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DOCUMENTE SIMILARE |
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INTRODUZIONE
PROPRIETA’ GLOBALI 4
Fenomeni Atmosferici
Tempeste di Sabbia
Pianure e Altopiani
Canyon & Calotte Polari
CRATERING 7
Morfologia dei Crateri
Degradazione dei Crateri
Datazione tramite Conteggio dei Crateri
Limiti legati al Conteggio dei Crateri
L’ATMOSFERA DI MARTE 12
TETTONICA 14
VULCANISMO 15
Mineralogia Marziana
UNA PROBABILE EVOLUZIONE IDROGEOLOGICA 17
Il problema dell’Acqua: quando e come
Ghiacci
NUCLEO 19
IL CAMPO MAGNETICO DI MARTE 20
LE DATAZIONI 21
Shergottiti
Nakhliti
Chassigniti
Ortopiroxeniti
ANALISI DELLA SUPERFICIE 24
Caratteristiche Principali
Le Maggiori Unità Superficiali
Materiali Scuri
Terreni Chiari
Minerali Candidati
Composizione della Polvere
LO SPETTROMETRO OMEGA 30
OMEGA scopre l’acqua
Analisi Spettrale
CAPITOLO 4: MISURE IN LABORATORIO 34
SPETTROMETRIA 34
MECCANISMI DI ASSORBIMENTO 34
IL GONIOMETRO 35
METODO DI MISURA 37
CONCLUSIONI 44
BIBLIOGRAFIA 47
L’azione del “mediare” (dal latino porre nel mezzo) è l’espressione pratica e la sintesi delle capacità intellettuali dell’uomo, in particolare della mente scientifica, in quanto rappresenta, da una parte la comprensione piena di una coppia di opposti che vengono convogliati in un'unica essenza, e contemporaneamente il superamento di tali opposti verso un concetto superiore, in modo da permettere un evoluzione cosciente nella visione e interpretazione dell’Universo.
In tal modo, il seguente lavoro si propone di evidenziare come lo studio della superficie di Marte è un compito che va trattato tramite la combinazione di tecniche di “remote sensing” (telerilevamento), tecniche “in situ” e tecniche di laboratorio quali analisi spettroscopiche di campioni di origine conosciuta; tale integrazione fornisce un’analisi approfondita e univoca del luogo in esame, permettendo di realizzare un metodo complesso di studio che consenta di eliminare a priori le ambiguità derivanti dalla sola analisi spettroscopica dall’orbita.
La dissertazione si compone di quattro parti fondamentali: (1) descrizione globale del pianeta Marte così come lo conosciamo; (2) descrizione della composizione delle unità marziane di particolare interesse –superficie e sottosuolo-; (3) un riferimento ad uno strumento di telerilevamento di particolare interesse, lo spettrometro OMEGA della missione Mars Express; (4) descrizione dell’esperienza di laboratorio nell’analisi e nella selezione di particolari campioni, le cui caratteristiche riflettono (o possono essere combinati in modo tale da riflettere) le caratteristiche del suolo di Marte.
Marte è il quarto pianeta in ordine di distanza dal Sole e il suo raggio orbitale è di circa 1.5 volte quello terrestre. E’ un pianeta più piccolo della Terra, con un raggio medio di circa 3,397 km, mentre quello terrestre è quasi il doppio (6,378 km). La massa del pianeta rosso è di circa 6.4x1023 kg, il che porta ad una gravità superficiale pari ad appena il 38% di quella terrestre. Al contrario, la sua velocità di rotazione è relativamente veloce, prossima a quella della Terra. Inoltre, poiché il suo asse di rotazione è inclinato di circa 24.5 gradi rispetto al piano dell’ellittica, la superficie di Marte presenta variazioni stagionali simili a quelle della Terra.
La variazione media di temperatura è di circa 50°, molto più piccola di quella della Luna o di Mercurio. La ragione di ciò è l’esistenza di un’atmosfera su Marte, con una pressione molto bassa, ma massiva abbastanza da risultare visibile. Essa è composta principalmente da diossido di carbonio (95%), azoto(3%), argon (1.6%), ossigeno e alcuni altri gas rari. A giudicare dalla sola composizione, è evidente che l’atmosfera di Marte dev’essersi formata dopo la formazione del pianeta, forse in seguito ad eventi vulcanici globali, altrimenti le componenti dominanti dell’atmosfera sarebbero stati idrogeno ed elio, proprio come quelle dei pianeti esterni del nostro Sistema Solare.
Sebbene l’atmosfera marziana sia sottile se confrontata con quella terrestre, essa è abbastanza densa da manifestare molti fenomeni dinamici simili a quelli osservati nell’atmosfera terrestre, ad esempio nuvole e cicloni. Tuttavia, mentre sulla Terra la formazione delle nuvole è dovuta alla condensazione del vapor d’acqua, su Marte le nuvole possono formarsi sia per condensazione del vapor d’acqua che, più spesso, per condensazione del diossido di carbonio gassoso.
Lo studio di questi fenomeni è facilitato dalla somiglianza della velocità di rotazione tra Terra e Marte, la quale genera un forza di Coriolis approssimativamente uguale su ambedue i pianeti.
Oltre a nuvole e cicloni, un’altra caratteristica interessante osservabile all’interno dell’atmosfera marziana sono le tempeste di sabbia. Tale fenomeno ha ricorrenza stagionale e sembra avere inizio d’estate, nell’emisfero sud del pianeta. La tempesta ha origine dal sollevamento delle particelle ghiacciate da parte dei venti polari, che le trascinano così nell’atmosfera. Maggiore è la quantità di polvere che raggiunge l’atmosfera, più velocemente essa si riscalda, portando ad una maggior differenza di temperatura tra giorno e notte nella parte superiore dell’atmosfera. Tale incremento produce, a sua volta, forti venti che catturano altre particelle, cosicché la tempesta si autoalimenta diffondendosi rapidamente sul pianeta.
Come l’inizio, anche la fine della tempesta è “autogestito”: essa raccoglierà polvere finchè la sua densità non sarà capace di bloccare i raggi solari, causando un crollo della temperatura superficiale. In media, il processo impiega tre mesi per rendere nuovamente l’atmosfera pulita.
In modo molto schematico la superficie marziana è caratterizzata da due province geologiche ben distinte: quella delle grandi pianure laviche che interessa la maggior parte dell' emisfero nord, e quella degli altopiani, fortemente craterizzata, a sud. Questa differenza viene generalmente indicata come “dicotomia”, ed è indice di due storie geologiche diverse. L’emisfero nord, infatti, risultando più giovane dalle stime di craterizzazione, è figlio di un processo di ringiovanimento della superficie, dovuto all’attività vulcanica del pianeta, la quale è andata avanti fino ad un recente passato (< 100 Myr –Neukum and Hiller, 1981; Tanaka et al., 1992-).
Nelle pianure si
trovano le grandi regioni vulcaniche di Tharsis (Monte Olimpo, Arsia) - a cui è
associato il complesso dei grandi Canyons (Coprates e dintorni) - e di Elysium
(Monte Elysium, Hecates Tolus).
Nei più antichi altopiani, dove la superficie è cosi densamente craterizzata da
risultare quasi satura, troviamo i grandi bacini da impatto (Hellas, Argyre).
Vicino l’equatore, Marte presenta un vasto sistema di canyon interconnessi chiamato Valles Marines. L’intera struttura è lunga oltre 3000 km (qualcosa come la larghezza degli US). L’imponenza di questo complesso è tale che l’intero canyon è visibile solo se si osserva il pianeta a scala globale. I singoli canyon possono essere larghi circa 200 km e profondi 7 km; per confronto, si ricorda che il Grand Canyon è profondo circa 1.6 km. Il modo preciso in cui i canyon si sono formati non è conosciuto; si pensa comunque, che siano di origine tettonica, siano cioè grandi faglie, sulle quali si sono innestati processi di erosione e frane.
Un’altra delle caratteristiche immediatamente visibili a scala globale sono le calotte polari (fig. 1.6.2). Al polo nord esistono zone stratificate di ghiaccio d’acqua, che formano la calotta perenne, mentre il ghiaccio di diossido di carbonio (che varia stagionalmente) è stato rilevato in ambedue le regioni polari.
I dati dello spettrometro Omega della missione Mars Express, che sarà successivamente descritto, mostrano che anche la calotta sud contiene ghiaccio d’acqua, anche se di difficile rilevazione poiché è misto a polvere (Bibring et al., 2005).
La craterizzazione è un importante processo di modificazione della superficie marziana, e mostra forti analogie con la morfologia dei crateri di Luna e Mercurio.
Piccoli crateri (< 10 – 15 km di diametro), mostrano depressioni di forma semplice, simile ad una ciotola, con gli orli rialzati. Crateri più grandi mostrano forme più complesse, come un picco centrale e pareti “a terrazze”. Crateri con diametri maggiori di 100 km mostrano picchi “ad anello” al centro e strutture “multi-ring”.
Come per gli altri corpi celesti, i crateri marziani possono essere degradati dal cedimento degli orli del cratere, da impatti successivi, flussi lavici e dal materiale espulso da impatti vicini.
Inoltre, i crateri di Marte possono essere consumati dall’acqua e dall’atmosfera.
DATAZIONE TRAMITE CONTEGGIO DEI CRATERI
La datazione del suolo di Marte è un metodo empirico che si basa sul conteggio dei crateri da impatto che la superficie in analisi presenta.
Ovviamente, l’età stimata attraverso questo metodo è un’età relativa: maggiore è il numero di crateri, più antica è la superficie. Se il flusso di oggetti impattanti fosse noto, si potrebbe operare una datazione più precisa; purtroppo esso può essere inferito solo sulla base di modelli evolutivi del sistema solare.
Una prima quantificazione dell’età derivata dal conteggio dei crateri proviene da Hartmann (1960), che definisce la Crater Retetion Age (C.R.A.) come il numero di crateri su Km2 di superficie osservata. Essa rappresenta l’intervallo di tempo medio durante il quale i crateri di diametro D sono preservati.
Nel diagramma che riporta il numero di crateri per km2 a diverse dimensioni, si possono individuare delle curve dette Isocrone (fig. 2.3a), le quali forniscono il numero di crateri presenti sulla superficie di una specifica età, visibili ancora oggi in assenza di effetti corrosivi. Le Isocrone permettono dunque di stimare l’età relativa di una certa superficie in base al tasso di craterizzazione osservato.
Figura
1.2.2 Nel
diagramma sono riportate le diverse isocrone al variare del diametro dei
crateri e della loro frequenza. L’ultima
isocrona è una retta ed indica la frequenza massima di saturazione.
Per determinare le età assolute, i conteggi sono poi comparati con quelli delle regioni lunari (fig. 1.2.2b), alcune delle quali sono state datate con molta precisione grazie a dei campioni di roccia prelevati direttamente dal suolo lunare dagli astronauti dell’Apollo.
Il passo successivo, dunque, è quello di quantificare il rapporto di craterizzazione Marte/Luna tramite il parametro:
R = [bolidi / km2 – anno su Marte] / [bolidi / km2 – anno sulla Luna]
Figura
1.2.2b In figura viene mostrato
il metodo con cui il conteggio dei crateri marziani viene relazionato a
quello dei crateri lunari, di cui si conoscono le età assolute, in modo da
ricavare una datazione esatta anche per le superfici di Marte.
Nel diagramma delle isocrone è riportata anche una retta che indica la saturazione di equilibrio, ovvero la densità massima raggiungibile, oltre la quale è previsto un nuovo impatto che cancelli uno o più impatti precedenti.
Tali considerazioni hanno permesso di derivare le età assolute dei principali periodi storici marziani, definiti da Tanaka (1986):
NOACHIAN: 3.5 3.7 Gyr; HESPERIAN:
1.4 2.1 Gyr; AMAZONIAN:
0.3 0.6 Gyr.
La primissima storia di Marte (Noachian) vede svilupparsi i processi di differenziazione iniziale e di formazione di nucleo e crosta. L’attività tettonica di quel tempo è riconosciuta tramite le strutture tettoniche a sud di Hellas. Anche il complesso di Tharsis sembra essersi generato in quest’epoca, mentre il suo sviluppo è continuato nelle epoche successive.
Il periodo Hesperiano fa parte della cosiddetta “età di mezzo” e rappresenta un periodo di transizione da una prima fase caratterizzata da una consistente attività endogena e da un elevatissimo tasso di craterizzazione, ad un più tardo periodo, detto Amazoniano, con un progressivo annullamento dell’attività vulcanica e del flusso d’impatto. Le pianure dell’emisfero nord sono state rimodellate durante questo periodo tramite un processo che ha coinvolto circa il 40% dell’intera superficie del pianeta; anche l’acqua liquida sembra essere una delle caratteristiche di questo periodo: nell’ultima parte dell’Hesperiano, le reti formatisi in precedenza si evolvono nei maggiori canali di scorrimento dell’acqua.
Il periodo cosiddetto Amazoniano, ha visto il completamento delle grandi unità vulcaniche marziane come l’Elysium e il complesso Tharsis. Tale vulcanismo sembra essere continuato fino a tempi molto recenti.
Il metodo del conteggio dei crateri, essendo un metodo empirico, presenta delle limitazioni intrinseche che non permettono di ottenere datazioni definitive della superficie marziana. Infatti:
La posizione delle isocrone di Marte dipende fortemente dall’età assegnata alle superfici lunari;
Piccoli crateri vengono cancellati dall’attività geologica del pianeta;
I crateri di piccoli dimensioni possono derivare dal materiale che viene espulso durante un impatto di dimensioni notevoli (origine secondaria);
Di conseguenza bisogna tener conto di parecchi fattori di diversa natura che alterano la cronologia. Ad esempio, il tempo di sopravvivenza dei crateri a diverse dimensioni ci dà un’idea dell’attività geologica del pianeta (erosione, deposizione, vulcanismo…); da questi studi è possibile stimare il tasso di riempimento dei crateri in nm/yr.
VULCANISMO |
TETTONICA |
IDROLOGIA |
CRATERING |
N° crateri per 106 km2 SUPERFICIALI |
|||
AMAZONIAN |
Ultimi flussi a sud di Elysium Planitia Vulcanismo in diminuizione a nord Flussi diffusi intorno a Monte Elysium |
Continuo dell’attività tettonica di Tharsis |
Channelling a sud di Elysium Ultimo periodo di formazione dei canali |
Disposizione di mantello e dune polari Erosione delle pianure nordiche Erosione profonda dei depositi stratificati in Valles Marines |
|||
HESPERIAN |
Vulcanismo a Syrtis Major Vulcanismo a Tempre Terra Vulcanismo massiccio nelle regioni Elysium e Tharsis |
Formazione di Valles Marines Formazione di sistemi a creste |
Sviluppo di grandi canali di uscita Riempimento delle pianure nordiche |
Degradazione di materiali delle pianure nordiche Formazione di Dorsa Argentea al polo sud |
NOACHIAN
Formazione delle pianure “intercrater”
Vulcanismo degli altopiani in diminuizione
Inizio di un vulcanismo diffuso
Ceraunius, Tempe e Noctis Fossae
Tettonica a sud di Hellas
Archeron Fossae
Claritas Fossae
Formazione di grandi reti
Flusso d’impatti decrescente
Bombardamento intenso
Impatto Argyre
Impatti Hellas e Isidis
Formazione delle più antiche rocce esposte
Disseccamento delle rocce di altopiani
Formazione ed erosione di superfici pesantemente craterizzate
Erosione profonda delle rocce sotterranee
L’atmosfera di Marte è un sottile strato gassoso composto quasi esclusivamente da diossido di carbonio. La pressione superficiale su Marte è appena 0.07% della pressione superficiale media al livello del mare sulla Terra. Inoltre, la pressione atmosferica su Marte subisce cambiamenti stagionali poiché durante l’inverno marziano la temperatura si abbassa così tanto da congelare il diossido di carbonio e precipitare sulle calotte polari sotto forma di “neve”. Questa caduta riduce fortemente la quantità di diossido di carbonio presente nell’atmosfera. Al contrario, durante l’estate, quando la calotta polare si riscalda nuovamente, il diossido di carbonio può tornare nell’atmosfera.
Le misure effettuate nel 1976 dai landers Viking hanno fornito la composizione esatta dell’atmosfera marziana: 95.3% CO2, 2.7% N, 1.6% Ar, 0.15% O, 0.03% vapor d’acqua, e tracce di altri gas quali neon, krypton, xenon, ozono e metano. La pressione media superficiale è di circa 7 millibars, ma il valore effettivo dipende fortemente dall’altitudine e varia tra 1 9 millibars.
Lo spessore dell’atmosfera è sufficiente a generare effetti meteorologici simili a quelli terrestri (come nuvole e tempeste di sabbia), ma la sua composizione garantisce soltanto un effetto serra molto debole, che aumenta la temperatura superficiale di soli 5 gradi rispetto ad una situazione in cui l’atmosfera sia completamente assente. Di conseguenza, la maggior parte del pianeta è ben al di sotto della temperatura di congelamento dell’acqua per la maggior parte dell’anno. Inoltre, è da notare che a causa della bassa pressione presente sul pianeta, qualora la temperatura aumentasse tanto da permettere la fusione del ghiaccio d’acqua, la pressione atmosferica sarebbe cosi bassa che esso si trasformerebbe direttamente in vapor d’acqua, senza passare per lo stato liquido.
Nel 2004 la sonda Mars Express ha rilevato piccole quantità di metano nell’atmosfera marziana. Tale scoperta porta alla formulazione di nuovi scenari sul pianeta in quanto si ritiene che il metano debba essere estinto dall’azione dei raggi solari nel tempo scala di qualche secolo. Ciò significa che su Marte è presente qualche processo che continua a creare metano. Le principali teorie che giustificano la presenza di questo gas sono due: attività vulcanica o l’azione di “metanogeni” (batteri che emanano metano) sul suolo marziano. In ogni caso, studi recenti (Krasnopolsky, NASA – 2005) dimostrano che nell’atmosfera di Marte non v’è traccia del diossido di zolfo, un gas prodotto in notevole quantità dall’attività vulcanica terrestre; di conseguenza, l’ipotesi biologica è la più accreditata, secondo tale autore. E’ comunque possibile che il magma sotterraneo stia reagendo con i minerali del sottosuolo, producendo metano ma non diossido di zolfo (Formisano et al., 2004).
Dalle ultime analisi del campo magnetico marziano ricavate dalla missione MGS risulta che, a differenza di ciò che si credeva in precedenza, Marte potrebbe essere stato caratterizzato da una tettonica a placche simile a quella terrestre (grandi placche crostali che si separano e si scontrano – Carr, 1981; Banerdt et al., 1992 -). Le prove di questi processi inaspettati sono fornite dall’evidenza di un campo magnetico “a bande”: tali bande si formano quando due placche tettoniche vengono spinte dalla convezione presente nel mantello fuso (Connerney et al., 2001), e mostrano un campo magnetico alternativamente in direzioni opposte. Per confronto, simili bande sono state osservate sulla Terra sulle creste Medio-Atlantiche, le quali si sono formate proprio attraverso questo tipo di attività tettonica.
Basandosi su questi dati recenti, si è giunti alla conclusione che anche su Marte vi sono regioni in cui la nuova crosta risale dal mantello, si raffredda e genera tettonica di tipo estensivo. Per contro, i moti convettivi nel mantello producono anche l’inabissarsi nel mantello di porzioni della crosta.
Questo processo su Marte è stato meno esteso che sulla Terra, e molto più limitato temporalmente. L’esistenza di un processo limitato di tettonica a placche su Marte fornisce così una abbastanza soddisfacente teoria sull’evoluzione geologica del pianeta. Ad esempio, permette di spiegare la distribuzione dei vulcani Tharsis, i quali sono grossolanamente allineati.
Secondo questa nuova teoria infatti, sembra che i vulcani si siano formati attraverso il moto di una placca crostale sopra un hotspot presente nel mantello sottostante, come nel caso delle isole Hawaii.
Anche l’imponente canyon Valles Marines sembra essere il risultato della separazione delle placche tettoniche, e le bande magnetiche associate a questa zona forniscono prove evidenti di ciò.
Una delle caratteristiche più prominenti su Marte sono i vulcani a scudo. I vulcani Tharsis (fig. 1.5) sono facilmente riconoscibili anche soltanto tramite una visione da grande distanza del pianeta. Tale regione contiene 12 grandi vulcani e molti altri più piccoli. Il più grande vulcano in questa zona (e su Marte, e anche in tutto il nostro Sistema Solare), è il Monte Olimpo: una struttura circolare di circa 550 km di diametro che si eleva per circa 25 km dalla pianura sottostante.
Un’altra grande area vulcanica è la cosiddetta Elysium, la quale sostiene un complesso di tre grandi vulcani, più altri di minor rilevanza.
Sia la regione Tharsis che Elysium sono localizzati su una zona ove la crosta raggiunge un notevole spessore. Ciò suggerisce che tali regioni sono il risultato di dell’evoluzione termica del pianeta, e di processi convettivi che hanno prodotto il sollevamento e la fratturazione della crosta, accompagnata dall’espulsione di materiale magmatico.
In effetti, ambedue le regioni mostrano caratteristiche morfologiche molto simili, eccetto che per le dimensioni: i vulcani della regione Elysium sono più piccoli, e questo perché sono più di giovani di quelli del Monte Olimpo, e ciò è evidenziato dalla mancanza di crateri da impatto.
A dispetto di queste gigantesche conformazioni, sembra che la più grande struttura vulcanica su Marte non sia un vulcano a scudo, bensì un’area dal profilo basso, una grande caldera, chiamata Alba Patera. Essa è situata nella regione Tharsis, a nord-est del Monte Olimpo. Ha un diametro che supera i 1500 km, e sembra essere il frutto di una complessa serie di processi vulcanici e tettonici.
Nella primavera del 2004, la sonda Mars Express ha confermato la diffusione di feldspato, olivina e pirosseni, minerali tipici della roccia basaltica (Bibring et al., 2004). Il basalto è una roccia ignea diffusa anche sulla Terra che deriva dal consolidamento del magma che erutta da vulcani come l’Etna, dai vulcani delle isole Hawaii e dalle dorsali medio oceaniche. E’ stata scoperta anche l’andesite, una roccia che contiene quantità maggiori di minerali silicati rispetto a quelli contenenti ferro, la quale sulla Terra si forma quando l’acqua contenuta in una zolla tettonica in subsidenza si mescola con le rocce sotterranee fuse.
Nel magma che si raffredda allontanandosi dalla camera magmatica, cristallizzano per primi i minerali ricchi di ferro e magnesio (olivina e pirogeni), successivamente il magma si arricchisce di silice e alluminio formando le daciti (colate laviche vetrose e ricche di silice). Alcuni picchi sono invece di granito, roccia ancora più ricca di silice che può essersi formata per separazione cristallina o in seguito alla rifusione dei basalti più antichi.
Diversamente dalla Luna o da Mercurio, Marte non è un pianeta asciutto. Molte immagini raccolte dall’orbita marziana mostrano canali simili ai letti dei fiumi terrestri (fig 1.6a -Masursky et al., 1977; Bakel and Kochel, 1979; Pieri, 1980; Carr, 1981). Sembra che molti di questi canali si siano originati negli altopiani a sud e si esauriscano conseguentemente nei bacini nordici del pianeta. Gli altopiani mostrano una ricca serie di canali disposti uniformemente lungo tutta la superficie.
Tuttavia, le condizioni termodinamiche attuali del pianeta (quali pressione e temperatura) non permettono l’esistenza di acqua allo stato liquido.
Tali condizioni infatti, consentono all’acqua di esistere solamente in forma solida o gassosa, come osservato da molte delle sonde che hanno eseguito misure su Marte.
Se dunque vogliamo spiegare l’esistenza dei canali tramite l’acqua, è necessario postulare che su Marte l’acqua in passato sia esistita anche allo stato liquido.
La differenza in elevazione tra i due emisferi (5 km) ha generato un pendio dal polo sud al polo nord che ha rappresentato la causa maggiore dello scorrimento dell’acqua e del successivo drenaggio delle terre basse dell’emisfero nord nella prima storia marziana. Se l’acqua fu presente in passato, ciò significa che le condizioni termodinamiche del pianeta erano diverse. L’atmosfera di Marte poteva essere più densa in passato a causa delle intense eruzioni vulcaniche. Inoltre la presenza di un campo magnetico residuo fa pensare che in passato, gli intensi processi erosivi della atmosfera marziana per effetto del vento solare fossero ridotti, a causa del campo magnetico intrinseco all’epoca presente. Quando l’evoluzione interna di Marte terminò, il vulcanismo lentamente si estinse, così come il campo magnetico interno, poiché entrambi i processi sono legati alla presenza di un mantello convettivo.
Nonostante ciò, il problema rimane ancora aperto: non è per niente chiaro che fine abbia fatto l’acqua, né in quale epoca era presente allo stato liquido su Marte.
Un’altra caratteristica che rende differente Marte dalla Luna e da Mercurio sono le calotte polari: Mars Express ha dimostrato che ambedue i poli marziani possiedono calotte di ghiaccio le cui dimensioni aumentano o diminuiscono al variare delle stagioni. Le distese ghiacciate sono sepolte da strati di polvere e cenere vulcanica e ciò permette una certa stabilità di queste formazioni le quali, altrimenti, a causa delle basse pressioni presenti su Marte, si trasformerebbero facilmente in vapore.
I ghiacci che stagionalmente variano di dimensioni sono composti di diossido di carbonio, mentre la calotta permanente, quella che resiste anche durante l’estate, è composta prevalentemente da ghiaccio d’acqua (almeno al Polo Nord). Le dimensioni della calotta a Nord sono di circa 1000 km, mentre quella a Sud è un po’ più piccola.
E’ curioso notare come dall’analisi di questi ghiacci si possano estrapolare delle informazioni sull’attività delle tempeste marziane. Infatti, i ghiacci presentano delle stratificazioni più scure che rappresentano dei depositi sottostanti di materiale planetario accumulato nel tempo. Di conseguenza, differenze fra strati successivi sono probabilmente il risultato di variazioni nell’attività delle tempeste di sabbia.
Analogamente agli altri pianeti rocciosi conosciuti, Marte presenta una struttura interna tipicamente composta da un nucleo centrale, da un mantello e da una crosta superficiale. Le informazioni in nostro possesso sono tuttavia frammentarie; una migliore comprensione della struttura interna del pianeta rosso potrebbe contribuire a far chiarezza sui meccanismi che potrebbero aver generato la sua atmosfera, sulla possibile presenza in passato di vita su Marte e sull'evoluzione planetaria dei pianeti rocciosi in generale. Sfortunatamente, la mancanza di dati sismologici significativi impedisce una conoscenza sufficientemente dettagliata dell'interno di Marte; tuttavia, grazie alle misurazioni del momento d'inerzia di Marte effettuate dalla sonda spaziale statunitense Mars Pathfinder è stato possibile accertare con sicurezza che il nucleo del pianeta, composto da materiali più densi rispetto al mantello, ha un raggio compreso fra 1500 e 2100 km. Esso occupa circa il 21 % della massa del pianeta e risulta essere composto delle seguenti abbondanze: 77 % Fe; 15 % S; 7.6 % Ni; 0.4 % Co (Wanke and Dreibus, 1988).
Le recenti osservazioni della missione MGS (studi su movimenti di marea indotti dal Sole) forniscono nuovi vincoli ai modelli del nucleo di Marte, indicando un nucleo almeno in parte liquido, e grande almeno la metà dell’intero raggio planetario (confermando così i dati del Pathfinder).
In analogia col nucleo della Terra e degli altri pianeti terrestri, si ritiene che il nucleo di Marte sia ricco di leghe ferrose, soprattutto solfuro di ferro (questo in base alle osservazioni dei meteoriti marziani -ricchi di tale lega-, ai modelli di formazione del pianeta, e alla elevata capacità dello zolfo di dissolversi nel ferro); ed è da notare che la chimica dello zolfo è particolarmente interessante, per le proprietà fisiche che derivano dalle sue leghe. Ad esempio, la temperatura di fusione del ferro si riduce notevolmente aggiungendovi zolfo.
Di conseguenza, sono stati effettuati alcuni esperimenti per testare il comportamento del FeS a temperature e pressioni estreme, tramite l’analisi della diffusione di raggi-x provenienti da una Advanced Photon Source (APS). Si è potuto vedere dunque, che quando portato a temperature e pressioni simili a quelle del nucleo marziano, il campione di FeS subisce un cambiamento di fase da una struttura cristallina con bassa simmetria ad una forma esagonale detta APS-IV; in più si è potuta conoscere la densità del campione sotto tali condizioni. Infine, sempre tramite APS si è trovato che nelle suddette condizioni il ferro si separa dagli altri materiali silicei e si deposita sul fondo del campione (Fei et al., 1995).
Sulla Terra, la presenza di un nucleo liquido ferromagnetico rotante è responsabile del campo magnetico; Marte, al contrario, non presenta un campo magnetico paragonabile con quello terrestre. Pur non escludendo del tutto la presenza di un nucleo interamente liquido, tale mancanza è un forte indizio a favore della presenza di un nucleo interno solido. Inoltre, dalla presenza degli enormi edifici vulcanici che caratterizzano il pianeta rosso si può inferire l'esistenza di un mantello almeno in parte liquido, al cui interno sono presenti moti convettivi in grado di trasportare materiale lavico verso la superficie.
Una delle più recenti e importanti scoperte della MGS è che Marte non è dotato di un campo magnetico globale di tipo dipolare come la Terra. Misure eseguite da missioni precedenti erano state piuttosto ambigue e avevano portato solo ad una stima del limite superiore dell'intensità del possibile campo magnetico marziano. La sonda MGS invece, ha raggiunto quote al periastro dell'ordine di soli 100 km ed è stato possibile scoprire l'esistenza di tutta una serie di campi magnetici locali distribuiti sulla superficie del pianeta (Science, Vol. 284, pp. 790-798, 1999).
La maggior parte delle sorgenti del campo magnetico si trova nelle regioni altamente craterizzate dell'emisfero sud (Acuna et al., 1999), le pianure dell'emisfero nord ne contengono molte di meno. Non è stata trovata nessuna correlazione fra sorgenti e crateri da impatto, così come nessun campo magnetico è stato rilevato nelle regioni di Tharsis, Elysium, Valles Marineris e sui grandi edifici vulcanici. I bacini da impatto di Hellas e Argyre (la cui età è stimabile a circa 3.9 miliardi di anni) non presentano sorgenti di campi magnetici. Questi campi magnetici locali, per certi aspetti, sono l'analogo delle anomalie magnetiche terrestri. Ad una distanza di 400 km le più grandi anomalie magnetiche della Terra (rilevate dai satelliti) possono provocare una variazione dell'intensità del campo di ± 10 nT. Per confronto, il campo geomagnetico sull'equatore magnetico ha un'intensità di 3x104 nT. A parità di quota la più intensa anomalia marziana (presente nella regione di terra Sirenum fra 120°-210° W e 30°-85° S), ha una variazione di ± 200 nT: un valore 20 volte superiore a quello terrestre. Questo campo magnetico è sufficientemente intenso da deviare il vento solare e dare luogo ad una magnetosfera (Connerney, 2001 ).
È logico pensare che i campi magnetici sulla superficie di Marte siano i residui della magnetizzazione della crosta fusa del pianeta all'inizio della sua storia. Infatti, è ragionevole attendersi che, subito dopo la formazione del pianeta, fosse presente un campo magnetico globale generato per effetto dinamo dal nucleo ancora liquido di Marte. Durante il raffreddamento della crosta, ad un certo punto la temperatura è scesa al di sotto del punto di Curie e la superficie ha acquistato una magnetizzazione permanente. In seguito l'effetto dinamo deve essere cessato molto presto (su scala geologica) e gli impatti con corpi extraterrestri hanno rifuso la crosta e cancellato localmente il campo magnetico delle rocce. Il risultato finale di questo processo è una serie di campi magnetici locali come quelli che si osservano oggi. L'intensa magnetizzazione della crosta marziana è consistente con il suo alto contenuto di ferro, che a sua volta è consistente con una scarsa differenziazione del pianeta. Il fatto che l'emisfero nord del pianeta contenga poche sorgenti magnetiche depone a favore del ringiovanimento superficiale, in accordo con il basso tasso di craterizzazione di quelle regioni.
L'analisi dei campi magnetici “fossili” di Marte (paleomagnetismo) ha portato indizi a favore della presenza di un'attività tettonica. La teoria generalmente accettata non prevede la presenza di strutture di origine tettonica sul pianeta a causa dello spessore eccessivo della crosta (le stime danno 30 km) e del piccolo nucleo che avrebbero inibito la formazione delle placche tettoniche. Tuttavia i dati della MGS hanno mostrato l'esistenza di bande a magnetizzazione alterna alla superficie del pianeta. Le bande, centrate attorno a 180° W dall'equatore ai poli, hanno una larghezza di circa 160 km e una lunghezza fino a 2000 km, con orientamento in senso est-ovest. Queste strutture sono analoghe alle bande magnetiche presenti sul fondo degli oceani terrestri e allineate con le dorsali oceaniche. Nelle dorsali oceaniche è creata nuova crosta che, raffreddandosi al di sotto della temperatura di Curie, è magnetizzata secondo la direzione corrente del campo magnetico terrestre. Il campo magnetico della Terra però è soggetto ad inversioni della polarità ed è questa la causa delle strisce magnetiche a polarità alternate. Su Marte è presumibile che abbia agito un meccanismo simile. Purtroppo non sono ancora state trovate le strutture responsabili della formazione della nuova crosta (analoghe alle dorsali oceaniche), ma è possibile che siano state cancellate dagli impatti. Questo indizio a favore della tettonica di Marte non è in contrasto con quanto si diceva a proposito delle dimensioni dei suoi vulcani: evidentemente i vulcani sono cresciuti dopo la cessazione dei movimenti tettonici (Carbognani, Il Pianeta Marte, 1999).
La datazione radiometrica è uno dei metodi per determinare l’età degli oggetti antichi. Essa si basa sul tempo di dimezzamento di isotopi radioattivi a lunga vita: alcuni isotopi sono instabili (dunque radioattivi) e possono decadere in isotopi più stabili, fenomeno accompagnato dall’emissione di particelle tipiche del decadimento beta. Il decadimento è di tipo esponenziale, e il parametro che ne descrive la velocità è il tempo di dimezzamento. Gli isotopi utili per la datazione radiometrica sono quelli con vita media elevata, dell’ordine dei milioni o dei miliardi di anni.
Il sistema più utilizzato per la datazione di Marte è il sistema 182Hf – 182W, che ha un tempo di dimezzamento pari a 9 Myr, ideale per i tempi-scala di accrescimento tipici dei modelli proposti da Savronov e Wetherill. I risultati ottenuti portano a collocare i processi di accrescimento e di differenziazione entro i primi 20 Myr del pianeta (Lee and Halliday, 1997). Inoltre, se ipotizziamo per Marte un tasso di accrescimento pari a quello della Terra, la sua formazione risulterebbe completa entro 10 Myr, e ciò è consistente con le datazioni di 182W. Dunque i due pianeti sarebbero cresciuti allo stesso tasso di impatti: la differenza deve risiedere nell’assenza di un impatto gigante, nel caso di Marte, probabilmente dovuta alla vicinanza di Giove.
Lo studio dell’evoluzione di Marte ha ricevuto un grande impulso dall’analisi chimica e mineralogica dei meteoriti precipitati sulla Terra, i quali riflettono i processi geologici che il pianeta ha subito prima di poter generare i materiali osservati.
Le meteoriti marziane sono generalmente individuate dal suffisso SNC, costruito con le iniziali dei primi tre esemplari ritrovati: ovvero Shergotty (cadute in India nel 1865), Nakhla (cadute in Egitto vicino ad Alessandria nel 1911) e Chassigny (cadute nella regione della Alta Marna in Francia nel 1815). L’indubbia origine marziana deriva dall’analisi delle età delle meteoriti, nonché dalla loro composizione.
Infatti, è noto che le età di cristallizzazione dei meteoriti asteroidali è di circa 4.5 Gyr, mentre quella degli SNC varia tra 154 Myr e 1.3 Gyr; inoltre, la prova più evidente del fatto che sia Marte il corpo genitore degli SNC è la composizione gassosa intrappolata nelle vescicole di tali meteoriti (gas rari, azoto, CO2), con rapporti isotopici molto diversi da quelli osservati in tutti gli altri meteoriti, ma simili a quelli caratteristici dell’atmosfera marziana.
Per meglio comprendere il metodo di analisi delle superfici marziane, qui di seguito vengono elencati i maggiori gruppi costituenti gli SNC.
Questo sottogruppo contiene 17 esemplari di rocce acondritiche e rappresenta il tipo più abbondante di meteoriti marziane. Sono rocce ignee di origine vulcanica e assomigliano alle rocce terrestri più di ogni altro gruppo acondritico. La loro età media di cristallizzazione è compresa tra i 150 e il 200 Myr, e solitamente presentano segni di forte metamorfismo da shock: generalmente, il plagioclasio delle shergottiti è stato trasformato in maskelinite, un vetro che si genera quando il plagioclasio viene sottoposto a shock compressionali di almeno 30 GPa. E’ probabile che si siano formate nello scontro che ha estratto il meteorite dalla superficie di Marte scagliandolo nello spazio (Bruno Fectay, Carine Bidaut, The Earth’s Memory, 2007).
Le shergottiti vengono a loro volta divise in due sottogruppi, in base alla loro composizione:
Shergottiti Basaltiche: sono rocce basaltiche di origine vulcanica, consistenti soprattutto di clinopiroxene, olivina, ortopiroxeni e vari ossidi, solfuri e fosfati. Molte di queste rocce presentano tratti tipici di interazione con l’acqua marziana, sia sotto forma di silicati idrati, che in forma di sali carbonati e solfati;
Shergottiti Lerzolitiche: rocce ultramafiche, simili alle lerzoliti terrestri. Sono composte soprattutto di olivina a grana media. Contengono una minor area di vetro plagioclasio, ma sono presenti clinopiroxene, ossidi e fosfati (hanno caratteristiche mineralogiche e chimiche simili alle shergottiti basaltiche).
Questo gruppo è costituito da pochissimi esemplari di roccia contenenti clinopiroxeniti a grana fine, i quali consistono soprattutto di verdi cristalli di augite con minor olivina in una mesostasi a grana molto fine. Queste mesostasi sono composti di plagioclasio, pirogeni, ossido di titanio-ferro, solfuri e fosfati. La presenza nei nakhliti di minerali idrati e di ioni acqua-solubili come Cl, K, e Ca, suggeriscono che essi erano presenti in luoghi di raccoglimento dell’acqua su Marte. La loro età di cristallizzazione è stimata essere compresa tra 1.3 e 1.4 Gyr.
Questo gruppo in realtà è costituito di un solo esemplare. E’ una roccia che assomiglia molto alla dunite terrestre e consiste di circa 91% di olivina ricca in ferro, 5% clinopiroxene, 1.7% plagioclasio, 1.4% cromite, più altri minerali e fasi in percentuali ridotte. Le crepe all’interno di tale roccia sono riempiti di sali carbonati e solfati, ad indicare un alterazione acquatica pre-terrestre.
Chassigny mostra una composizione isotopica dell’ossigeno piuttosto tipica, tale da piazzarsi indubbiamente nel campo degli SNC. La sua età di cristallizzazione è di circa 1.36 Gyr, e le sue proprietà elementari indicano una strettissima relazione con i Nakhliti, suggerendo una comune origine dal magma marziano. Tuttavia, la composizione gassosa di Chassigny è molto diversa da quella degli altri SNC e anche diversa dalla composizione atmosferica di Marte, per cui si suppone che l’origine di questi gas (dunque di Chassigny stessa), sia da ricercare nel mantello, non nella superficie.
L’unico membro di questo gruppo è il cosiddetto ALH84001, ritrovato in Antartide nel 1984. E’ una roccia consistente al 97% di ortopiroxene ricco in magnesio, contenente anche plagioclasio, cromite e carbonato. La sua classificazione come meteorite marziano è stata indotta dalla presenza di ferro ossidato e dalla sua composizione isotopica dell’ossigeno.
Questo esemplare è il membro più particolare degli SNC. La sua età di cristallizzazione è di circa 4.4 Gyr, rappresentando così un esempio della primissima crosta marziana. L’aspetto più interessante di questa meteorite sono dei piccoli carbonati sferici di color arancio formatisi circa 3.9 Gyr fa in presenza di acqua liquida, al cui interno sembrano risiedere dei microfossili simili ai nanobatteri terrestri. Tuttavia, tale scoperta è da sempre motivo di dibattito (Bruno Fectay, Carine Bidaut, The Earth’s Memory, 2007).
Figura 2.1.4
Il meteorite marziano ALH84001
Per decifrare l’evoluzione geologica di un pianeta, è necessario determinare la composizione globale, e soprattutto le abbondanze elementari, isotopiche, molecolari e mineralogiche. Questo rappresenta un compito complesso, che richiede la combinazione di immagini spettrali ad alta risoluzione, analisi in situ e analisi in laboratorio di campioni di provenienza conosciuta.
Poiché la formazione dei minerali dipende fortemente dalle condizioni termodinamiche in cui si sono generati, i minerali stessi sono diretti indicatori degli ambienti passati e dei processi di formazione.
Per stimare la composizione mineralogica della superficie, si utilizzano analisi spettroscopiche nelle lunghezze d’onda del vicino infrarosso (NIR) e del medio infrarosso (mid-IR), per le quali i materiali superficiali presentano forti transizioni elettroniche e vibrazionali. Dunque, le lunghezze d’onda utili a quest’analisi sono comprese tra 0.8 mm (Bibring and Erard, The Martian Surface Composition, 2001).
Nell’infrarosso vicino (NIR), la l mm corrisponde all’eccitazione elettronica degli ioni di Fe dei silicati (Gaffey et al., 1993). Per composti ricchi in Fe3+ (silicati d’argilla e ossidi), il picco di emissione si ha per l < 0.9 mm, mentre per i silicati ricchi di Fe2+ il picco oscilla tra 0.9 < l < 1.05 mm.
Gli ortopiroxeni sono separati dai clinopiroxeni in base alla l caratteristica a 2 mm, piccata a l < 2.2 mm per i primi, e l > 2.2 mm per i secondi.
La banda vibrazionale O-H a 2.7 < l < 3.5 mm permette di identificare i minerali idratati e il loro livello di idratazione.
Il range IR termico, invece, situato tra 6 – 20 mm, corrisponde alla vibrazione fondamentale dei principali legami molecolari (come SiO4, CO3, SO4, OH).
Se osservato nel range ottico, la superficie di Marte risulta divisa in grandi aree distinte: distese luminose, distese scure e calotte polari. La posizione e la grandezza di tali aree varia stagionalmente.
Lo spettro delle regioni scure può essere attribuito ai basalti, le cui caratteristiche spettrali sono dominate da materiali ferromagnetici (“mafici”) e vulcanici (Bandfield et al., 2000). Queste regioni hanno uno spettro tipico dell’assorbimento del ferro in minerali mafici come i pirosseni.
Le regioni luminose, invece, sono legate a prodotti di alterazione dei basalti, e sono molto omogenee dal punto di vista spettrale, pur essendo composte principalmente di un sottile strato di ossido di ferro.
Tutto ciò è consistente con l’interpretazione che le regioni luminose siano ricoperte di un finissimo strato di polvere superficiale mischiata su scala planetaria, mentre le regioni scure mostrano le rocce sottostanti, che meno riflettono la radiazione ottica, e presentano solo una leggera contaminazione dei materiali luminosi.
In ultimo, le calotte polari sono soprattutto misture di CO2 e H2O ghiacciati, con rapporti variabili nel tempo e nello spazio.
Sebbene la polvere venga distribuita su scala planetaria, esistono delle zone in cui le rocce scure non ne vengono ricoperte, scoprendosi alla vista e all’analisi. Tali zone sono state esaminate da tre tipi di misure spaziali: (a) analisi in situ delle rocce da parte della missione Pathfinder, (b) immagini spettrali NIR da parte dell’ISM, (c) immagini spettrali termiche TES.
(a) ANALISI DEL PATHFINDER
Il Pathfinder non ha trovato roccia sedimentaria, solamente silicati ricchi in Si, con una composizione elementare simile all’andesite terrestre (Rieder et al., 1997). Inoltre, sono state riscontrate delle inaspettate proprietà magnetiche, dalle quali si ipotizza una certa quantità di magnetite, un ossido del ferro.
Oltre a ciò, è da notare che le rocce analizzate sono ricche in Al, contrariamente agli SNC, i quali probabilmente provengono da una zona impoverita di Al.
(b) ANALISI ISM
La capacità di acquisire immagini multispettrali di ISM permette di identificare ed eseguire mappe mineralogiche basate sulle caratteristiche spettrali dei vari strumenti con un livello di confidenza dello 0.5%. Qui di seguito vengono riportate due grandi aree mappate dall’ISM: Valles Marines e la regione Syrtis Isidis.
(b.1) SYRTIS/ISIDIS
Syrtis Major è la regione più scura di Marte. Le immagini ad alta risoluzione del MOC (MGS) mostrano che lo stesso substrato è composto prevalentemente di materiale vulcanico scuro, coperto da grandi dune di sabbia scura. A sua volta, Syrtis Major può essere suddiviso in due differenti unità. La parte ovest mostra caratteristiche tipiche, consistenti con una composizione compresa tra mafica e ultramafica. Questo materiale è molto scuro (albedo di 0.10 a 1.1 mm) e mostrano le più profonde righe di assorbimento da pirossene. Analisi più specifiche hanno mostrato che questi dati vengono fittati meglio da una mistura di pirossene sia a basso che ad alto contenuto di Ca. La parte est di Syrtis Major mostra caratteristiche un po’ diverse, in particolare un assorbimento ridotto da parte dei pirosseni ed un ampliamento della banda a 1 mm verso le piccole lunghezze d’onda, che segnala la presenza di ossidi del ferro.
(b.2) VALLES MARINES
I materiali osservati in quest’area mostrano grandi variazioni di tutti i parametri spettrali, al contrario delle zone circostanti, dove possono essere ben distinte due unità spettrali: l’area ovest (Tharsis) caratterizzata da terreni con luminosità e idratazione omogenee, e l’area nord-est (Pianura Ophir) con materiali più scuri e asciutti; ambedue le zone sono composte da pirossene con un contenuto di Ca minore di Syrtis Major.
(c) ANALISI TES
I dati ottenuti tramite TES portano all’individuazione di tre principali tipi di materiale.
Una grande area equatoriale (Sinus Meridiani), la quale appare di color grigio piuttosto che rossa, che sembra contenere ematite cristallina con un’abbondanza del 15%, mentre in qualsiasi altra parte di Marte è << 5%. Inoltre, TES ha permesso di distinguere un “dualismo” su scala globale, separando la regione degli altopiani a sud, in cui dominano rocce mafiche vulcaniche povere in Si (simili ai basalti), dalla regione delle pianure a nord, costituita principalmente di rocce mafiche evolute ricche in Si (simili all’andesite).
Le analisi delle zone chiare da parte delle missioni Viking e Pathfinder, hanno fornito dati molto simili: alto contenuto di Si e Fe, MgO/Al2O3 1, altissime abbondanze di S e Ca (indicative di sali), bassissimo contenuto di K (Clark et al., 1982; Banin et al., 1992).
Le analisi spettrali NIR mostrano un picco per l < 0.9 mm, il che è indice di ferro altamente ossidato anziché pirossene ricco in ferro. Inoltre, questi spettri mostrano profonde bande di idratazione per l mm, le quali forniscono una stima del livello di idratazione, che a sua volta è strettamente legata alla riflettanza del materiale.
Si pensa dunque, che le zone chiare su Marte siano costituite da un gruppo di minerali quali silicati, ossidi di ferro e carbonati (Bell, 1996). Un materiale terrestre analogo a quello che potrebbe costituire tali terreni ricchi in Fe, è la cosiddetta palagonite. Essa si forma dall’alterazione di vetri mafici vulcanici a basse temperature, soprattutto tramite l’interazione con l’acqua. Le simulazioni mostrano che grandi quantità di palagonite sarebbero consistenti con gli spettri osservati (Allen et al., 1981).
Tali spettri mostrano una piccola quantità ( 5%) di ematite cristallina a grana fine, la quale costituisce la componente dominante dei terreni luminosi, pur non essendo l’unica. Sembra infatti, che tali terreni contengano anche ossidi del ferro idratati e ossidrossidi.
Lo spettro della polvere dispersa risulta ovviamente diverso da quello della polvere che ricopre i terreni di Marte, in quanto i grani di polvere nella prima non sono a contatto e sono di dimensioni minori.
Le analisi più recenti mostrano la seguente composizione di tale polvere: 50% albite (feldspato), 10% solfati, 20% piroxene, 20% olivina.
Mars Express è la sonda dell’ESA, spedita in orbita marziana nel giugno 2003, e che ancora oggi, a seguito di un prolungamento della sua operatività, continua a inviarci dati ed immagini del pianeta rosso. La sua peculiarità è quella di essere dotata di un sofisticatissimo set di strumenti scientifici in grado di scandagliare fin nel dettaglio l’atmosfera, la superficie e il sottosuolo di Marte, fornendo immagini ad alta risoluzione e spettri a varie lunghezze d’onda che descrivono la composizione delle zone osservate. In origine la missione prevedeva anche l’ammartaggio di un lander (Beagle 2) in grado di studiare la geologia e la composizione del sito di arrivo, ma sfortunatamente di questo strumento si persero i contatti poco dopo la separazione dall’orbiter.
La sonda è dotata di un complesso di 7 strumenti:
Planetary Fourier Spectrometer (PFS), analizza la composizione dell’atmosfera tramite la luce solare assorbita (1.2 < l < 45 mm) dalle molecole che la compongono e dalla radiazione infrarossa riemessa;
OMEGA è uno dei sette strumenti a bordo della missione ESA Mars Express. E’ uno spettrometro ad immagine nel visibile e nel vicino infrarosso (NIR), con un intervallo spettrale fra 0.35 e 5.2 mm. E’ stato progettato per studiare la composizione mineralogica e molecolare della superficie e dell’atmosfera di Marte.
Lo strumento pesa 29 Kg e possiede due canali spettrali, uno per la luce visibile (0.35 – 1.0 mm) e l’altro per la luce nell’infrarosso (1.0 – 5.2 mm). Entrambi i canali comprendono un telescopio, uno spettrometro e un apparato ottico per focalizzare la luce su di una CCD, nel caso del canale visibile, e su due dispositivi InSb, nel caso del canale NIR. Il canale visibile è in grado di misurare lunghezze d’onda della radiazione incidente con una risoluzione di circa 7 nm; la risoluzione nel NIR sarà invece di 13–20 nm. Nel procedere lungo la sua orbita, Mars Express consente ad OMEGA di acquisire gradualmente una mappa dell’intero pianeta, mettendo insieme immagini quadrate, con il lato di lunghezza variabile fra i 4 km e i 300 m. Ciò permette di sviluppare una mappa spettrale dell’intera superficie marziana ad una risoluzione spaziale di 1 – 4 km. Siti di maggiore interesse, che costituiscono circa il 5% dell’intera superficie, vengono invece mappati ad una risoluzione di 300 m.
La risoluzione spaziale di OMEGA è maggiore di quella di qualunque altro spettrometro che abbia orbitato prima intorno a Marte; questa caratteristica, unitamente al suo ampio intervallo spettrale, hanno già permesso di ricostruire mappe dei silicati, del contenuto in ferro nel suolo, del grado di ossidazione del ferro, del livello di idratazione delle rocce e dei minerali di tipo argilloso, e delle abbondanze di minerali chiave nella comprensione della storia passata di Marte, come carbonati e nitrati.
Uno dei contributi più importanti apportati da questo strumento è stato la scoperta di prove inconfutabili che in passato Marte ha mantenuto l’acqua allo stato liquido. La ricerca dell’acqua sul pianeta rosso ha ricevuto una forte spinta nel momento in cui sono state riconosciute sulla sua superficie alcuni solchi di origine sconosciuta, che potevano verosimilmente essere stati i letti dei fiumi che in passato hanno solcato Marte. I dati raccolti da OMEGA invece, non lasciano più dubbi sul fatto che la storia di Marte abbia avuto un periodo in cui grandi masse d’acqua erano presenti allo stato liquido. Tale passato infatti, ha lasciato alcuni segni sulla superficie e all’interno del pianeta sottoforma di minerali idratati (così chiamati perché contengono acqua all’interno della loro struttura cristallina).
I minerali idratati scoperti sono di due tipi, “fillosilicati” e “solfati idratati”, e ambedue sono il frutto di un’alterazione chimica delle rocce, pur provenendo da processi di formazione molto diversi e da differenti condizioni ambientali (dunque da periodi diversi).
I fillosilicati (il cui nome proviene dalla loro caratteristica struttura in sottili strati – phyllo = strato sottile) sono il prodotto di alterazione dei minerali ignei (ovvero, di origine magmatica) lungamente a contatto con l’acqua. L’argilla è un classico esempio di questi prodotti.
Tali minerali sono stati rivelati da OMEGA soprattutto nelle regioni di Arabia Terra, Terra Meridiani, Syrtis Major, Nili Fossae e Mawrth Vallis, sotto forma di depositi scuri.
I solfati idrati invece, sono sempre minerali generati da processi di idratazione, ma diversamente dai fillosilicati, essi si formano dai depositi di acqua salata. Sono stati rilevati nella regione di Valles Marines, in depositi stratificati diffusi a macchia, nella regione di Terra Meridiani, sotto forma di estesi depositi, e all’interno delle dune scure della calotta polare nordica.
L’analisi del contesto geologico, combinata con la tecnica del conteggio dei crateri capace di determinare l’età relativa della caratteristica superficiale in analisi, colloca la formazione dei fillosilicati nella prima parte dell’era Noachian, durante il periodo di intensa craterizzazione. La formazione dei solfati invece, è avvenuta successivamente e in condizioni diverse. Sembra infatti che per la loro “nascita” non sia necessario un lungo periodo di contatto con l’acqua liquida; tuttavia, è indispensabile che l’acqua ci sia e che sia acida.
Dunque, la rilevazione di questi due tipi di minerali porta ad ipotizzare due grandi episodi climatici nella storia di Marte: un ambiente antico (Noachian) e umido, in cui si sono formati i fillosilicati, seguito da un ambiente più acido in cui si sono formati i solfati. Questi due scenari sono separati da un cambiamento climatico di portata planetaria.
Per l’identificazione dei solfati, si utilizza il range 1.3 < l < 2.5 mm; in questo intervallo infatti, la luce solare riflessa domina lo spettro, rendendo trascurabile l’emissione termica planetaria. Inoltre, per queste lunghezze d’onda, dominano le caratteristiche vibrazionali di OH e H2O: molti minerali idratati mostrano bande di assorbimento a mm e mm. Nell’intervallo 2.2 < l < 2.4 mm, assorbimenti sottili caratterizzano vibrazioni metalliche e sono indice di minerali; anche i legami S-O causano assorbimenti in questo range quando associati all’ H2O.
(Sinistra) Dal basso verso l’alto: calcite
(carbonato), ematite (ossido), enstatite (ortopiroxene), olivina,
montmorillonite (fillosilicati), nontronite (fillosilicato), cabazite
(zeolite), kieserite (solfato), e gesso (solfato). (Destra) Solfati monoidrati, dal basso verso
l’alto: MgSO4 H2O (kieserite), MnSO4 H2O, e ZnSO4 H2O. [Immagine da Science, Vol 307, 11 Mar 2005]
Figura 3.2.1a
Lo studio dell’interazione tra la materia e i fotoni è un’importante fonte di informazioni che consente di ricavare preziose caratteristiche chimiche e fisiche del campione in analisi. Quando un oggetto è colpito da un fascio di fotoni, l’interazione di questi con il corpo può presentarsi in diversi modi: una parte di essi viene riflessa dal corpo, una parte verrà rifratta e una parte assorbita. Inoltre, bisogna considerare che un corpo ad una certa temperatura emette radiazione elettromagnetica secondo uno spettro il cui massimo di emissione dipende dalla temperatura stessa; ad esempio, l’emissione di un corpo a temperatura ambiente è centrata nell’infrarosso.
Dallo studio della luce riflessa dal corpo, siamo in grado di risalire a molte delle caratteristiche del campione in esame. Infatti, conoscendo l’intensità della luce incidente e misurando quella riflessa, si ricava l’entità dell’assorbimento operato dal corpo e, dunque, le caratteristiche fisiche e chimiche degli elementi che compongono il campione, e che contribuiscono ad operare tale assorbimento, nonché lo stato fisico in cui esso si trova (solido, liquido, gassoso).
Dallo studio degli spettri di assorbimento dunque, si può risalire agli elementi che costituiscono il corpo e alla loro abbondanza.
Esistono fondamentalmente due tipi di processi che causano assorbimento:
Processi elettronici: in questi casi, l’assorbimento della radiazione incidente è dovuta all’eccitazione dei livelli atomici, da parte dell’energia hn trasportata dal fotone, la quale permette il salto da un livello energetico ad un altro tramite l’assorbimento di specifiche frequenze (quelle che trasportano un’energia pari alla differenza di energia tra due livelli accessibili dall’elettrone);
Effetti vibrazionali: qui l’assorbimento è operato da parte delle molecole che, se schematizzate come un reticolo cristallino, vibrando con determinate frequenze (dipendenti dalle costanti elastiche e dalle masse dei corpi collegati), possono assorbire radiazioni le cui lunghezze d’onda sono tali da eccitare le vibrazioni stesse.
Per poter simulare l’irradiamento solare, c’è bisogno di un apparato dotato di una sorgente luminosa collimata e che permetta variazioni sensibili della geometria del sistema; tale strumento è detto goniometro, ed è costituito di due bracci rotanti attorno ad un unico asse, alle cui estremità vi sono dei sostegni che permettono di reggere i microcollimatori. Il campione da analizzare viene posizionato lungo l’asse di rotazione dei due bracci. Come sorgente luminosa si utilizza una lampada la cui luce viene collimata attraverso l’uso di sistemi ottici appropriati; la luce è poi condotta, tramite fibra ottica, ad un microcollimatore posizionato su uno dei due sostegni, dove subisce un’ulteriore collimazione prima di essere condotta sul campione. Sull’altro sostegno si pone un’appropriata interfaccia che permette di convogliare fino ad uno spettrometro la luce riflessa dal campione.
L’intero apparato di analisi ed elaborazione, è composto di due parti fondamentali:
Accenniamo inoltre, ad un tipo più complesso di analisi, detta di riflettanza bidirezionale, nella quale si variano gli angoli di illuminazione e di raccolta della luce rispetto alla normale alla superficie del campione. Questo tipo di analisi è utilizzato per studiare le caratteristiche fisiche di un corpo (come la rugosità di una superficie) poiché, al variare degli angoli di illuminazione e di raccolta, l’intensità varierà di conseguenza in base, ad esempio, alle dimensioni dei grani (o allo spazio tra essi) che costituiscono il campione. Di conseguenza, anche se le posizioni delle bande principali rimangono invariate, quello che varia è l’energia raccolta e la forma dello spettro. In laboratorio non sono state effettuate analisi di questo tipo, ma considerando che molte delle superfici studiate nelle missioni spaziali sono ricoperte di polveri, è importante conoscere l’andamento della riflettanza in funzione della geometria di osservazione al variare delle dimensioni dei grani.
La calibrazione dello strumento avviene tramite un campione di riferimento rispetto al quale si misura la riflettanza. Tale campione è lo spectralon, fornito dalla Labsphere, che ha la caratteristica di essere un diffusore perfetto, la cui riflettanza ha un andamento che può essere approssimato ad una superficie lambertiana. Lo spettro ricavato da questa superficie viene utilizzato come off-set da sottrarre agli spettri successivamente raccolti dai campioni.
Figura
4.3.1 Calibrazione del goniometro attraverso il campione di riferimento
Spectralon.
Nel procedere con l’analisi di campioni tramite il goniometro, bisogna effettuare alcuni controlli preliminari, atti a verificare l’allineamento generale della geometria del sistema, e ad escludere eventuali possibilità d’errore banalmente dovute all’alta versatilità dello strumento (che lo condanna, così, ad essere soggetto a continue alterazioni).
Per prima cosa, bisogna verificare l’allineamento del campione con l’asse di rotazione dei due bracci del goniometro: solo in questo modo infatti, gli strumenti di illuminazione e di raccolta guarderanno sempre allo stesso punto del campione. Inoltre bisogna individuare la verticale alla superficie del campione, tramite una livella a bolla, con la quale viene regolato il piano di supporto del campione in modo da essere orizzontale.
Secondariamente si fissa lo zero dei bracci tramite computer, tenendo conto che l’angolo di fase minimo tra di essi deve essere di 30°, per cui si fissano i bracci rispettivamente a –15° e +15° rispetto alla verticale, e questo sarà l’angolo di fase fisso al quale si effettueranno le misure.
In ultimo, bisogna regolare i sostegni dei bracci di illuminazione e raccolta in modo che lo spot di illuminazione sul campione coincida il massimo possibile con lo spot di raccolta. Per fare questo, utilizziamo un foglio al posto del campione, sul quale disegneremo lo spot di illuminazione che useremo come riferimento, dopodiché, la sorgente luminosa viene sostituita al posto del raccoglitore, in modo da regolare il sostegno di quest’ultimo affinché i due spot siano allineati.
Fatto ciò, possiamo procedere con l’analisi spettrale dei campioni di laboratorio.
Figura
4.4 Il goniometro durante l’analisi spettroscopica di un basalto.
I campioni disponibili in laboratorio, sono quasi esclusivamente dei basalti, con spettri che risultano molto poco pronunciati, più qualche esempio delle più interessanti polveri (palagonite, olivina, plagioclasio), che presentano nei loro spettri delle caratteristiche tipiche proprie di assorbimento.
I basalti esaminati sono 5 campioni differenti (due campioni denominati PB1, uno ST5, e altri due ST18), mentre le polveri sono di tre tipi, con due campioni di olivina; per ogni campione sono stati acquisiti 5 spettri (nel caso dei basalti, sono stati rilevati 5 spettri per ognuno dei due lati del minerale).
Alle lunghezze d’onda di passaggio da un’ottica all’altra (dal visibile al vicino infrarosso, e dal NIR all’IR, dunque rispettivamente per l mm e per l mm), si osserva nello spettro uno scalino dovuto allo sfasamento dei diversi piani focali; il problema viene generalmente eliminato con un’opportuna interpolazione, tuttavia in alcuni spettri tale scalino, anche se di minor entità, non viene rimosso completamente.
Qui di seguito vengono riportati i rispettivi spettri ricavati in laboratorio, in cui sono indicati gli assorbimenti più evidenti.
Come è possibile vedere dagli spettri, i basalti PB1 mostrano uno spettro quasi interamente piatto, tipico dei minerali basaltici (costituiti primariamente da pirossene e plagioclasio, più una percentuale variabile di olivina), con una riflettanza estremamente bassa su tutte le lunghezze d’onda, mentre gli spettri dei campioni ST5 e ST18, pur essendo basalti, hanno bande di assorbimento più profonde, poiché la superficie dei campioni esaminati non è levigata, e mostra dunque assorbimenti maggiori, nonché una più pronunciata dipendenza della riflettanza dalla lunghezza d’onda; inoltre, è da notare che la riflettanza del campione ST18 è evidentemente maggiore di quella degli altri campioni, soprattutto per lunghezze d’onda minori (le differenze nella forma degli spettri possono essere attribuite quasi interamente ad una diversa abbondanza di plagioclasio e olivina nei diversi minerali; l’effetto di quest’ultima, in particolare, se presente in quantità superiori a quelle standard, è quello di spostare la lunghezza d’onda di assorbimento intorno a 1mm verso lunghezze d’onda maggiori).
Per quanto riguarda le polveri, lo spettro ricavato per i due campioni di olivina, è tipico di questo minerale (due assorbimenti tipici piccati intorno ai 600 nm e a 1mm), e i due spettri riportati si differenziano a seconda dello spessore della polvere considerata: il primo spettro si riferisce ad un campione di olivina a grana grossa, mentre il secondo è chiaramente un campione di olivina a grana fine, evidenziato dal picco intorno a 600 nm molto più evidente di quello presente nel primo spettro, e dall’alta riflettività.
Lo spettro ottenuto per il campione di palagonite (che ci si aspetta essere molto simile a quello dei basalti), mostra le caratteristiche classiche di questa roccia, come l’assorbimento a mm e l’assorbimento più marcato a mm; l’analisi degli spettri di questo campione evidenzia un profondo assorbimento della luce dovuto soprattutto allo spessore notevole dei grani che lo compongono.
Per quanto riguarda il campione di plagioclasio, innanzitutto bisogna notare l’alta riflettanza del campione in esame, la quale aumenta all’aumentare della lunghezza d’onda; inoltre, gli spettri ottenuti mostrano una evidente caratteristica del minerale in esame, ovvero l’assorbimento intorno ai 1,25 mm.
Lo scopo di questo lavoro, è stato quello di illustrare gli ultimi sviluppi nel campo della conoscenza del pianeta Marte, in relazione alle potenzialità dello studio dall’orbita, e con particolare attenzione alla missione Mars Express, la quale ci ha permesso di costruire scenari più attendibili di formazione ed evoluzione del pianeta rosso rispetto a quelli ipotizzati precedentemente. Maggiore attenzione è stata data allo spettrometro della Mars Express, OMEGA, che ha permesso di applicare i principi base della spettrometria in modo da ottenere informazioni globali sulla composizione attuale e passata del pianeta; inoltre, è stato possibile sperimentare in laboratorio una “versione semplificata” dello spettrometro OMEGA, il goniometro, con il quale sono stati caratterizzati alcuni campioni di minerali a disposizione, in modo da comprendere nella pratica l’efficienza e la potenza della spettrometria. Lo strumento utilizzato permette l’analisi approfondita di meteoriti, e permette lo studio di qualsiasi altro campione di roccia o polvere.
E’ dunque evidente come l’analisi spettroscopica in laboratorio permetta di “schedare” i campioni in esame esattamente come vengono schedate le impronte digitali: le loro caratteristiche sono uniche e perciò fortemente distinguibili. E’ anche ovvio, però, che le unità del pianeta esaminate dall’orbita non sono “pure”, ma sono il risultato di una serie di processi che alterano le abbondanze relative dei campioni in esame in maniera di volta in volta differente.
Per questa ragione si rende necessaria un’approfondita conoscenza delle diverse quantità dei vari “mattoni” che costituiscono il campione analizzato; tale conoscenza si può acquisire solo tramite un paziente lavoro in laboratorio che permetta di discriminare quali sono le abbondanze relative che meglio riproducono gli spettri osservati, e dalla forma caratteristica di tali spettri, operare direttamente sulle proprietà di risoluzione dello spettrometro, in modo da assicurarsi una discriminazione saggia basata sulla conoscenza a priori degli elementi distintivi degli spettri che ci si aspetta di trovare.
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Immagini e informazioni aggiornate ricavate dai seguenti siti in rete:
https://www.esa.int/esaCP/index.html
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https://www.lukew.com/marsgeo/index.html
https://www.mpch-mainz.mpg.de/~kosmo/members/waenke/opus.htm
https://www.daviddarling.info/encyclopedia/M/Marsatmos.html
https://omega.ifsi.rm.cnr.it/
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