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DECADENZA DELL'ITALIA MERIDIONALE DOPO IL 1860 PARTE PRIMA

Storia



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DECADENZA DELL'ITALIA MERIDIONALE DOPO IL 1860 PARTE PRIMA

Nel marzo del 1861 il parlamento riunito a Torino, presenti i rappresentanti delle nuove regioni, meridio­nali e centrali, acclamavano Vittorio Emanuele Re d'I­talia e in tal modo, veniva sancita l'unitÀ del regno. Cavour che, per sua stessa dichiarazione, non cono­sceva affatto l'Italia meridionale e tantomeno la situa­zione economica delle sue regioni, decretava l'unificazione doganale facendo cadere tutte le barriere preesistenti e applicando di colpo a tutto il Regno il sistema libero scambista del Piemonte, mentre quelle popolazioni ve­nivano gravate di metÀ del debito pubblico del Regno dell'Alta Italia e i contanti trovati nelle casse delle ban­che meridionali venivano abusivamente prosciugati. Da qui ebbe inizio l'immiserimento dell'Italia meri­dionale, la distruzione delle sue industrie e il malessere del suo artigianato e della sua agricoltura e quindi la sua decadenza economica, le cui funeste conseguenze ancora sono presenti e dannosamente operanti nonostante che all'atto dell'unificazione d'Italia le regioni meridionali



si trovassero, dal punto di vista economico, in una si­tuazione molto diversa da quella che una, volutamente errata, propaganda ufficiale abbia voluto far credere. Dopo un secolo di unitÀ, e in omaggio alla veritÀ e alla rettitudine, È doveroso fare ammenda di tutti gli errori, di tutti gli abusi, di tutte le incomprensioni che hanno fino ad ora gravato sulle popolazioni meridionali.

Come si È anche visto nei capitoli precedenti, la quan­titÀ di monete d'oro e d'argento nell'Italia meridionale era il doppio di quella rappresentata dalla somma delle monete metalliche di tutti gli altri Stati Italiani; l'indu­stria e l'agricoltura fornivano quasi tutto quanto era necessario al mantenimento di un esercito di 100.000 uomini e una marina da guerra molto piÙ forte di tutte le altre marine da guerra italiane messe insieme, mentre la marina mercantile era la terza in Europa.

Siccome le importazioni si limitavano al ferro vecchio e nuovo, al pesce secco, ad alcuni filati ed a alcuni tes­suti, oltre allo zucchero, caffÈ, thÈ, cioccolato ecc. la bi­lancia commerciale era di ben poco passiva e tale pas­sivitÀ era largamente compensata dall'apporto dei noli marittimi. Costruendo navi da guerra e navi mercantili in casa propria, molte industrie erano fiorenti, unita­mente a quelle tessili e conciarie tanto che alcuni stu­diosi hanno affermato che negli anni del Risorgimento la Napoli industriale nulla perdeva al confronto delle cittÀ nordiche e della stessa Milano. Viene cosÃŒ a dissol­versi la leggenda di un Mezzogiorno torpido e languente, dovendosi invece ammettere che un'alacre ed industre borghesia dava, con la propria operositÀ, la possibilitÀ di lavoro e di guadagni a larghi ceti della popolazione.

Le attivitÀ commerciali, agricole, industriali erano col­pite dal fisco in modo sopportabile, tanto che nel 1847, in uno studio comparativo tra la situazione fiscale pie­montese e quella meridionale, risultÃ’ che mentre ogni contribuente meridionale pagava in media lire 13, quello piemontese pagava lire 30. I titoli statali valevano otto o nove punti in piÙ del prezzo d'emissione, mentre detti titoli venivano, con sor­teggio annuale, rimborsati alla pari o tramutati in altri titoli che invece di dare il 5% di interesse, ne davano solo il 4%. Cosa questa, che puÃ’ avvenire solo quando le finanze statali siano molto solide e il pubblico nutra la massima fiducia verso il Governo.

Avvenuta l'annessione al Piemonte dell'Italia meridio­nale, il nuovo governo alienÃ’, sotto costo, ingenti quan­titÀ di titoli di rendita napoletana; e, secondo una lettera scritta da Liborio Romano al conte di Cavour, risulta che furono dilapidati i fondi della Cassa di Sconto, commet­tendo varie irregolaritÀ nella tesoreria e nel Banco par-tenopeo, quasi che Napoli fosse una terra di conquista o addirittura una colonia. In un anno, aggiungeva don Li­borio nella sua lettera, il Governo centrale ha prelevato dalle casse dell'ex reame, oltre ottanta milioni di lire (quanti miliardi attuali rappresenterebbe tale somma?) spendendo in opere pubbliche nel meridione solo lire 390.625,07 oltre alla concessione di lire 10.000.000 alla Tesoreria di Napoli; milioni concessi sulla carta, mai visti arrivare. Oltre a ciÃ’, tolte all'improvviso le protezioni doga­nali vigenti sotto i Borboni, le industrie sparivano pro­vocando indebitamenti e disoccupazione, come scompar­vero varie colture agricole: gelsi per i bachi da seta, coltivazione del cotone, e riducendo a quantitÀ trascura­bili quella della canapa e del lino. Ad unitÀ conseguita veniva caricato sull'Italia meri­dionale metÀ del debito pubblico per sollevare il bilancio dello Stato piemontese, il quale nel 1860, era sull'orlo del fallimento. In tal modo si abbatteva sugli abitanti del Sud il flagello del sistema fiscale piemontese, mentre venivano ridotti gli imponibili per i contribuenti del Nord.

Messi in vendita i beni ecclesiastici, la nobiltÀ e la borghesia abbiente meridionali ed alcuni agricoltori li comprarono e tutto il denaro ricavato fu portato al Nord e secondo Nitti il drenaggio dei capitali da Sud a Nord si prolungÒ per decenni; e si tenga presente che molti acquirenti comprarono i beni ecclesiastici con denaro prestato dal governo al 6% di interesse.

Quando i latifondi appartenevano agli ordini religiosi, questi li concedevano in uso ai contadini per un mode­stissimo affitto spesso rappresentato da prodotti vegetali o animali. Passati tali beni in proprietÀ di privati, i contadini poveri si trovarono privi di ogni risorsa e quindi alla fame e questo fu uno dei motivi per i quali le campagne meridionali e sicule furono tormentate dal brigantaggio.

Il Piemonte nel 1861 aveva un gravame di debito pubblico di ben 63.800.000 lire, dei quali ben 32.800.000 furono caricati sugli abitanti del sud, dopo avere man­dato in malora le loro industrie, i loro commerci e la agricoltura.

E tale disastro economico potÈ verificarsi per l'im­provvisa unificazione doganale, mentre dieci anni prima lo stesso Cavour, fautore del liberismo economico aveva agito con certe precauzioni nei riguardi di certe industrie del Nord che fino ad allora erano state protette da alte tariffe doganali. Ma nei confronti delle industrie meri­dionali non si vollero adottare consimili riguardi indi­spensabili al fine di evitare improvvisi disastri.32.

Per favorire l'industria tessile piemontese Cavour de­cretÃ’ alcune riduzioni doganali sui filati contro lo stesso parere del ministro delle finanze Quintino Sella.

L'agricoltura del Sud veniva, invece, ad essere rovinata dalla crescente concorrenza dei paesi d'oltre mare ricchi di materie prime; mentre l'industria veniva messa in condizione di non poter sopportare la concorrenza di quella del nord Italia. E allora nella Lucania si distrussero intere mandrie di pecore, di quelle pecore «merinos» delle quali l'Inghil­terra era riuscita ad iniziare l'allevamento in Australia, trafugando clandestinamente gli arieti «merinos» dalla Spagna per portarli in quel lontano continente. Gli agricoltori meridionali tentarono di trasformare i terreni una volta adibiti a pascolo di quelle pecore pre­ziosissime, in terreni da grano assolutamente inadatti a tale cultura, sia per il clima, sia per la deficienza di humus. Naturalmente la miseria e la delusione favorirono il formarsi del brigantaggio. Tale brigantaggio ebbe inizio quando la fortezza di Gaeta, per la scarsitÀ dei viveri, alleggerÃŒ la propria guar­nigione di circa un migliaio di soldati, i quali per non cadere nelle mani dell'esercito piemontese, sconfinarono nello Stato Pontificio. Ma, secondo quanto narra il gene­rale Luigi Cadorna nell'opera giÀ citata, « il brigantaggio ebbe il primo appiglio dall'errore commesso dal governo italiano di sciogliere repentinamente, dopo la caduta di Gaeta, l'esercito borbonico senza premunirsi contro le inevitabili conseguenze che avrebbero prodotto la disper­sione improvvisa di tanti ex militari di quelle provincie, i quali non si sarebbero rassegnati a ridiventare di colpo pacifici agricoltori », di un'agricoltura resa difficile per gli inconsulti provvedimenti presi dal nuovo governo. Naturalmente tali elementi venendosi a trovare improv­visamente disoccupati e trovando miseria ed altra disoc­cupazione nelle loro stesse famiglie e anche negli altri settori economici, a causa del terremoto suscitato dalle errate direttive del nuovo governo, si davano alla macchia non trovando modo di vivere sui propri campi ed es­sendo sconosciuta e molto lontana, la possibilitÀ di emi­grare in paesi dove si potesse almeno mangiare. Inevitabilmente i partigiani dell'antico regime e tra questi il Clero, approfittarono di tali tristi condizioni per utilizzare i malcontenti e gli affamati, per le loro idee di reazione ed impossibile restaurazione.

Anche grave era il fatto che i caratteri meridionali non si legavano con quelli dei funzionari piemontesi mandati sul posto dal governo centrale. I piemontesi si credevano superiori a tutti e si rendevano antipatici col loro modo di fare senza capire che le popolazioni del sud, molto intelligenti, anche quelle incolte, reagivano mettendoli in ridicolo 33.

D'altra parte lo stesso Bettino Ricasoli, fiorentino e d'ingegno, dichiarava apertamente, come È giÀ stato ricor­dato, la propria antipatia per la « stupida pedanteria e la laida burocrazia piemontese », in una lettera che Ricasoli scriveva al suo amico Silvestrelli; e Ricasoli era una per­sona abituata a viaggiare e a conoscere uomini e paesi. A poco a poco il brigantaggio finÃŒ, ma lasciÃ’ per lunghi anni e per piÙ di una generazione sentimenti di odio dato che la repressione aveva procurato la fucilazione sommaria di 1.038 persone trovate in possesso di armi, 2.413 furono uccise in combattimento e 2.768 furono fatte prigioniere. In seguito napoletani, abruzzesi, pu­gliesi, calabresi e siciliani diedero ottimi soldati e ottimi tutori dell'ordine, mentre la borghesia intelligente, ma povera non per propria colpa, dette alla Patria funzio­nari di primissimo ordine e uomini politici e militari di valore ed onesti. Ma nel 1866, conclusasi malamente una guerra mala­mente combattuta e dove tra l'altro, con grande ram­marico dello stesso Garibaldi, le popolazioni venete e trentine erano rimaste passive in attesa degli eventi ( mentre Garibaldi ricordava l'entusiastico apporto dato dalle popolazioni siciliane e calabresi alla sua trionfale marcia fino a Napoli), i Siciliani malcontenti per la leva militare, da loro mai conosciuta; per la miseria incombente; per l'incomprensione delle nuove leggi e dei nuovi reggi­tori della cosa pubblica e soprattutto per la miseria pro­vocata dal passaggio dei latifondi ecclesiastici a privati speculatori e per la sobillazione clericale contro il go­verno massonico e anticlericale, si sollevÃ’ in modo vera­mente preoccupante dando luogo ad una marcia su Pa­lermo di contadini rivoltosi, con barricate e sparatorie.

Per completare questo triste quadro, il colera faceva strage e la pubblica opinione accusava i soldati dell'eser­cito regio di avere apportato tale flagello.

Ma quello che dette l'avvio alla rivolta come causa materiale determinante, fu la notizia grave ed ingiusti­ficabile dell'insuccesso dell'esercito italiano, conosciuto dai siciliani come esercito « piemontese ». Saputo che detto esercito con una enorme superioritÀ numerica era stato messo in condizioni di inferioritÀ nonostante l'eroismo dei soldati ( per colpa dell'insipienza dei comandanti, escluso Garibaldi e pochi altri) e che in mare la sconfitta, anche nonostante la superioritÀ nu­merica della flotta italiana era stata vergognosa per l'in­sipienza, e peggio, dell'ammiraglio piemontese, veniva a cadere grande parte del mito eroico creato per il lontano governo e la sua creduta perfezione e per le sue forze armate. In conseguenza la popolazione siciliana, che aveva presente la grande propaganda fatta da chi voleva nel 1860 l'UnitÀ d'Italia consacrata a tamburo battente col Plebiscito, era portata a credere di essere stata ingan­nata e tradita.

D'altra parte il governo, che era stato trasferito da Torino a Firenze, non conoscendo la reale situazione sici­liana dava ordini e consigli incoerenti e spesso contraddittori tra loro e incomprensibili anche allo stesso Com­missario regio inviato con gran numero di armati in Si­cilia. Tale Commissario era il generale Raffaele Cadorna che spesso veniva messo in imbarazzo dalle direttive che gli arrivavano da Firenze, disturbandolo nella sua giÀ tanto difficile opera.

Bisogna riflettere che in quei tempi Firenze, capitale del Regno d'Italia, era distante da Palermo, senza parlare delle cittÀ all'interno dell'isola, almeno venti volte di piÙ di oggi considerando gli odierni mezzi di comunicazione, elefonici, telegrafici e di trasporto.

Fortunatamente il genere Raffaele Cadorna era una persona di buon senso ed era anche un uomo politico eletto varie volte deputato dai primordi del Parlamento subalpino.

I moti siciliani si estinsero a poco a poco. Ma non finirono per questo i moti in altre regioni d'Italia e nel • 1869 si ebbero quelli dell'Emilia ossia nelle provincie di Parma, Reggio Emilia e Bologna causati dalla « tassa sul macinato » ossia la tassa da pagare quando si por­tava a macinare il grano o il granoturco. Ci furono barri­cate e venne addirittura mobilitato un Corpo d'Armata e anche qui il generale Cadorna dovette constatare che, come in Sicilia, in Abruzzo e in Calabria, il clero aveva soffiato sul fuoco sempre per la questione della vendita dei beni ecclesiastici.

Tra il brigantaggio in Abruzzo e in Calabria e la rivolta in Sicilia e nell'Emilia, si ebbero piÙ morti nelle repressioni di quelle verificatesi in tutte le guerre del Risorgimento. Il che dimostra che il responso dei plebi­sciti non rappresentÃ’ (e forse mai rappresenterÀ) la vera volontÀ delle popolazioni interrogate con quel sistema, e in modo speciale i plebisciti organizzati in Sicilia e nelle re­gioni meridionali della penisola furono una cosa poco seria.



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