floriani S., Identità di frontiera. Migrazione, biografie, vita quotidiana. La ricostruzione quotidiana dell’identità. Ediz.Rubbettino pp 71.
Le strategie proposte nel volume di S. Floriani.
Ne è un esempio il caso di una giovane paziente in cura dallo studioso Janét che diceva di sentirsi una morta vivente, che affermava di tendere la mano al dottore ma di non sentire nulla, di non sentirsi più il cuore e di doversi toccare in continuazione il corpo per convincersi che fosse reale.
Cfr. il paese e l'ombra pp 32,33. Viene menzionato racconto popolare che evidenzia il rischio di perdita di identità delle persone quando si allontanano dal loro mondo e i valori popolari che diventano oggetto di scherno dei ricchi.
Si è detto che nell’antica medicina ippocratica corpo e mente vengono proposti come entità separate, dove una domina l’altra determinandone le condizioni per cui la psiche reagisce al corpo registrando le alterazioni, da questa interazione nascono le affezioni psichiche quindi un disordine biologico di base. Si può sintetizzare dicendo che i mali del corpo sono la causa dei mali della mente, ma che i mali dell’anima possono distruggere il corpo.
Come ogni simbolo di natura archetipica presenta anche un aspetto di distruzione e morte. Vita e morte sono correlate e vicine, come avviene per la terra ed il mare, per la creazione e distruzione. Così la madre amorevole e Grande Madre potrà, nel flusso archetipico degli opposti, divenire Madre terribile, così alle madri del mito: Gaia, Era, Demetra, Iside, Astarte, si opporrà Kalì e la figura della Gorgone o la dea maya Ixchel dagli artigli di animale ed emblema della morte. Con il Cristianesimo si assiste alla sublimazione perfetta dell'amore materno istintivo, nella figura della madre Divina. La Vergine Maria, madre di Gesù e madre di tutti gli uomini, ha il ruolo di privare di consistenza e carnalità la figura della madre, per spostarla su un piano ideale, che si colloca al punto più estremo della polarità Grande madre-Madre terribile. Il concetto di bene e male si precisa, la divisione diviene più netta. All'opposto della Vergine troveremo allora Lilith come sposa di Satana, o la madre-strega che partorisce ed uccide.
Jalil Bennani, psichiatra e psicanalista marocchino citato da Sayad che mescola etnologia e psicanalisi sulla base di accostamenti a priori e spesso metaforici (La doppia assenza, pp.275).
R. Berthelier, psicopatologo , À la recherche de l’homme musulman, Tentative d’approche socio-culturelle de la psychopathologienord-africaine, Volume V, 2, 1969.
Palizzi Superiore è un paese con meno di 2000 abitanti in provincia di Reggio Calabria.
Dante Alighieri [ …Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente e questo è quello strale che l’arco dello essilio pria saetta. Tu proverai si come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l’altrui scale].
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli Einaudi , Torino 1963 : non siamo cristiani, -essi dicono (i contadini lucani)- Cristo si è fermato ad Eboli. Cristiano, nel loro linguaggio vuol dire uomo… Questa fraternità passiva, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono avere culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee”.
Cit. Ignazio Silone , Fontamara, Milano 1974. I contadini venivano chiamati “cafoni”.
Cfr. Ernesto De Martino, La terra del rimorso, edizioni Net, Milano 2002
Cfr. Ernesto De Martino, La terra del rimorso…[ L’ universo magico può essere compreso solo in relazione all’ angoscia della perdita della presenza, un vero stato etico che ha l’ uomo che non smette di costruire per sottrarsi all’ idea di non- esserci.]
Francesco Saverio Nitti (Melfi, 19 luglio , Roma 20 febbraio ) è stato un politico italiano. Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d'Italia dal 23 giugno al 15 giugno , più volte ministro. Fu il primo Presidente del Consiglio proveniente dal Partito Radicale Storico. Ricoprì un ruolo politico decisivo nel corso della prima guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. Fu grande meridionalista e come tale individuò nell'industrializzazione del Mezzogiorno la strada per la soluzione dei problemi economici e sociali dell'area.
Testo tratto da 'Scritti sulla questione meridionale'- Editrice Laterza, Bari 1958.
Cfr. Scritti sulla questione meridionale.
Cit. Nitti, Scritti sulla questione meridionale”così, per una paga, che difficilmente sorpassa i trenta centesimi, le donne sono costretti anch'esse a lavorare in duri lavori, in cui l'organismo femminile si sciupa e si logora.”
Skené, dal termine greco significa tenda, siparietto. Assumerà la definizione teatrale di 'scena' nella rappresentazione teatrale.
Tesina del corso 'Corpi in figure' tenuto dalla prof.ssa Laura Faranda nel gennaio 2008.
Gaieuristernos, la prima figura divina, la madre preolimpica dal greco Gaia vuol dire terra e ister vuol dire utero). L’isteria, frutto della fragilitas sexo femminile. La malattia prende il nome dallo stesso organo femminile: l’utero.
Nuto Revelli, l'anello forte, edizioni Einaudi, Torino 1985 cit. p. LXIX.
Cfr. il paese e l'ombra, p.34.
Nuto Revelli, l'anello forte, edizioni Einaudi, Torino 1985 cit. p. LXXI.
Cfr. Non uno di meno: Mi riferisco al dibattito scaturito tra i bambini riguardo l’italianità del loro compagno di classe filippino Emiliano che, nonostante trattasi di un soggetto di sesso maschile, ascoltava tutti ma rimaneva in silenzio. Il corpo del bambino filippino è un corpo gravante che tende ad ingrassare, diaframma tra il “se”e il mondo da cui si prendono le distanze perché gli nega l’ identità. Anche in questo caso riaffiora la metafora della pelle, con tutte le somatizzazioni che vanno studiate sia sotto forma di struttura psicologica che in quella etnografica.
Raffaele Lombardi Satriani, Credenze popolari Calabresi, edizioni Falzea, 1998.
Cfr. Puccini Sandra , Andare lontano, Carocci, Roma 1999.
Il tarantismo è una malattia che, in base a credenze popolari pugliesi, sarebbe provocata dal morso di un ragno chiamato taranta: i lavoratori delle campagne, del tabacco, dei pomodori che si ritengono morsi e affetti dal virus impercettibile del ragno , come unica terapia invece di assumere farmaci, ballano.
Il “tarantato” si libera attraverso la musica e la danza attraverso un vero e proprio esorcismo a carattere musicale: i musicisti cominciano a suonare e il tarantato danza per ore su un lenzuolo bianco, preparato in terra precedentemente, sino allo sfinimento. Il tarantato a terra diventa taranta e in piedi lotta contro la taranta stessa, che può essere vedova, ballerina, triste o allegra. Ad essere “pizzicate” erano spesso le donne, che durante il tormento del veleno, potevano permettersi di tutto, anche di mimare amplessi sessuali in pubblico, fino a quando, stremate, cadevano a terra. Il rituale finisce quando il tarantato calpesta simbolicamente la taranta guarendo dalla malattia.
Tesina ' riflessioni sulla metafora del viaggio', prof. Faranda, anno accademico 2006-2007…[ Il viaggio come metafora iniziatica in De Martino strutturato con dei veri e propri riti iniziatici, riti di passaggio, tre momenti, tre fasi: le stesse analizzate da Van Gennep, ne “La terra del rimorso” il gruppo isola la tarantata (momento di separazione), si pone l’ ammalata in uno spazio apposito –lenzuolo bianco- (momento di margine),dopo aver danzato fino allo sfinimento ed essere guarita, l’ ammalata ritorna tra la gente (momento di aggregazione).
Per De Martino, inoltre, la “magia” non è semplicemente una risposta allo stress emotivo umano, causato da particolari situazioni precarie, ma una vera è propria lotta degli esseri umani per poter affermarsi e vivere.]
Puccini Sandra , Andare lontano. Viaggi ed etnografia nel secondo Ottocento, Carocci, Roma 1999.
In un' Italia post-unitaria, patria di giovani, valorosi viaggiatori di formazione naturalista, alcuni appartenenti alla Società di Geografia, altri medici ed altri appartenevano al ceto borghese e quindi autofinanziati, ma anche naturalisti dilettani.
Cfr. A e S. Di Carlo di Carlo, I luoghi dell'identità, edizioni angeli Milano 1986, p. 167.
Lombardi Satriani Luigi M., Meligrana Mariano, Il ponte di San Giacomo, Sellerio Editore Palermo 1996.
Vito Teti, Le strade di casa, Mazzotta, Milano 1983.
A. e S. di Carlo, I luoghi dell'identità, Angeli, Milano 1986 p.168.
Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre – Parigi, 26 marzo ) è stato un saggista, critico letterario e linguista francese, fra i maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista.
G.Cocchiera, Il linguaggio del gesto, Sellerio, Palermo 1977,p.73-74.
F. Faeta, Melissa, Folklore, lotta di classe e modificazioni culturali in una comunità contadina meridionale, Loescher, Firenze - Milano, 1979, p.266-67.
L'albero di mandorle.
Il castello medievale situato proprio sopra una grande roccia al centro del paese.
Antico gioco di carte in cui un padrone e il vice decidono che è che deve bere tra gli altri partecipanti
In spagnolo si chiama Mate l'infusione preparata con le foglie di erba Mate.
Avverbio di tempo in spagnolo (quando).
Fiducia.
Cortile.
Una grigliata di carne.
Mensa.
81 La gente che arrivava dal Nord d'Italia voleva andare in America, conquistarla , fare soldi e ritornare in Italia, mentre la gente povera del sud quando è arrivata in Argentina si è sentita protetta per la maniera di come è stata accolta, ha cominciato a costruire e ha pensato di rimanere.
Uscita dall'Italia, salita in spagnolo significa uscita.
Capre in dialetto calabrese.
Suonavano.
Un asino.
Bisaccia.
Giornalista.
Cfr. Nuto Revelli, L'anello forte, pp 510-511.
Antichissimo testo popolare siciliano che venne pubblicato da Leonardo Vigo nel 1850: Un servo tempo fa, in questa piazza con queste parole pregava Cristo: 'Signore, il mio padrone mi maltratta come fossi un cane per la via, con le sue manacce arraffa tutto, nega persino che la vita sia mia”.
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