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1860 « ANNUS MIRABILIS » PARTE PRIMA
II 1860 È stato l'anno nel quale Sicilia, Calabria, Puglie, Basilicata, Cilento, Napoletano, Molise, Abruzzi, Marche ed Umbria, si unirono d'un sol colpo al resto dell'Italia Centrale e Settentrionale (escluso il Veneto) in conseguenza dell'azione intrapresa da Garibaldi.
Cavour non desiderÃ’, né capÃŒ, in un primo tempo, l'impresa di Garibaldi; poi ne ebbe paura e corse ai ripari, e, da diplomatico astuto quale era, trasformÃ’ quello che lui paventava come una sconfitta della monarchia, in una vittoria della medesima; tutto sfidando, anche le ire degli Stati stranieri gravitanti nel Mediterraneo, pur di mantenere alto il prestigio di Casa Savoia.
Ma tutto ciÃ’ lo portÃ’ a prendere decisioni improvvisate, a volte anche contrastanti tra loro, e poi rapidamente modificate, ma aventi soprattutto lo scopo di sminuire il merito di Garibaldi e dei garibaldini di fronte all'opinione pubblica.
Altro scopo da raggiungere era, per Cavour, il rinfo-colamento dei livori contro Mazzini, tanto che, a vittoria ottenuta, impedÌ al Re la concessione di una totale amnistia politica pur di poter rimandare in esilio il grande pensatore genovese, primo assertore dell'UnitÀ d'Italia.
Cavour, sorpreso dagli imprevedibili e grandiosi avvenimenti, davanti ai quali si era venuto a trovare impreparato, mise in atto (nelle regioni meridionali) provvedimenti improvvisati, affidati anche a persone incompetenti, che, invece di unire, disunivano moralmente ed economicamente le popolazioni del Sud da quelle del Nord, dando cosÃŒ origine a quella incomprensione e a quella differenziazione morale ed economica, che esiste tuttora (dopo cento anni) tra il settentrione e il meridione d'Italia. Garibaldi da lungo tempo pensava alla spedizione in Sicilia, spedizione che non fu conseguenza di un gesto improvviso, ma il frutto di una meditazione, da lui e da altri, lungamente sofferta, tra alterne vicende di entusiasmi e di scoramenti. Alla Sicilia e a Napoli Garibaldi pensava giÀ quando nel settembre del 1859 lanciava il grido: « un milione di fucili, un milione di uomini » e voleva che questi fucili e questi uomini si raccogliessero «sotto il vessillo unificatore del Re Vittorio Emanuele».
Il 22 maggio 1859 era morto Ferdinando II e a lui era succeduto il figlio Francesco II, giovane di 23 anni. Rosolino Pilo, di nobile famiglia palermitana esule a Genova, ai primi di marzo del 1860 si rivolse a Garibaldi per avere aiuti onde suscitare un moto rivoluzionario a Palermo, e domandÃ’ armi da portare in Sicilia. Garibaldi il 15 marzo 1860 rispose al Pilo con questa lettera: «Con questa mia intendetevi con Bertani e la direzione di Milano (quella del milione di fucili) per avere quante armi e mezzi sia possibile. In caso di azione sovvenitevi che il programma È: Italia e Vittorio Emanuele. Io non ripugno da qualunque impresa per azzardata che sia, ove si tratti di combattere i nemici del nostro paese ».
« PerÃ’ nel momento presente non credo opportuno moto rivoluzionario in nessuna parte d'Italia, a meno che non fosse con non poca probabilitÀ di successo ».
Rosalino Pilo rispose a Garibaldi cosÃŒ: « Io penso di partire per la mia isola natia, per assicurarmi io stesso delle cose, prepararvi tutto ciÃ’ che ancora manca al fine di venire all'azione ». E il 26 marzo 1860 Pilo s'imbarcÃ’ a Viareggio per la Sicilia in compagnia di Giovanni Corrao combattente del 1848 e reduce dalle prigionie borboniche.
Il 4 aprile al convento della Gancia di Palermo si iniziÒ una rivolta armata e un centinaio di insorti, al comando di Francesco Riso, resistettero all'assalto di vari battaglioni di soldati borbonici ma, sopraffatti dal numero, dovettero cedere e trentasette monaci furono tradotti in carcere. Francesco Riso morÌ in combattimento e il 14 aprile dopo breve processo furono condannati a morte e fucilati tredici insorti.
Ma l'insurrezione si propagÃ’ a Marsala, Girgenti, Cal-tanissetta, Corleone e a Carini. Rosalino Pilo e Corrao, sbarcati a Messina, andarono a Catania, a Termini e a CefalÙ, animando con la parola e con l'esempio.Garibaldi, informato da Crispi di quando accadeva, promise di partire se la notizia fosse confermata, e chiedeva udienza a Vittorio Emanuele gli domandÃ’ che gli venisse concesso il 48° reggimento della Brigata Bergamo per andare in Sicilia. Il Re non gli disse né sÃŒ, né no, ma in una nuova udienza, accordata a Garibaldi due giorni dopo, Vittorio Emanuele gli dichiarÃ’ essere impossibile accogliere la sua domanda.
È il primo rifiuto che Garibaldi riceve dal Governo Sardo.
L'avvenire gliene serberÀ ancora altri. Forse, se fosse dipeso unicamente da Vittorio Emanuele, le cose sarebbero andate altrimenti. Vi era infatti tra il Re e il generale rivoluzionario una certa affinitÀ di spirito audace, una uguale inclinazione alle imprese avventurose, una uguale insofferenza per le pastoie diplomatiche. Vi era tra loro anche una personale simpatia, un'alta reciproca stima, scevra di ogni diffidenza. PerciÒ vedremo piÙ di una volta Vittorio Emanuele favorire progetti di Garibaldi, avversati dal suo primo ministro. Questi invece era doverosamente e necessariamente piÙ cauto, ma nei suoi rapporti con Garibaldi metteva altresÌ un certo accanimento, che talora lo rese altezzoso di fronte al suo stesso sovrano.
Quando, ad esempio, fu definitivamente decisa da Garibaldi la spedizione in Sicilia e parve che il Re, che si trovava in viaggio nell'Italia centrale, l'approvasse, Cavour partÌ da Torino e raggiunse Vittorio Emanuele a Bologna, ed ebbe con lui un colloquio vivacissimo, nel quale chiedeva al Re di impedire la partenza dei garibaldini.
Narrarono poi gli intimi del ministro che questi manifestÃ’ l'intenzione di fare arrestare Garibaldi, dichiarando che sarebbe andato lui stesso, a prenderlo per il bavero, se nessun altro avesse avuto l'arditezza di farlo. Fatto sta che, all'indomani del colloquio, Cavour scrisse al Re la seguente lettera: «MaestÀ, dopo le parole che Voi ieri pronunziaste, qualunque ministro avrebbe dovuto dare, a quest'ora, le dimissioni: ma io non sono un ministro qualunque, perché sento che ho troppi doveri verso la dinastia e verso l'Italia. Attendo al riguardo particolari comunicazioni di V.M. Pertanto rimango. Cavour ».
Cavour sapeva di essere, per il Piemonte e per tutta l'Italia, il responsabile in fatto della politica estera e sicché non poteva non tenere presente e non prevedere la reazione degli altri Stati, i quali dovevano pur difendere i propri interessi. Cavour osteggiÃ’ in principio l'impresa garibaldina, ma quando detta impresa cominciÃ’ ad avere successo si limitÃ’ a subirla, perché osteggiandola avrebbe avuto contro di sé tutta l'opinione pubblica. Se ne valse poi ai propri fini quando la vide giunta a lieto compimento, preoccupandosi principalmente degli interessi della monarchia e della dinastia.
Ma non cessÃ’ mai la diffidenza verso il generale rivoluzionario che, secondo Cavour, influenzato da Mazzini e dai garibaldini di idee radicali, poteva ad un certo punto ritornare al suo antico ideale repubblicano. E per dimostrare la diffidenza di Cavour basta leggere il testo di una lettera mandata da lui a Costantino Nigra, il 1' agosto del 1860; della quale lettera il Cavour mandÃ’ una copia a Emanuele d'Azeglio, suo amico, con l'ordine di bruciarla, ma l'amico non la bruciÃ’ e nel 1912 lo storico Adolfo Colombo, amante della veritÀ, la pubblicÃ’ nel suo libro « II Risorgimento Italiano »13. Tale lettera, il cui testo originale era scritto in francese, puÃ’ servire a far comprendere la politica di Cavour, giorno per giorno cosÃŒ mutevole, tanto durante la preparazione, quanto durante la spedizione dei Mille. Garibaldi, appena avuto notizie dell'insurrezione siciliana, mandÃ’ Crispi a Milano dal direttore del Fondo per il milione di fucili, affinchÈ « senza rumore » gli mandasse a Genova armi e munizioni.
Ma Crispi apprese che Massimo d'Azeglio, governatore di Milano, aveva messo il sequestro sulle armi e aveva anche dichiarato che non avrebbe consegnato a Garibaldi nemmeno un fucile. D'Azeglio non poteva certo agire di sua testa ed era evidente che agiva cosÃŒ per ordine di Cavour. E Cavour, infatti, che aveva giÀ proposto al generale Riboty di prendere lui il comando di una spedizione in soccorso ai Siciliani e ne aveva ricevuto un rifiuto, non voleva che partisse una spedizione armata agli ordini di Garibaldi. Cavour, invero, cambiava in quel tempo assai spesso di parere. Nella sua alta politica e nel suo fervido amor di patria, non ancora unitario, ragionava da « piemontese » incalzato sia dalle necessitÀ diplomatiche che dall'opinione pubblica, sia dalla diffidenza per Garibaldi, che dalla fiducia che Garibaldi godeva presso il sovrano, tanto che lo storico inglese Trevelyan nel suo libro « Garibaldi e i Mille » osservÃ’ che « uno statista, che abbia l'abitudine cosÃŒ spiccata di dire una cosa all'uno ed un'altra ad un altro, cancella le sue proprie piste agli occhi dello storico, che vorrebbe rintracciarle per iscoprire i suoi veri moventi ».
Ad un certo punto il profugo siciliano La Farina, che godeva della fiducia di Cavour, arrivÒ a Genova per dire a Garibaldi che gli sarebbero stati messi a disposizione 1500 fucili. I fucili arrivarono in numero piÙ modesto ed erano dei ferri vecchi.
Il giorno 28 aprile a Garibaldi, che viveva a Quarto nella villa dell'amico Vecchi, di Ascoli Piceno, arrivÃ’ un telegramma che tradotto dalla cifra che era stata impiegata diceva che la rivoluzione in Sicilia era fallita. La disperazione dei volontari intimi di Garibaldi fu enorme e Garibaldi decise di non partire piÙ. Ma il 29 aprile giunse un nuovo telegramma, che poi si disse inventato da Crispi, e in tale messaggio si diceva che l'insurrezione vinta a Palermo seguitava nelle provincie. E i Mille partirono con i catenacci dati loro come fucili, ma senza munizioni, perché tali munizioni che si dovevano imbarcare in alto mare da alcuni natanti, mai si videro. Per colpa di chi? Mistero! Ma Garibaldi partÃŒ e le munizioni le rimediÃ’ poi lungo il viaggio, a Talamone.
Prima di partire da Quarto sui vapori il Lombardo e il Piemonte, con piÙ di mille volontari a bordo, il generale mandÒ a Vittorio Emanuele la seguente lettera:
Sire,
Genova, 5 maggio 1860
II grido di affanno che dalla Sicilia arrivÃ’ alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quello di alcune centi-
naia di miei vecchi compagni d'arme. Io non ho consigliato il movimento insurrezionale dei miei fratelli in Sicilia; ma dal momento che si sono sollevati a nome dell'UnitÀ Italiana, di cui Vostra MaestÀ È la personificazione, contro la piÙ infame tirannia dell'epoca nostra, non ho esitato a mettermi alla testa della spedizione. So bene che mi imbarco per un'impresa pericolosa, ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio e nella devozione dei miei compagni. Il nostro grido di guerra sarÀ sempre « Viva l'UnitÀ d'Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e piÙ bravo soldato ».
Se noi falliremo, spero che l'Italia e l'Europa liberale non dimenticheranno che questa impresa È stata decisa per motivi puri affatto da egoismi, interamente patriottici.
Se riusciremo, sarÒ superbo di onorare la corona di Vostra MaestÀ di questo nuovo e brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia che Vostra MaestÀ si opponga a ciÒ che i di Lei consiglieri cedano questa provincia allo straniero come hanno fatto della mia terra natale.
Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra MaestÀ, temevo infatti che, per la riverenza che Le professo, Vostra MaestÀ non riuscisse a persuadermi di abbandonarlo.
Di Vostra MaestÀ, Sire, il piÙ devoto suddito.
Giuseppe Garibaldi
Da questa lettera sono da rilevarsi la dirittura di Garibaldi nell'assicurare che la sua ferma convinzione era di liberare la Sicilia per offrirla al Re; e il suo tatto diplomatico usato per togliere ogni responsabilitÀ alla dinastia e al governo piemontese di una spedizione che doveva figurare essere ignorata dal governo e dalla dinastia. Inoltre, l'accenno alla cessione di Nizza era il meno che Garibaldi potesse fare nei confronti di Cavour, che lui ben sapeva non essergli amico.
Garibaldi partÌ, arrivÒ a Marsala; a Calatafimi ottenne la ritirata delle truppe borboniche; sollevÒ il popolo siciliano, prese Palermo e fece rimbarcare le truppe di Francesco II.
Vinse poi a Milazzo e passÃ’ lo stretto, conquistÃ’ Reggio, tutte le Calabrie e, con marcia trionfale, il 7 settembre giunse a Napoli.
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