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BRIGANTI E LAZZARONI

Storia



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BRIGANTI E LAZZARONI

Quando si parla di briganti il pensiero va al cliché, messo in uso da un secolo e mezzo (in buona fede dagli ignoranti e in malafede dai malevoli), del brigante col cappello a pan di zucchero e «trombone» in mano, con i piedi calzati con le «ciocie», ossia con pezzi di pelle di capra tenuti fermi alla caviglia e al polpaccio da striscie di cuoio.



Questo costume altro non era che quello dei contadini italiani dell'Abruzzo, del Lazio, della Campania, delle Puglie, Lucania e Calabria.

Era il costume che si usava in quelle regioni da tempo immemorabile e non rappresentava affatto una divisa da « brigante », ma era il normale modo di vestire di quelle popolazioni.

Ed era cosÃŒ normale, quel modo di vestire, che il co­lonnello barone Francesco Stocco, uno dei Mille che nel 1860 comandÃ’ i volontari calabresi dopo il passaggio dello stretto di Messina, usava come normale copricapo il famoso cappello a pan di zucchero guarnito con dei nastri pendenti e multicolori, come lo usavano del resto, i suoi volontari.

Se poi parlando di briganti si intende riferirsi a malviventi assassini o ladri, in Italia e in tutta Europa di tali fuorilegge nel diciottesimo secolo ce ne erano da pertutto e vestiti in cento modi diversi e la regione dove ce ne erano di meno era proprio l'Italia meridionale. E per dimostrare con dati storici la veritÀ di questa affer­mazione, si legga quanto ha scritto Angelo Ottolino nel suo libretto intitolato a « Parini », edito a Milano.

Di tutti i disordini e delle decine di migliaia di assas­sini e di relativi briganti, nessuna traccia si trova nell'o-l'opera letteraria del lombardo Parini, il quale ne fu cer­tamente spettatore. Egli si compiacque di ritrarre solo la vita molle ed effeminata e sedentaria del ricco patrizio, quasi che tutto il resto procedesse con la massima calma e con ordine perfetto e lasciÃ’ in disparte i saccheggi, i furti e gli ammazzamenti cui la popolazione era esposta.

Se nell'Italia meridionale i delinquenti fossero stati nel­la stessa proporzione di quella del piccolo stato Lombardo si sarebbe dovuto censire piÙ di mezzo milione di tali fuorilegge. Numero semplicemente assurdo e ridicolo per la sua enormitÀ.

Come si vede, in tutti i tempi ognuno È disposto a ve­dere il fuscello di paglia nell'occhio altrui, ma non la trave nel proprio. Nel 1798 il generale francese Championnet entrava con le sue armate nel regno di Napoli e il generale au­striaco Mack, comandante delle truppe borboniche, pre­ferÃŒ scappare, tornando al suo paese, piuttosto che resi­stere all'invasione.

Re Ferdinando IV con un proclama chiamÃ’ alle armi tutto il suo popolo che dalle montagne dell'Abruzzo, del Molise, della Lucania e delle Calabrie scese al piano per combattere gli invasori, nemici della religione, i quali dove passavano, rubavano, taglieggiavano, incendiavano e stupravano. Questa È la veritÀ e niente altro che la veritÀ. Dove il denaro trovato era ritenuto insufficiente per mandarlo al governo francese, che ne aveva assoluta ne­cessitÀ, gli invasori asportavano preziosi e tesori artistici, come era giÀ stato fatto in tutte le altre regioni italiane e, in modo speciale, a Roma da dove furono avviati verso la Francia centinaia di carri trainati ognuno anche da cinque paia di buoi ,sovraccarichi di ogni ben di Dio e di famose opere d'arte.

Naturalmente i montanari accorsi alla chiamata del re venivano automaticamente a mettersi agli ordini dei piÙ arditi e tra questi, Michele Pezza da Itri, detto Fra' dia­volo, Mammone, Pronio e il Rodio, che furono coman­danti di bande partigiane di 2 o 3 mila uomini ognuna.

A ferocia opponevano altrettanto ferocia e credo che non ci possa essere nessuno che debba considerare illeg-gittimo tale naturale diritto di ritorsione o di legge del taglione.

Insomma erano partigiani che difendevano case, averi, le proprie donne e la loro religione, dallo straniero inva­sore, che arrivava preceduto da triste fama.

E come si puÃ’ umanamente affermare che non avessero il diritto e il dovere di fare quanto andavano facendo, tali partigiani?

Se era legittimo l'uguale modo di agire delle «guerrillas» in Spagna, sostenute dal generale inglese Wellington; se era legittimo quanto faceva Andrea Hofer comandante dei partigiani tirolesi contro l'invasore francese; se era legittima l'opera dei contadini e dei cosacchi russi, che nelle steppe fecero altrettanto e in modo speciale durante la ritirata francese da Mosca alla Beresina, perché sola­mente i montanari e i contadini del regno delle Due Si­cilie debbono ancora considerarsi « briganti » e non com­battenti difensori della propria patria dallo straniero, co­me furono considerati i loro colleghi spagnoli e russi e tirolesi?

Ma si potrebbe opporre che i soldati francesi erano apportatori dei sacri principi della liberté, della fraternité e dell'égalité. Si, libertÀ, come si vide in seguito, di obbedire a im­provvisati monarchi stranieri incolti e vanitosi come il signor Giuseppe Bonaparte o il signor Gioacchino Murat; fraternitÀ nella sottomissione collettiva alla predatrice bu­rocrazia straniera e alla nobiltÀ straniera di nuovo e im­provvisato conio; uguaglianza che seguitava a dividere le popolazioni in nuovi ricchi, anzi ricchissimi, e perenni poveri.

E non si venga a raccontare ancora che i principi so­ciali e politici affermati dalla rivoluzione francese erano una conquista per il mondo e quindi anche per i napo­letani. I filosofi, i pensatori napoletani avevano da lunghi anni espresso principi di nuovi sistemi di governo e di nuovi ordinamenti sociali e non avevano niente da impa­rare e niente da insegnare di meglio ai proprio allievi, di quanto da loro era stato pensato, scritto, propagandato, con lo stesso aiuto dei sovrani borbonici.

Ed È cosÃŒ vera questa affermazione che Napoleone di­chiarava che il napoletano Filangieri « era stato il maestro di tutti noi », ossia di lui Napoleone e dei suoi collabo­ratori.

C'era perÃ’, ed È dovere di metterlo bene in evidenza, una minoranza di napoletani nobili e borghesi, colti e stu­diosi, che ritenevano giusto di dover favorire la conquista delle milizie francesi, convinti che tale conquista stra­niera avrebbe accelerato i tempi di nuove riforme poli­tiche e sociali. Ma erano degli illusi, illusi in buona fede, che per la loro buona fede sopportarono il martirio con stoico eroismo. E di fronte a questi martiri dobbiamo reverentemente inchinarci commossi.

Ma quei poveri martiri erano convinti che l'occu­pazione francese prima, e l'esplosione di gloria e di potenza di Napoleone poi, fossero e rimanessero cose eterne.

Ma niente c'È di piÙ caduco di quanto È imposto dalla violenza straniera; e fatalmente avvenne il tracollo del­l'invasore. E col tracollo arrivÃ’ la tremenda reazione in tutta Europa, perché, per legge fisica e morale, ogni azio­ne violenta ha giÀ in sé il germe della reazione.

Si vide allora quanto illusoria fosse stata la fede dei martiri e come la rivoluzione francese, che tra l'altro aveva scoperto il sistema parlamentare che giÀ da secoli vigeva in Inghilterra, ritardÃ’ in Italia l'affermazione di nuovi sistemi di governo e li ritardÃ’ di almeno un cin­quantennio, dato che da almeno venti anni prima delle conquiste napoleoniche, tali principi venivano liberamente esposti dai pensatori napoletani, con l'approvazione del­la Corte4.

E quando i regnanti borbonici tornarono sul trono do­po la caduta di Napoleone e dopo che il re Gioacchino Murat aveva tentato di restare a Napoli come re, destreg­giandosi tra tradire il cognato alleandosi con l'Austria e ingannando l'Austria sostenendo il cognato, detti borbo­nici ebbero paura dei nuovi sistemi politici che loro stessi avevano in un primo tempo appoggiato attraverso le as­sociazioni dei «liberi muratori», perché chi È stato scot­tato dall'acqua calda una volta, ha poi paura anche del­l'acqua fredda.

E dato che abbiamo parlato dei cosÃŒ detti « briganti napoletani» passiamo a parlare un poco dei «lazzaroni».

Visto l'approssimarsi dell'esercito invasore agli ordini del generale Championnet, il comitato centrale giacobino, costituitosi in Napoli, si mise in contatto col generale francese attraverso l'opera dell'avvocato calabrese Giu­seppe Poerio.

Championnet tergiversava nelle trattative allo scopo di celare le grad angustie nelle quali si dibatteva tra la fortezza di Capua che saldamente resisteva e le bande dei partigiani (i cosidetti briganti) che moltiplicavano gli assalti rapidi ed improvvisi. Ma alla fine fu sotto­scritta una tregua tra Francesi e Napoletani.

I Napoletani cedevano Capua e Benevento e si impe­gnavano, tra l'altro, a pagare dieci milioni di tornesi alla repubblica francese. E solo in questo modo Championnet potÈ entrare in possesso della fortezza di Capua, che altrimenti, per la resistenza degli eroici « briganti », dif­ficilmente avrebbe capitolato.

Intanto la cittÀ di Napoli, con la fuga del vicario regio principe Pignatelli, era caduta in potere dei popolani, ossia dei cosidetti «lazzaroni» i quali nominarono gene­rale del popolo, ossia loro duce, il colonnello Girolamo Moliterno. Questo colonnello tolse il potere al popolo, ossia ai cosidetti «lazzaroni», e diede il comando delle quattro fortezze: Castelnuovo, Sant'Elmo, Castel dell'uo­vo e Castel del Carmine, a quattro patrizi e mandÃ’ una deputazione allo Championnet per invitarlo a desistere dal proposito di entrare in Napoli (18 gennaio 1799). Tale deputazione cosÃŒ parlÃ’ al generale francese: « Voi credete breve lo spazio che vi separa dalla cittÀ, ma lo troverete lunghissimo perché sessantamila cittadini ani­mati da zelo di religione e da passione d'indipendenza difendono la cittÀ e dunque ogni cosa vi consiglia pace con noi. Se voi, per pace concessa, non entrerete in cittÀ, il mondo vi dirÀ magnanimo; se per popolana resistenza (ossia resistenza dei «lazzaroni») non entrerete, il mon­do vi terrÀ inglorioso. Il generale rispose: « Voi par­late come vincitore parlerebbe ai vinti; la tregua È rotta perché voi mancate ai patti; domani procederemo contro la cittÀ! ». Naturalmente nella storia del mondo solo i deboli e quelli che difendono la propria casa « man­cano ai patti », gli invasori sono sempre agnellini in­nocenti perseguitati da chi si difende. Ossia la ragione È del piÙ forte, ma non di chi sta dalla parte della ragione.

Il popolo a tali notizie corse ad armarsi e, dato che da come si avviava la faccenda aveva motivo di dubitare delle qualitÀ militari di chi aveva il comando, nominÒ suoi capi un certo Paggio di professione mercante e un certo Michele il Pazzo.

I giacobini napoletani informavano segretamente lo Championnet che loro avrebbero preso possesso di Castel Sant'Elmo (ossia quello posto nella posizione piÙ ele­vata) e che le truppe francesi avrebbero dovuto muo­versi solo quando avrebbero visto sventolare sul castello la bandiera tricolore francese. Championnet appena vide il segnale avanzÃ’ con l'esercito diviso in due colonne una verso porta Capuana e l'altra verso Castel Sant'Elmo. Con sua grande sorpresa si trovÃ’ difronte ad una resi­stenza formidabile da parte dei «lazzaroni», i quali, male armati, si battevano tenacemente contro gli invasori ar-matissimi, cedendo il terreno palmo a palmo in una lotta micidiale per entrambi le parti. Di fronte a tale resistenza, Championnet dovette ripiegare e solo con un secondo attacco, nel quale per snidare gli eroici « lazzaroni » im­piegÃ’ il fuoco appiccando incendi agli edifici, e riuscendo a sventare il pericolo di un aggiramento grazie all'inspe­rato arrivo di una colonna di francesi provenienti da Benevento, riuscÃŒ ad accamparsi a Capodimonte.

Durante la notte il combattimento ebbe tregua e fu ripreso al mattino del 22 con lo stesso furore dei giorni innanzi e solo con grandi sforzi gli invasori riuscirono a raggiungere Castel Sant'Elmo dove i giacobini napole­tani accolsero lietamente i giacobini francesi e insieme piantarono l'albero della libertÀ. Di quale libertÀ si trat­tasse lo impararono a loro spese, quando tutta l'Europa divenne suddita di Napoleone e Van Beethoven toglieva la dedica a Napoleone dalla sua meravigliosa sinfonia « L'Eroica » che aveva scritto in onore del monarca straniero.

Ma i « lazzaroni » non mollavano, continuando la di­fesa tra assalti sanguinosi, bombardamenti e agguati. Championnet volle fare un tentativo di pace inviando a Michele il Pazzo un suo ufficiale per proporla; ma l'am­basciatore fu respinto a fucilate e allora il generale de­cise un impetuoso assalto per il giorno 23 distribuendo ai soldati torce incendiarie. La lotta fu accanita e tre colonne di francesi, agli ordini di Championnet, Keller-mann e Duhesme avanzarono incendiando la cittÀ. Il va­lore dei « lazzaroni » riempÃŒ di meraviglia lo stesso Championnet e alla fine quando Michele il Pazzo, fatto prigioniero, gli fu portato davanti, elogiÃ’ lui e i suoi « lazzaroni » e si lasciÃ’ convincere a mandare una guar­dia d'onore a San Gennaro.

Tre giorni era durata l'eroica resistenza dei « lazza­roni » i quali ebbero, oltre ai feriti, ben tremila morti e i francesi piÙ di mille.

Ora gentile lettore, quale cittÀ europea contro le trup­pe francesi (che depredando invadevano e imponevano taglie) ha dato esempio di patriottismo, di eroismo cosÃŒ sublime, cosÃŒ tenace, cosÃŒ grande, nella sua spontaneitÀ e nella sua resistenza, come quella offerta dai «lazzaroni»? Erano popolani incolti che non avevano « il bastone da maresciallo nello zaino » come lo ebbero i soldati di Na­poleone, avidi di galloni, spalline ed onori. Non avevano illusioni di grandezza personale. Difendevano la casa, la famiglia, la religione e morivano in tremila in tre giorni.

Nelle storie del Risorgimento italiano abbiamo sem­pre visto giustamente esaltare Balilla e Pietro Micca per i loro gesti isolati di eroismo. Abbiamo visto giustamente esaltare le « cinque giornate » e le « dieci giornate », milanesi e bresciane, e commossi, ci leviamo il cappello davanti a tali eroismi. Ma mai nessuno ha ricordato i tremila « lazzaroni » morti tra i ruderi delle case incen­diate della loro Napoli, mai nessuna storia ad uso dei nostri scolari, ha parlato di tale valore italianissimo e popolare, manifestatosi come improvvisa fiammata per merito di quei cosidetti « lazzaroni » che seppero igno­rare la miseria e la distruzione che li circondava, per mo­rire con animo veramente spartano.

Ebbene, credo che sia giunta l'ora che si insegni ai giovani che il popolo napoletano È stato allora, come sem­pre, generoso ed eroico, con grande modestia, pronto con un motto ed una facezia a mettere da se stesso in ridi­colo i propri gesti sublimi, perché chiassoso e verboso quale È, sa anche essere, senza tema di smentita, il meno retorico tra tutti gli italiani.

I giacobini napoletani si rallegrarono della presunta libertÀ acquistata e si bearono delle promesse retoriche e bugiarde dello Championnet e proclamarono, d'accordo con lui, la « repubblica partenopea ».

Dopo pochi mesi le illusioni crollarono e i saccheggi e le violenze francesi, le enormi contribuzioni pretese dagli invasori, accelerarono la reazione e portarono al martirio i repubblicani napoletani vittime delle illusioni e delle promesse degli invasori.

Credo, gentile lettore, di avere provato come l'agget­tivo di « lazzarone » possa e debba diventare un titolo onorifico dal punto di vista storico, per il popolo napo­letano; e come non erano « briganti » i contadini e i montanari che spontaneamente difendevano la Patria, le proprie donne e i propri averi contro lo straniero invasore.



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