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IL 1848 A NAPOLI

Storia



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IL 1848 A NAPOLI

Dopo la concessione della Costituzione, avvenuta il IO febbraio del 1848, nelle regioni meridionali (Lucania Puglie e Calabrie), l'agitazione politica invece di calmarsi si aggravÃ’, sia per le notizie, propagatesi rapidamente, dell'avvenuta proclamazione della repubblica in Francia, sia per la caduta del Metternich in Austria e per l'esito entusiasmante della rivolta di Milano con la cacciata degli Austriaci dopo le « Cinque Giornate ».



I contadini reclamavano la divisione delle terre dema­niali e i circoli politici della borghesia crescevano di nu­mero, manifestando tendenze ultra democratiche e, a Co-senza, in un convegno tenuto in un pubblico teatro, Do­menico Mauro e Benedetto Musolino inneggiavano senza veli di sorta all'avvento della repubblica.

A Napoli, pur esprimendosi in termini piÙ cauti, il fermento era notevole e cominciava a dare preoccupazioni ai Ministri in carica, anche perché questi erano venuti a conoscenza che nel Salernitano si inneggiava alla repub­blica e in alcuni paesi era stata piantato « l'albero della libertÀ ».

Alcuni deputati della Camera, eletti nelle varie circo­scrizioni del Regno, partecipavano nel loro intimo a tali esagerazioni politiche, ma la maggioranza, piÙ colta e piÙ avveduta, manteneva un contegno riservato e prudente. Tra i piÙ moderati È doveroso ricordare una serie di uo­mini illustri, tra cui Carlo Poerio, Pasquale Stanislao Mancini, Gabriele Pepe, Saverio Baldacchini, Vincenzo Lanza, Paolo Emilio Imbriani, Giuseppe Pisanelli, Vin­cenzo D'Errico, Giuseppe Massari, Lorenzo De Conciliis, Silvio Spaventa, Raffaele Conforti, Antonio Scialoia, Giacomo Savarese, Carlo Troya e Domenico De Cesaris, dei quali alcuni ricoprirono le piÙ alte cariche dello Stato dopo il 1860.

Pochi giorni prima della seduta inaugurale del Parla­mento, nella capitale erano affluiti da tutte le parti del Regno uomini di ogni condizione insieme ai neodeputati.

Tra questi molti calabresi, pugliesi e lucani erano ac­compagnati da amici ed elettori, taluni dei quali armati. Tali arrivi, veramente impensabili in occasione dell'inau­gurazione di un Parlamento, dettero la stura ai commenti e alle previsioni le piÙ fantastiche, non escluso il timore di tumulti o, addirittura, di tentativi di proclamazione della repubblica e quindi di abbattimento della monardbia.

Fissato nel 15 maggio il giorno dell'apertura del Par­lamento, fu deciso che tale solenne cerimonia avesse luo­go nella storica chiesa di San Lorenzo ove, dopo la cele­brazione di una Messa, il Sovrano avrebbe rinnovato il giuramento di osservare la Costituzione, indi il Ministro di Grazia e Giustizia avrebbe letto la formula del giura­mento e i membri tutti delle due Camere (quella dei Deputati eletti dal popolo e quella dei Pari, eletti dal Re ) avrebbero prestato anche loro il giuramento sul Van­gelo. Dopo di che il Re avrebbe pronunciato il discorso del trono.

La formula del giuramento comprendeva la promessa di osservare e difendere nel Regno delle Due Sicilie la religione cattolica apostolica romana, unica religione dello Stato; di osservare e fare osservare la Costituzione del 10 febbraio; di osservare le leggi in vigore e quelle che sarebbero state approvate successivamente; di non fare o tentare alcuna cosa contro la Costituzione e di serbare fedeltÀ al sovrano. Ma alcuni deputati riunitisi in casa del loro vicepresi­dente Vincenzo Laura decisero di non accettare la formu­la del giuramento e ne proposero un'altra, ossia questa: « giuro di professare la religione cattolica apostolica ro­mana; di professare e mantenere lo Statuto politico della Nazione con tutte le riforme e le modificazioni che ver­ranno stabilite dalla rappresentanza nazionale massima­mente per ciÃ’ che riguarda la Camera dei Pari; di adem­piere al mandato ricevuto dalla Nazione e con tutte le mie forze di procurare la sua grandezza e il suo benes­sere; cosÃŒ facendo Dio mi premi altrimenti me lo imputi». Tale giuramento evitava ogni accenno alla Sicilia, riba­diva un'unica religione e dava alla rappresentanza naziona­le la facoltÀ, esplicita e senza limiti, di riformare la Costi­tuzione. In sostanza i deputati volevano trasformare il Parlamento in una vera e propria Assemblea Costituente autorizzata ad apportare ogni modifica, anche la piÙ az­zardata, allo Statuto emanato dal Sovrano il 10 febbraio. I ministri diedero le dimissioni e nella reggia, fra il Re, i ministri e alcuni uomini eminenti fra cui il de­putato Cacace, il pari Canciulli, l'autore dello Statuto Francesco Paolo Borrelli e anche un francese da quaranta anni naturalizzato napoletano, tale Maurizio Dupont, uo­mo di esemplare rettitudine invitato dal ministro Scialoia, si iniziÃ’ uno studio per proporre un'altra formula di giu­ramento che allargasse il potere del Parlamento, senza aggiungere la formula proposta dai deputati; formula ri­voluzionaria e che qualsiasi regime costituzionale, a co­minciare da quello del Regno di Sardegna, avrebbe senz'altro rigettato.

Dopo discussioni laboriose il Re scrisse di sua mano una nuova formula da proporre al Parlamento; formula che, nel punto controverso, suonava cosÃŒ: « prometto e giuro di osservare e di far osservare inviolabilmente la Costituzione della Monarchia promulgata ed irrevocabil­mente sanzionata da noi, nel dÃŒ 10 febbraio 1848, salvo tutto ciÃ’ che sarÀ legalmente sanzionato nello svolgere lo Statuto, ai termini dell'articolo 5 del programma del 3 aprile ».

I ministri se ne dichiararono soddisfatti e ritirarono le loro dimissioni.

Recatisi Dupont e il deputati Cacace e Vacca con tale formula a Monteoliveto, dove molti deputati erano riu­niti, questi trovarono accettabile la nuova formula pro­posta, allorché sopraggiunse il deputato La Cecilia ad annunziare che erano cominciati movimenti di truppa.

Uscirono per le strade alcuni deputati che si incontra­rono col deputato Gabriele Pepe (quello che rintuzzÃ’ in duello le offese lanciate dal Lamartine contro il popolo italiano), ma movimenti di truppe non se ne videro. Si vide invece molta folla esaltata e alcuni forsennati as­salirono Gabriele Pepe, con le armi in pugno; poi gri­davano « all'armi » e, facendo battere un tamburo, im­pedivano all'eroico generale di farsi ascoltare. Naturalmente di tale fermento popolare (che giÀ ave­va fatto sorgere barricate in vari punti della cittÀ, for­zando portoni delle case per fare uscire carri e carrozze dai cortili e impossessandosi di confessionili e di sedie in varie chiese) arrivÃ’ notizia alla Reggia, dalle cui fine­stre giÀ si vedevano le prime barricate nell'ultimo tratto di Toledo verso la piazza S. Ferdinando. Invano Gabriele Pepe e Ottavio De Piccolelli, depu­tato e colonnello quest'ultimo della Guardia Nazionale, cercarono di calmare gli animi; perché fatti segno ad ingiurie e minacciati con i fucili corsero alla Reggia, dove il Re ordinÃ’ che le truppe non dovevano uscire e se qualche reparto in seguito ad equivoco fosse uscito sa­rebbe stato immediatamente ritirato e dispose che il Pepe e il De Piccolelli andassero dai piÙ autorevoli deputati affinchÈ questi facessero togliere le barricate, dando nello stesso tempo la notizia che il Re rinviava il giuramento dal giorno dell'inaugurazione a quello della verifica dei poteri.

Questa notizia fu accolta con entusiasmo e con ab­bracci dai deputati che ancora si trovavano riuniti a Mon-teoliveto e con la decisione di pubblicare un proclama col quale, fra l'altro, si invitava la popolazione a far scom­parire le barricate.

Alcuni deputati, fra i quali Silvio Spaventa, Nicola De Luca, Stefano Romeo, Giuseppe Gallotti e il Carducci andarono dove le barricate erano costruite cercando di persuadere i rivoltosi a demolirle, ma furono male ac­colti, ingiuriati e accusati di essere traditori, venduti al Governo e qualcuno fu anche minacciato di morte.

Ma ormai i calabresi e i siciliani, con i loro amici giunti armati nella Capitale, avevano preso il soprav­vento; erano persone sconosciute ai patrotti napoletani e respingevano i consigli di prudenza e raziocinio. Tutto ciÃ’ avveniva all'alba del giorno 15 maggio: alle sei del mattino il grosso delle truppe usciva dai quar­tieri ed andava ad occupare le posizioni assegnate.

Soldati disarmati tentarono di rimuovere alcune barri­cate, ma dovettero desistere di fronte ai fucili spianati dei rivoltosi. Ad un certo momento un colpo partÃŒ inavvertitamente da un tale che vicino ad una barricata di via Toledo teneva l'arma al braccio; subito altri colpi partirono dalla barricata di S. Ferdinando e un soldato e un ufficiale caddero gravemente feriti.

La tragedia era cominciata; i promotori della rivolta inutile e sciocca rimasero sconosciuti; i morti, i feriti, i saccheggi, gli incendi furono infiniti.

La Camera rimase in continua seduta tentando di arri­vare ad una conciliazione fra ribelli e Reggia, ma invano. La forza militare ebbe ragione della rivolta e il Re, spontaneamente, per buon senso politico, cercÃ’ di mo­strarsi moderato. Ma È indubbio che la rivolta era stata sostenuta da quelli che il Settembrini definÃŒ «pochi stolti scapigliati» e la madre dei due Poerio battezzÃ’ «il par­tito dei pazzi ». La libertÀ e il progresso sono cose che si pagano a caro prezzo; e in tale prezzo vanno compresi anche gli errori dei fanatici e degli sconsigliati che con i loro ec­cessi invece di accelerare il movimento di evoluzione spesso lo ritardano e lo rendono piÙ difficile.

Qualunque possa essere il giudizio circa l'operato di Ferdinando II È pur sempre lecito domandarsi quale, in un caso simile, sarebbe stato il contegno di qualsiasi altro sovrano europeo nell'anno 1848.

Certo che Vittorio Emanuele II di fronte a un tenta­tivo di trasformare la Camera dei Deputati in una Costi­tuente con poteri riformatori senza limiti, non avrebbe certamente subito tale prepotenza e avrebbe usato la stes­sa energia da lui messa in atto nel 1849 facendo bom­bardare Genova che si era ribellata al Governo di Torino.

Sbagliarono politicamente i Parlamentari napoletani a domandare a primo colpo la riforma radicale del testo del giuramento; e sbagliarono sia per l'indisciplina dei piÙ accesi, sia per la completa mancanza di pratica poli­tica dei piÙ ragionevoli. La politica È un'arte difficile ed È stata definita « l'arte del possibile ».

Ma gli esaltati non volevano capire e i moderati e i piÙ colti erano alle prime prove parlamentari e, quindi, « la difficile arte del possibile » era a loro completamente sconosciuta.



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