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1860 « ANNUS MIRABILIS » PARTE TERZA

Storia



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1860 « ANNUS MIRABILIS » PARTE TERZA

Francesco Crispi, l'uomo che aveva convinto Garibaldi a intraprendere la spedizione passata alla storia come quella dei « Mille », andava sempre piÙ rafforzandosi nel­l'idea che voler fare della Sicilia qualcosa di simile ad una provincia del Piemonte, come volevano gli emissari di Cavour, era il modo piÙ sicuro per provocare, per reazione, una ripresa dei sentimenti separatisti; e che una annessione immediata e senza condizioni avrebbe messo in pericolo il suo sogno di un'Italia unita.



Cavour, da parte sua, sollecitava presso De Pretis l'an­nessione della Sicilia e, a tale scopo, gli inviÃ’ il giornalista G.B. Bottero latore di un vero e proprio ultimatum al fine di: « poter usare le risorse di quel nobile e ricco paese ».

Che la Sicilia fosse nobile, in fondo a Cavour impor­tava poco; l'essenziale era che fosse ricca, e questo Ca­vour lo sperava intensamente, dato che le finanze pie­montesi non erano in floride condizioni. L'ultimatum presentato da Bottero a De Pretis con­cludeva in questo modo:  « ove non avesse aderito alle richieste di Cavour per un'annessione immediata della Sicilia al Piemonte, la Sicilia sarebbe stata considerata dal Piemonte come una nemica ».

A Palermo, in tanta confusione di idee, il popolo, ri­guardo alla piÙ o meno rapida annessione, rispondeva con una grande dimostrazione di folla e gridando: « Vo­gliamo l'annessione, ma soltanto quando lo dice Gari­baldi ». E allora De Pretis decise di andare a Napoli per avere disposizioni da Garibaldi e questi gli rispose accettando le sue dimissioni da Prodittatore e quelle di tutti i suoi ministri. A Napoli la vittoria di Garibaldi era completa e le mene degli emissari cavourriani, mandati a seminare ziz­zania, a intorbidare le acque e a provocare una rivolta prima dell'arrivo del Dittatore, erano fallite miserevol­mente. Tutti gli agenti provocatori ripartirono per il Nord.

Garibaldi, insediatosi a Napoli, fu dolorosamente col­pito quando si trovÃ’ di fronte alle prove dei tentativi di Cavour per arrestare la rivoluzione e per far servire l'annessione di Napoli semplicemente all'espansione del Piemonte. Ma da nobile uomo quale era, leale e puro, avente nel proprio animo solo lo scopo di fare una l'Ita­lia, rispose alle mene di Cavour e dei cavourriani, dando a Persano, che si trovava nel porto con navi della marina sarda, istruzioni per lo sbarco delle truppe piemontesi dalle navi da trasporto ancorate nel golfo, affinchÈ pre­sidiassero la cittÀ e i forti, promulgando poi tutti i de­creti in nome di « Italia e Vittorio Emanuele » e trasfe­rendo a Persano il comando di tutta la flotta borbonica, che era di gran lunga piÙ considerevole di quella del Pie­monte e con cinque unitÀ munite di una potenza di fuoco enormemente superiore a quella di qualsiasi nave pie­montese. A Torino, secondo il giudizio di Sir James Hudson, Garibaldi, per ricompensa, fu giudicato come « un min­chione pieno di buone intenzioni »; ma se Cavour e i cavourriani fossero stati veramente piÙ intelligenti di Ga­ribaldi non avrebbero commesso il madornale errore di sottovalutarlo e di non capire quanto in determinate cir­costanze la sinceritÀ brusca possa valere piÙ della dop­piezza diplomatica; e quanto il Dittatore fosse popolare tra i Siciliani e i Napoletani, perché col suo istinto di popolano li comprendeva e li stimava 17.

A questo proposito De Pretis scriveva a Cavour: « il Governo non deve dimenticare che la popolaritÀ di Gari­baldi È immensa. È un torrente quello che lo accompagna: si puÃ’ regolare il corso, ma non impedirlo ». Quando Garibaldi dovette abbandonare il fronte di battaglia per recarsi a Palermo per le solite mene politiche dei cavour­riani, TÙrr comandante dei garibaldini, spinte le proprie truppe troppo in avanti, fu respinto a Caiazzo dai sol­dati borbonici.

Era la prima sconfitta militare dei garibaldini, ma le truppe piemontesi scese a Napoli dalle navi di Persano non si vollero muovere in soccorso dei garibaldini. Gari­baldi non perdonÃ’ mai a Cavour d'averlo costretto ad allontanarsi dal fronte per correre a Palermo, mentre Cavour considerÃ’ il successo borbonico di Caiazzo come un punto in proprio favore e ai danni di Garibaldi, e che era giunto il momento di mettere un freno al Condottiero e alla sua popolaritÀ. Fece invadere, cosÃŒ, le Marche e l'Umbria dalle truppe piemontesi per raggiungere Napoli prima che fosse troppo tardi per il decoro e l'onore di Re Vittorio.

Secondo lo storico inglese Trevelyan, l'invasione dello Stato Pontificio fu l'atto che coronÃ’ la vita di Cavour e il piÙ grande esempio del suo genio politico. De Pretis e Persano ne furono informati, ma Garibaldi ne fu te­nuto all'oscuro, mentre Cavour dichiarava che « non È

piÙ a Napoli che possiamo acquistare la forza per domi­nare la rivoluzione, È ad Ancona ».

« La rivoluzione » sarebbe stata quella di Garibaldi il quale aveva ceduto tutta la flotta borbonica e i forti di Napoli a Persano e Ancona era una piccola cittÀ fortifi­cata, che il 20 settembre assediata dalle truppe piemon­tesi della quarta, della settima e della tredicesima divi­sione e del quinto e del quarto corpo, bombardata da terra e da mare, il 29 si arrese e i superstiti difensori furono fatti prigionieri. Cavour sperava che l'esercito regolare « acquistasse un prestigio che gettasse nell'ombra quello che una serie di eventi fortunati aveva conferito a Garibaldi e ai suoi vo-lontari ».

Ma nonostante tutti gli sforzi della storiografia uffi­ciale piemontese, non si riuscÃŒ a far assurgere la marcia di Cialdini su Ancona alla gloria della marcia di Gari­baldi da Quarto al Volturno. Garibaldi ormai, unitamente ad eminenti personaggi anche del settore politico mode­rato, pensava che l'UnitÀ d'Italia era vicina. Quindi se Garibaldi era un illuso, lo era in buona compagnia; e Cavour che aveva considerato fino a poco tempo prima l'UnitÀ d'Italia una « corbelleria » e adesso stava cam­biando parere, si dimostrava ingeneroso e ingrato verso coloro, che, con i fatti, gli avevano dimostrato come egli avesse erroneamente interpretato i tempi e le situazioni.

Arrivato a Napoli, come da richiesta fatta da Garibaldi a Vittorio Emanuele, il marchese Giorgio Pallavicino venne rimandato da Garibaldi a Torino per esporre al Re le idee del Dittatore scritte in un messaggio; il Re si mise sgarbatamente in tasca il messaggio senza neppure leggerlo e cominciÃ’ una tirata contro l'impertinenza di uno che pretendeva di essere sullo stesso piano del suo Re; diventÃ’ furibondo quando Pallavicino interloquÃŒ di­cendo che in fin dei conti Garibaldi aveva pur fatto qualche cosa che meritava gratitudine. Andato poi Pallavicino da Cavour, si sentÃŒ rispondere che lui era pronto a com­battere Garibaldi e ad assumerne le conseguenze. Palla-vicino ne fu spiacevolmente colpito e fece notare che in tal modo poteva accadere che i mazziniani, ossia gli estre­misti, prendessero a Napoli il sopravvento su Garibaldi. Al che Cavour rispose: « tanto meglio, cosÃŒ faremo piazza pulita di loro ». Pallavicino potÈ solo obiettare che i mazziniani non erano Croati ma Italiani e che la guerra contro Garibaldi sarebbe stata una guerra fraticida; ma senza effetto rimase la sua obiezione.

Aggiunse poi, per iscritto, che Garibaldi perseguiva gli stessi obiettivi del governo di Torino, ma temeva che Cavour mirasse solo a creare una nuova Gallia cisalpina alle dipendenze della Francia; e se un tal timore era ingiustificato lo si sarebbe potuto certamente eliminare senza difficoltÀ. Garibaldi, sempre signore, il giorno 27 settembre, dando notizia ufficiale dell'arrivo delle truppe piemontesi, porgeva il benvenuto ai « nostri fratelli del­l'Esercito italiano comandato dal bravo generale CialdiniFra poco avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose »21.

L'esercito di Cialdini avanzava senza carte geogra­fiche e quelle del Napoletano gliele fece avere da Napoli Villamarina; lo stesso Persano partÃŒ da Napoli per andare a bombardare Ancona senza neppure una carta dell'A­driatico.

Tutto ciÃ’ dimostra come lo Stato Maggiore torinese non aveva neppure mai sognato la possibilitÀ dell'unifi­cazione nazionale; della quale possibilitÀ si rese conto solo in seguito al valore e all'ardire dei garibaldini e del-l'« avventuriere » che li comandava.

Mentre Gladstone, Napoleone III, Nigra e Palmerston esprimevano l'opinione che bisognava trattare Garibaldi da alleato e non da nemico, quel Garibaldi che aveva

spontaneamente ceduto la flotta borbonica a Persano, Cavour ordinÃ’ a Fanti di fare eventualmente uso delle armi per disarmare i volontari informando il suo amico Nigra che « il Re si È deciso di marciare su Napoli per ridurre alla ragione Garibaldi e gettare a mare quel nido di rossi repub­blicani e di demagoghi socialisti che si È formato intorno a lui. È stato l'insolente ultimatur portato da quell'im­becille Giorgio Pallavicino che ha fatto decidere il Re».

Giorgio Pallavicino era un nobile martire lombardo, colto ed educato, e Cavour dimostrava ancora una volta o di non essere in buona fede o di non capire niente né di Garibaldi, né dei Napoletani, né dei Siciliani. E su tali basi incominciava il dramma dell'Italia me­ridionale incompresa, sottovalutata, e addirittura piÙ sco­nosciuta di una terra straniera. Garibaldi a fine settembre nominÃ’ prodittatore per la Sicilia Antonio Mordini e lui e i suoi ministri prestarono giuramento a Vittorio Emanuele e allo Statuto. Poi tra continue discussioni sia in Sicilia che a Napoli, tra i fautori di un plebiscito in favore dell'annessione della Sicilia e del Regno di Napoli al Piemonte, usando il sistema cosÃŒ detto alla francese, ossia con urne pub­bliche bene in vista in modo che tutti potessero vedere per chi si votava (un'urna era per il sÃŒ e l'altra per il no) e i fautori di decisioni prese da assemblee di rap­presentanti delle popolazioni, (e quindi decisioni ragio­nate e ponderate, prese con calma da persone compe­tenti), il sistema del plebiscito fu imposto e il 21 ot­tobre ebbe luogo.

E dalle urne uscirono quasi tutti sÃŒ e pochissimi no. Ma erano sÃŒ che non rappresentavano la volontÀ dei vo­tanti, ma un po' l'entusiasmo, un po' il timore, molto l'ignoranza. Il plebiscito eseguito in quelle condizioni e che teoricamente doveva rappresentare l'adesione al Pie­monte e a Casa Savoia del 99% dei votanti, pratica mente rappresentava ben poco; e dopo anche solo pochi giorni tutti se ne resero conto a ricominciare dal Re Vit­torio Emanuele e dai fedeli di Cavour.

Si racconta che in un paese della Sicilia il capo del Comune riunÃŒ gli elettori e spiegÃ’ loro, prima della vota­zione, il significato del sÃŒ e del no; ma tutti gli grida­rono: « non vogliamo né Vittorio Emanuele, né Fran­cesco; ma vogliamo Don Peppino », ossia Garibaldi.

Allora l'oratore rimase un po' perplesso e poi disse loro: « in questo caso dovete votare sÃŒ ». E lo stesso, presso a poco succedeva nelle provincie continentali dove i votanti, sollecitati a gridare « Viva l'Italia una », do­mandavano: ma che roba È? ».

La cosa piÙ inverosimile era che le votazioni avveni­vano mentre sul territorio del Regno delle Due Sicilie combattevano ancora tre eserciti, quello garibaldino, quel­lo piemontese e quello borbonico; e quattro fortezze borboniche, quella di Messina, quella di Civitella del Tronto, quella di Capua e quella di Gaeta resistevano tenacemente. Ma, come dissero Pasquale Stanislao Mancini, (uomo di idee moderate e quindi non uno sfegatato seguace di Garibaldi) e lo stesso moderato Ruggero Bonghi: « se il popolo minuto aveva cominciato a farsi un concetto dell'Italia e dell'indipendenza nazionale, ciÃ’ era merito esclusivo di Garibaldi e del suo immenso prestigio » e se « il popolo accetta l'unione col Piemonte È perché Garibaldi ha voluto cosÃŒ Egli avrebbe potuto procla­marsi re, come un giorno Masaniello ».

E De Pretis in Parlamento ebbe il coraggio di con­traddire Cavour dicendo che il piÙ grande annessionista era proprio Garibaldi, dato che l'annessione di mezza Italia era opera sua.

Ma Cavour seguitava a non capire o a non voler ca­pire e verso la fine di ottobre, dopo il plebiscito e dopo che era svanita una presunta minaccia dell'Austria, scrisse a Farini che lo rappresentava a Napoli: « fate il ditta­tore di fatto, se non di nome. Spezzate senza pietÀ quelle stalle ripiene di letame bertaniano ». Letame di Bertani, il quale per quattro mesi aveva da Genova mandato armi e volontari a Garibaldi mettendolo in condizioni di fare quello che aveva fatto. E qui, piÙ che mancanza di gene­rositÀ (e di onestÀ si puÃ’ aggiungere) vi era anche man­canza di buon senso e di buon gusto 22.

Il 26 ottobre Garibaldi si recÃ’ a Teano per dare di persona il benvenuto al Re e per accordarsi con lui per il trasferimento dei poteri. E dopo che i soldati piemon­tesi e i garibaldini insieme conquistarono Capua, il Re potÈ finalmente pensare di andare a Napoli potendo met­tere al suo attivo, dopo la gloriuzza di Ancona, anche quella di Capua. Per speciale invito del Re, il dittatore fece il suo ingresso a Napoli la mattina del 7 novembre nella stessa carrozza di Vittorio Emanuele, cui rimise uf­ficialmente il giorno successivo i poteri. Come ultima richiesta domandÃ’ al Re di rimanere nel Sud un anno come viceré con ampi poteri, usando l'influenza che vi godeva per superare il difficile periodo dell'unificazione. Il Re accantonÃ’ la richiesta e offerse a Garibaldi la no­mina a generale di armata, denaro, titoii, un castello, una nave privata. Garibaldi rifiiutÃ’ tutto dicendo che lui non era sbarcato in Sicilia per fare carriera o per acquistare titoli o ricchezze.

Al Persano, poi, disse: « Ecco, Persano, degli uomini si fa come degli aranci: spremutone il sugo fino all'ul­tima goccia, se ne getta la buccia in un canto ».

E il 9 novembre il dittatore partÃŒ tranquillamente, con un sacco di sementi e un po' di baccalÀ per la sua soli­tÀria isola di Caprera.

Vittorio Emanuele non volle partecipare alla rivista di addio fatta da Garibaldi ai volontari, e il ministro regio Farini proibÃŒ che si cantasse l'inno di Garibaldi. Quando Torino invitÃ’ i cittadini a celebrare la caduta di Capua, non si credette opportuno ricordare un cittadino tanto pericoloso e spregevole come Garibaldi. E quando una deputazione recÃ’ a Napoli e alla Sicilia, le congratula­zioni ufficiali del Parlamento per la rivoluzione da poco compiuta, non si fece nemmeno menzione di Garibaldi. Questo modo di agire con freddo calcolo politico fece pessima impressione sui Napoletani e sui Siciliani i quali, generosi e facili all'entusiasmo e non calcolatori, non po­tevano comprendere come il loro idolo, che aveva rega­lato ai « piemontesi » un cosÃŒ grande regno, fosse dai « piemontesi » ripagato in tal modo. Tutto ciÃ’ unito alla non buona impressione fatta a loro da Re Vittorio, che girava per Napoli con la barba e i baffi tinti, con l'amante e i di lei figli, e trattava altezzosamente i napoletani da lui considerati « canaglie »; e la durezza e l'incompren­sione dei funzionari nordici, dimostrano subito che il ri­sultato del «plebiscito» non aveva il valore attribuitogli. D'altra parte anche in Toscana erano accaduti feno­meni simili e i Toscani pensavano che Firenze, per il momento sarebbe stata migliore capitale che non Torino. Ed osservavano che i membri della classe dirigente, com­presi Cavour e il Re, preferivano parlare e scrivere in francese oppure in dialetto. E quando parlavano italiano si trattava di un italiano approsimativo, mentre la storia del Piemonte era tanto transalpina che cisalpina.

Prima che si riunisse il Parlamento a Torino, Cavour impose per il Mezzogiorno il maggior numero di leggi possibili e ciÃ’ era veramente assurdo, dato che il Parla­mento avrebbe potuto, anche a leggi emanate, non ap­provare tale procedura squisitamente anticostituzionale.

Cavour rimase sempre lontano da Napoli e questo cer­to non lo aiutÃ’ a capire almeno qualcosa dell'Italia me­ridionale. Non era passata una settimana dall'arrivo del ministro Farini e di Vittorio Emanuele a Napoli che giÀ si udi­vano grida di abbasso Vittorio, vogliamo Garibaldi, ecc.

Farini, vista la propria incapacitÀ di capire e fare qual­cosa di utile, il 4 novembre pregÃ’ Cavour di sostituirlo dato che, scomparso Garibaldi, si sentiva nell'aria qual­cosa che si agitava contro « i piemontesi » e in favore dei Borboni e del Pape, anche perché il governo, molto impoliticamente, si stava dimostrando piÙ rapace di quello borbonico.

CÒrdova e La Farina, che erano da sempre strumenti di Cavour e tanto male fecero in Sicilia, tornati a Torino riferirono che c'era la piÙ assoluta indifferenza intorno al nuovo ordine di cose.

Cavour aveva erroneamente pensato che Garibaldi non fosse amato e invece era idolatrato; era convinto che Vit­torio Emanuele detto « Re Galantuomo » avrebbe atti­rato su di sé le piÙ grandi simpatie; ma « galantuomo » era il titolo che nei paesi si dava ai ricchi e mezzi ricchi oziosi, che passavano la giornata al circolo a giocare a carte e a fare pettegolezzi. Mentre i napoletani abituati a Ferdinando II carico di figli e fedelissimo a sua moglie e a Francesco II e Sofia, mal sopportavano il modo di fare del Re, che si rifugiava nelle bandite di caccia fuori Napoli e in cittÀ ostentava la sua amante con relativi bastardi. Il Console inglese Bonham scriveva a Russel: « Du­rante il soggiorno che Sua MaestÀ ha fatto a Napoli, È diventato estremamente impopolare, anzi contro i Pie­montesi in generale prevale un forte senso di antipatia, causato senza dubbio dal modo altezzoso con cui trattano i Napoletani ».

Il Napoletano Lacaita scriveva anche lui a Russel in questo modo: « Prima il Re se ne va, e meglio È » e a Cavour scriveva che « gli amici dell'annessione erano

una ristrettissima minoranza e non bisognava farsi in­gannare dai risultati del plebiscito dovuti piÙ che altro all'avversione per la dinastia borbonica, al mazziniane-simo, e alla intimidazione ». Cavour, dalle varie relazioni ricevute aveva capito che il Re aveva perduto il prestigio e doveva subito rientrare a Torino; ma Cavour aveva anche altri motivi piÙ importanti per far ritornare il Re. Tali motivi erano prodotti dalla maggiore sinceritÀ del Re e dal sua animo piÙ buono e meno calcolatore di quello del suo ministro.

Il Re voleva concedere un'amnistia generale, compresa in essa Mazzini, ma Cavour si spaventÃ’ e non volle; il Re lasciÃ’ Mordini ancora per 15 giorni in Sicilia e rimproverÃ’ pubblicamente il generale Fanti per la scarsa generositÀ dell'esercito regio verso i volontari. Tutto que­sto Cavour non lo poteva sopportare.

La prima reazione di Cavour alle notizie delle resi­stenza del Sud fu quella di imporsi con i metodi re­pressivi e pensÃ’ di estendere subito al Mezzogiorno le leggi piemontesi senza attendere il Parlamento. « Se la Consulta di Napoli avesse fatto obiezioni bi­sognava scioglierla e imporsi con la forza morale e se non basta, anche con quella fisica ». E soprattutto il governo doveva distruggere il prestigio di Garibaldi e se i Napoletani non volevano l'unificazione essa doveva es­sere loro imposta: meglio una guerra civile che un'irre­parabile catastrofe ».

Farini non era d'accordo con Cavour e disse al Re che era una « grossa illegalitÀ » confinare nelle isole un certo numero di persone e concludeva che in tutto il Mezzo­giorno non vi erano sette unitari su sette milioni di abitanti. Con tale incomprensione e con tale presunzione da parte di Cavour (che mai aveva messo piede nell'Italia a sud di La Spezia) successe quello che era ben preve-

dibile succedesse; sciolto l'esercito borbonico, scontentati tutti, rincarato il costo della vita, inimicatosi il clero, incominciÃ’ una sorda rivolta contro il governo di Torino, il quale, denigrati Garibaldi e garibaldini per accrescere la propria autoritÀ, aveva demolito degli idoli insostitui­bili nel cuore dei meridionali e si era creato le piÙ pro­fonde antipatie; mentre la fortezza di Gaeta resisteva eroi­camente al bombardamento giornaliero di Cialdini. Nel­l'animo popolare, la leggenda dell'eroismo di Garibaldi si trasferiva a Francischiello e a sua moglie, che non in­tendevano arrendersi. Brofferio, a Torino, scriveva che l'opinione cominciava a dubitare dell'infallibilitÀ di Cavour e a Pallavicino osser­vava che «Cavour raccoglieva quello che aveva seminato».

Cattaneo si rallegrava per l'enorme diminuzione della popolaritÀ di Cavour e Cairoli era soddisfatto che la gen­te fosse « se non guarita, almeno convalescente della ma­lattia cavourriana ».

E in molti Italiani nacque e si consolidÃ’ la convinzione che se Vittorio Emanuele avesse concesso per un anno a Garibaldi quello che lui gli aveva chiesto, ossia il go­verno delle regioni dell'ex Regno delle Due Sicilie, le cose sarebbero certamente andate meglio.

E prima di occuparci del cosÃŒ detto « esercito di Fran­cischiello », e del disastro economico e sociale verificatosi nell'Italia meridionale dopo l'annessione, È bene ricor­dare quanto ha lasciato scritto Jessie White Mario: «Al­le violente, affrettate annessioni delle provincie del Mez­zogiorno si deve tutta la serie di disordini e di infelicitÀ che ne seguirono ».

« Perché se quelle provincie fossero state amministrate con senso e bontÀ da persone benvise al popolo, come fu per un anno la Toscana, non vi sarebbe stata oppo­sizione alla leva in Sicilia, né il brigantaggio avrebbe po­tuto allargarsi ed infierire nel Napoletano »23.



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