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Concluso l'armistizio i Toscani constatarono con doloroso stupore che del Granducato e del suo esercito, che fino all'ultimo aveva combattuto fianco a fianco con quello sardo, non si faceva nessun cenno; nessuna clausola garantiva l'incolumitÀ del territorio granducale, il quale sarebbe rimasto interamente alla discrezione del vincitore, se non fossero tempestivamente intervenuti i rappresentanti della Francia e della Gran Bretagna.
Tale comportamento del Piemonte giustificava ancora una volta, e completamente, Ferdinando II e le sue esitazioni, in un primo tempo, di acconsentire ad inviare un corpo d'esercito nella valle del Po, e successivamente giustificava l'ordine da lui impartito affinchÈ tale corpo rientrasse nei confini dello Stato Napoletano.
Anche a Roma gli effetti dell'armistizio furono disa-strosi, dando luogo ad una grande diffidenza verso lo stesso Pio IX e riaccendendo gli spiriti repubblicani in tutto lo Stato Pontificio; spiriti repubblicani che incitavano la pubblica opinione contro Casa Savoia accusata di volere non l'UnitÀ d'Italia, ma l'accrescimento della propria potenza con l'annessione della Lombardia e dei granducati e quindi di tutta la florida pianura padana.
A Torino, il 18 febbraio 1849, si aprÌ la seconda legislatura del Parlamento subalpino e in essa ebbe il sopravvento il partito della guerra immediata, nonostante l'assoluta impreparazione dell'esercito sia nelle armi che nei quadri e nella istruzione delle classi anziane richiamate in servizio.
L'Italia centrale e gli Stati romani erano in preda alla anarchia, il Papa si era ritirato a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando IL Leopoldo di Toscana, prima si rifugiÒ a Siena, poi a Porto Santo Stefano e in ultimo se ne andÒ anche lui a Gaeta, quando a Firenze si proclamÒ la Costituente italiana. A Torino, mentre tutti volevano la guerra, l'unico uomo di buon senso a non volerla era il patriota, pittore e scrittore Massimo d'Azeglio, il quale insisteva affinchÈ si concludesse la pace con l'Austria.
Carlo Alberto e il suo Governo, data la cattiva prova fornita dai generali piemontesi, si preoccuparono di assoldare un generale straniero che desse maggiore affidamento per capacitÀ di comando. Non avendo trovato nessun francese disposto ad assumersi tale onere, fu assol-dato un polacco: il generale Crzarnowsky, il quale entrÒ in campagna distaccando un'intera divisione, quella del generale La Marmora, a Sarzana, al di lÀ dell'Appennino.
Tale divisione avrebbe dovuto scavalcare l’Appennino e gettarsi nel granducato di Parma alle spalle del nemico. Programma fantasioso che ignorava come sarebbe stato necessario, prima di ogni altra cosa, fare il maggiore impeto possibile contro l'esercito austriaco, con tutte le forze disponibili, in un solo punto.
Tale errore lo si rileva da quanto scrisse a quei tempi il maggiore Raffaele Cadorna (quello di Porta Pia), padre di Luigi Cadorna della guerra 15-18. Con tale balzana idea del generale polacco, rimase in parte sguarnita la posizione detta « la Cava » nella valle del Ticino; e lÃŒ
avvenne lo sfondamento austriaco con la conseguente disfatta di No vara. E dovendo trovare un capro espiatorio si incolpÃ’ il generale Ramorino di non avere eseguito esattamente gli ordini ricevuti per iscritto e a voce, questi annullando in parte quelli. A disastro avvenuto, Ramorino fu fucilato; ma la veritÀ È che non bisognava dare ordini in forma tale da rendere possibili illazioni e iniziative personali da parte di chi doveva interpretare tali ordini e soprattutto non bisognava inutilizzare una intera divisione a Sarzana, oltre l’Appennino, quando tutta la truppa disponibile doveva essere impiegata per impedire agli Austriaci di entrare in Piemonte.
E un altro appunto È doveroso fare all'operato dello Chrzanowsky ed È questo: il generale polacco prima di iniziare le ostilitÀ visitÒ tutto il fronte, ma tralasciÒ di ispezionale il punto nevralgico, ossia quello dove avrebbero dovuto piazzarsi le truppe agli ordini del Ramorino; la posizione piÙ pericolosa e piÙ importante del fronte.
Colpa gravissima questa del generale polacco, anche perché detto generale aveva dichiarato di non avere fiducia nel Ramorino.
Lo spirito delle truppe piemontesi, purtroppo, all'entrata della nuova guerra non era molto elevato; come non molto elevato era quello di molti ufficiali.
Tutti fecero perÃ’ il loro dovere e pagarono con la vita o con ferite la loro partecipazione ad una guerra che si presentava difficile e con scarse possibilitÀ di successo, anche perché il concetto seguito dallo Chrzanowsky nel preparare il piano d'operazioni non teneva conto esclusivamente delle ragioni militari, ma, soprattutto, era influenzato dalle ragioni politiche.
E il concetto era quello ispirato da Carlo Alberto. Ossia bisognava evitare che in Lombardia si sviluppasse una qualsiasi insurrezione autonoma che rimettesse in dubbio la legittimitÀ del dominio sabaudo. Bisognava quindi rag-
giungere Milano al piÙ presto, insediarvi un'autoritÀ che derivasse i propri poteri non da un moto popolare, ma dal regno dell'Alta Italia.
Come mai un generale straniero, da poche settimane in Italia, era giÀ al corrente dei sottofondi politici delle operazioni militari e vi attribuiva maggiore importanza di quella attribuitavi dai ministri e dai generali piemontesi?
Come mai egli, « ignoto ai piÙ, senza ascendente su ufficiali che non lo stimavano e su soldati che non lo potevano amare, appoggiato solamente da alcuni patriotti in diretto contatto col Re », riuscÃŒ a far prevalere il suo piano di concentramento intorno a Novara? Evidentemente vi era qualcuno che lo sosteneva, qualcuno il cui parere poteva prevalere su tutti gli altri: cioÈ Carlo Alberto. Carlo Alberto voleva la guerra per motivi personali e dinastici, e voleva risollevare il proprio prestigio onde evitare che la Lombardia, in caso di successo, facesse un'affermazione di volontÀ autonoma. Il piano del generale polacco era il piano dinastico: non fare nulla che potesse compromettere l'interesse regio: rinunciare anche ai vantaggi strategici pur di dimostrare che la Lombardia veniva liberata da Carlo Alberto.
Ma È dovere riconoscere che i figli del Re si comportarono da valorosi; il duca di Genova ebbe tre cavalli feriti e il duca di Savoia non fu da meno del fratello.
Carlo Alberto, vedendo delinearsi il disastro militare, cercÒ la morte sul campo, ma non l'ottenne e, avvenuta la disfatta, il 23 marzo abdicÒ in favore del primogenito duca di Savoia, il futuro Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e partÌ in esilio per il Portogallo dove morÌ di dolore il 28 luglio dello stesso anno.
Conseguenza di tali tragici avvenimenti, che modificavano sostanzialmente la situazione politica dell'Italia del Nord, fu che Francia e l'Inghilterra si trovarono fianco a fianco per salvare il Piemonte da troppo gravose condizioni di pace, da parte dell'Impero Austriaco. Il 26 marzo 1849 gli inviati francesi ed inglesi, insieme, si presentarono a Radetzky per ottenere la sospensione di una eventuale marcia su Torino. E l'accordo tra le due potenze era perfettamente logico. Intervenire era per la Francia necessitÀ, perché salvare il Piemonte significava impedire il progresso dell'influenza austriaca verso le Alpi: ed era necessitÀ per l'Inghilterra, perché uno schiacciamento totale del Piemonte da parte dell'Austria, avrebbe fatalmente spinto la Francia ad opporsi, e sarebbe allora scoppiata quella conflagrazione generale, ad evitare la quale il Governo britannico aveva tanto fatto dal 1848 in poi. Il Governo britannico non ignorava che il ministro francese Bastide aveva dichiarato il proposito di quel Governo di difendere la frontiera del Ticino con la stessa energia con cui avrebbe difeso quella del Varo. Quando il 29 luglio 1849, discutendosi le condizioni della pace, Radetzky intimÃ’ a Torino, pena la ripresa della guerra, che entro quattro giorni si firmasse un accordo, il Governo francese diresse a Vienna una energica nota, con la esplicita dichiarazione che se il Piemonte fosse stato attaccato, la Francia lo avrebbe difeso.
Palmerston, informato dal Governo francese di questo passo e richiesto se l'Inghilterra vi si sarebbe associata, affermÃ’ di non poter arrivare a tanto e dichiarÃ’ all'ambasciatore francese che « il Governo britannico il cui interesse non È, in tale questione, uguale al vostro, puÃ’ prestare al Piemonte soltanto appoggio morale e diplomatico ». E queste sono le vere ragioni per le quali il Radezsky, comandante del fortissimo esercito austriaco, accettÃ’ di sottoscrivere il trattato di pace offerto dal giovane Re Sabaudo, il quale aveva sotto il suo comando un'armata sfiduciata e in via di decomposizione mentre il suo piccolo regno si dibatteva, demoralizzato, fra difficoltÀ politiche ed economiche enormi.
Dopo Novara, l'influenza austriaca nel resto della penisola non solo riprese le vecchie posizioni, ma le accentuÃ’ col rapido e vittorioso intervento per le restaurazioni dei vecchi Governi in Toscana, in Emilia, nelle Legazioni e nelle Marche.
Da questo minaccioso sviluppo dell'azione e dell'influenza austriaca la Francia trasse la ragione determinante della sua politica estera, per l'intervento contro la Repubblica romana.
Luigi Bonaparte aveva interesse di accattivarsi il partito clericale francese oltre a quello di impedire l'appesantirsi eccessivo dell'influenza austriaca su tutta la penisola.
D'altra parte il segretario di Stato pontificio, nei colloqui avuti col rappresentante francese in Gaeta, aveva fatto capire al Governo di Francia che mancando o riluttando la Francia, il Papa avrebbe chiesto e sicuramente ottenuto aiuti da Vienna. CosÌ avvenne la spedizione che cominciÒ a fabbricare gli anelli della pesante catena con la quale il destino di Napoleone III venne legato alla questione romana, nella quale l'azione britannica si limitÒ ad esortazioni e consigli di moderazione al Papa, alla Francia e agli stessi dirigenti della Repubblica. E altrettanti consigli di moderazione e di una rapida intesa con l'Austria mandava l'Inghilterra a Manin limitandosi ad assistere alle vicende attraverso le quali l'Austria mirava a riprendere la vecchia posizione nella penisola.
Proseguendo la valorosa resistenza della Repubblica romana contro l'esercito francese che assediava la cittÀ, il governo inglese consigliava al governo romano di accordarsi con la Francia, e di riaccettare il Papa, esigendo garanzia di libertÀ; al Papa consigliava di mettersi in armonia con i sudditi; alla Francia di premere sul Papa in modo da distorglielo dall'atteggiamento reazionario.
La caduta di Venezia, avvenuta il 25 luglio del 1849
dopo diciassette mesi dalla cacciata degli Austriaci dalla laguna, commosse stranieri ed italiani. Daniele Manin, basterebbe il solo fatto di avere lanciato tale idea e di e come tale propugnÒ l'idea dell'UnitÀ d'Italia.
L'UnitÀ d'Italia era il sogno di Giuseppe Mazzini e basterebbe solo il fatto di avere lanciato tale idea e di averla affermata per lunghi anni in Patria e in esilio, per rendere Mazzini meritevole della riconoscenza di tutti gli Italiani. Ma tale idea era capita da pochi patriotti e da nessun governante. In Piemonte quasi tutti gli uomini politici, e si allude anche ad uomini politici di ingegno e in buona fede, come Cavour e d'Azeglio, consideravano tale idea « un'utopia ».
Giuseppe Mazzini l'apostolo dell'UnitÀ d'Italia, conclusa detta UnitÀ, morÌ a Pisa in una modesta casetta di via della Maddalena, il 10 marzo del 1872, celato sotto il nome di Brown, ospite di Giannetta Nathan Rossetti. L'UnitÀ d'Italia, da sogno di pochi, era diventata la realtÀ di tutti gli Italiani, mentre l'apostolo di tale idea moriva da esule in Patria.
Caduta Venezia, i difensori in parte si poterono salvare e in parte furono catturati e portati prigionieri nella fortezza di Alessandria temporaneamente in mano agli Austriaci, i quali molto si erano meravigliati nel constatare come un cosÌ esiguo numero di combattenti giovanissimi, e male armati, avesse tenuto in scacco l'esercito imperiale per tanto tempo.
Ma i volontari difensori della Repubblica veneta erano eroi comandati da eroi. Ed È bene che in questo scritto, che vuoi rendere giustizia agli Italiani del meridione, vengano ricordati insieme a Guglielmo Pepe anche suoi conterranei, quale il colonnello Cesare Rossarol, battezzato dai Veneziani come « l'Argante della laguna », colpito dal fuoco austriaco mentre il 27 giugno 1849 dirigeva la batteria del piazzale centrale del ponte che univa
Venezia alla terraferma; e va ricordato anche Alessandro Poerio del quale si disse che trovÃ’ la morte tra un canto e una battaglia. Ma l'ammirazione dei posteri deve anche andare ad Enrico Cosenz (comandante di una colonna di volontari a Marghera e a Mestre), capitano borbonico coltissimo in arte militare e che divenne nel 1882 e fino al 1893 il primo Capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano al quale, come vedremo in appresso, i combattenti del '15-'18 e l'Italia tutta debbono essere riconoscenti per il suo acume, per la sua cultura militare e per la sua quasi profetica previsione di avvenimenti ancora molto lontani nel futuro.
Oltre a questi valorosi e colti ufficiali napoletani che contribuirono alla difesa di Venezia È doveroso anche non dimenticare i fratelli Carlo e Luigi Mezzacapo. Carlo Mezzacapo partecipÒ poi alla guerra del 1866 come generale di divisione insieme al Cosenz e finÌ la sua carriera come generale di Corpo d'Armata dell'esercito italiano.
Nella narrazione degli avvenimenti bellici del nord Italia (1848 e 1849) È doveroso esaminare quale fu il comportamento delle popolazioni italiane lombarde, venete e friulane in tale periodo. Le popolazioni di tali regioni ebbero un contegno completamente diverso a seconda se appartenessero a centri cittadini importanti o alle campagne, o se fossero colte o incolte.
Sta di fatto che da Milano a Udine i cittadini colti (quelli che oggi vengono definiti borghesi) erano per la maggior parte antiaustriaci e partecipanti di persona alla lotta contro lo straniero. Alcuni ricchi borghesi, di cui alcuni nobili, erano, sia materialmente che sentimentalmente, legati al Governo austriaco. Il popolo delle cittÀ seguiva largamente i borghesi nella rivolta contro lo straniero; nelle campagne la situazione era molto diversa.
Il contadino, il piccolo agricoltore, non capiva il movimento antiaustriaco, anche perché, amministrativamente parlando, il governo austriaco appariva poco criticabile. Il contadino nella guerra vedeva la distruzione delle messi e il disordine nei poderi, la distruzione di case e del patrimonio zootecnico; in poche parole, il disordine materiale e morale che gli eserciti combattenti, in ogni epoca, portano nei territori dove passano.
Inoltre, tranne poche sublimi eccezioni (vedi Ugo Bassi, don Giovanni VeritÀ e i martiri di Belfiore, don Giovanni Grioli, don Bartolomeo Grazioli, don Enrico Tazzoli), il clero era austriacante e tale, nel Trentino, fu anche durante la guerra 1915-1918 12.
Nella prima guerra d'indipendenza i contadini non capivano e quindi non apprezzavano quando stavano facendo i combattenti italiani, convinti che la guerra era voluta « dai sciuri » ( nelle provincie lombarde ) o « dai siori » (nelle provincie venete), tanto che in zone cosÃŒ ricche dal punto di vista agricolo i combattenti mal serviti dalla cattiva organizzazione dell'esercito sardo soffrivano letteralmente la fame e la sete; non solo, ma quando videro ritirarsi definitivamente i combattenti italiani i contadini erano lieti perché dicevano: adesso arrivano i nostri, ossia gli Austriaci.
E lo stesso Garibaldi, durante la campagna del 1866, dovette amaramente constatare che le accoglienze fattegli dalle popolazioni trentine erano fredde, mentre quelle da lui ricevute nell'Italia meridionale, sei anni prima, erano state appassionate e piene di travolgente entusiasmo.
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