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IL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1849

Storia



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IL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1849

Ferdinando II, asceso al trono delle Due Sicilie poco piÙ che ventenne, il giorno 8 novembre 1830, con una frase in dialetto napoletano affermava ad un suo dipen­dente che « 'o tiempo d'e pappavalle È fernuto ». CosÃŒ ricorda il giovane ed erudito storico Michele Topa nella sua egregia, quanto appassionata opera intitolata « CosÃŒ finirono i Borboni di Napoli ». In quella frase di forma non certamente lapidaria, ma tipicamente arguta e anti­retorica, (come argutamente e semplicemente i Napole­tani sanno sempre sintetizzare gli avvenimenti anche im­portanti), È racchiusa la ferma volontÀ del giovane Re di dare un nuovo indirizzo al governo borbonico.



Nel caso specifico, il Re, dopo le pazzie spendereccie del suo genitore, che nel solo viaggio in Spagna per il matrimonio della figlia aveva dilapidato 692 mila ducati, voleva ben chiaramente affermare che bisognava non solo fare economie, ma darne l'esempio, anche abolendo i pic­coli giardini zoologici mantenuti nelle reggie, ivi compresi anche « 'e pappavalle » cari a suo padre e a suo nonno.

In un proclama alla popolazione il Re affermÃ’ che voleva « rimarginare le piaghe che da tanti anni afflig­gevano il regno », curando l'amministrazione della giustizia in modo che i tribunali fossero santuari non pro­fanati, provvedendo nel miglior modo alle finanze dello Stato (per curare le profonde piaghe che esistevano e che lui ben conosceva) e concludeva annunciando che avrebbe rivolto ogni cura al perfezionamento dell'esercito e della marina.

ScacciÃ’ poi dalla corte i parassiti di vario ordine e grado, primi tra essi un cameriere ed una camerista che durante il regno di Francesco I avevano abusato della loro posizione facendo favori ai vari postulanti, valen­dosi della loro intimitÀ con la famiglia regnante.

Disciolse la « Compagnia di polizia » della Reggia, che si era specializzata nell'inventare congiure e cospirazioni con le quali aveva terrorizzato Francesco I e, con grande disappunto dei vari governi sotto i quali era divisa l'Ita­lia, emanÃ’ un atto di sovrana clemenza facendo ritornare in patria centinaia di esuli che si erano compromessi nei moti del 1820 e riducendo le pene ai condannati politici. Inoltre richiamÃ’ in servizio ufficiali che in seguito ai moti costituzionali erano stati radiati dall'esercito; tra gli altri il generale Filangieri, al quale conferÃŒ l'Ordine cavalieresco di San Gennaro, e nell'appuntargli lui stesso la croce, disse di volere con quell'atto « palesargli il cor­doglio di averlo veduto fuori dell'esercito ». AbolÃŒ ogni distinzione di nascita nel conferimento dei gradi, cosa questa, dati i tempi, sconosciuta altrove.

Con l'editto del 18 dicembre del 1830 rimoveva ogni residuo ostacolo, derivante da colpe politiche, al conse­guimento dei pubblici uffici e abilitava all'esercizio delle pubbliche cariche gli impiegati e i militari giÀ destituiti, concedendo agli esuli di far ritorno alle loro famiglie e condonava la metÀ della pena residua ai condannati per reato politico.

Il Consiglio di Stato, sotto la stessa data, compilava un elenco di 293 nomi di esuli che potevano rimpatriare immediatamente ed un altro elenco di 225 esuli ( fra i quali Guglielmo Pepe, Gabriele Rossetti, Alessandro Poerio) che avrebbero potuto ritornare solo dopo averne fatta domanda e ottenuto il consenso sovrano. Ma Poerio non volle fare la domanda e restÃ’ in esilio.

Poiché le prospettive di un miglior governo sono una cosa bella, come pure lo sono gli atti di clemenza, ma non sono sufficienti in uno Stato amministrato male, Ferdinando II iniziÃ’ col dare esempio di sane economie co­minciando dal proprio palazzo.

AbolÃŒ il Corpo dei Cacciatori (una specie dei moderni corazzieri da parata), che costava 370 mila ducati all'an­no, e diminuÃŒ la somma che era a disposizione della Casa Reale per il suo normale mantenimento. AttuÃ’ una se­vera riforma dei ministeri ed un'economia sugli stipendi e le pensioni degli impiegati; economia che per gli sti­pendi dei ministri saliva fino al cinquanta per cento; cose queste vere e storicamente documentate e che, nei tempi attuali, assumono purtroppo l'aspetto di favole.

A questo punto È cosa utile riprodurre addirittura quanto Ferdinando II volle fosse scritto nel preambolo del decreto: « Noi abbiamo voluto conoscere lo stato della situazione della tesoreria generale di Napoli. Per quanto triste essa sia, non ne facciamo un mistero. Que­sta reale franchezza sarÀ degna di Noi, sarÀ degna del popolo generoso di cui la Provvidenza ci ha affidato il governo. Posta dunque a nudo la cosa, il deficit effettivo che esiste nel 1831 È di 1.128.167 ducati. Noi ne fummo profondamente rattristati ma non disarmati. Fedeli alla promessa di fare ogni personale sacrificio, Noi abbiamo giÀ conceduto un rilascio della nostra borsa di 180.000 ducati, altro ne facciamo dall'assegnamento della nostra cassa di 190.000 ducati. Abbiamo ottenuto dai diversi rami della marina e della guerra un'economia di ducati 350.000. La severa riforma dei diversi ministeri ha prÃ’ dotto un'altra economia di ducati 351.667. Pareggiati in tal modo gli introiti con le spese per l'esercizio 1831, rimane disponibile la somma di ducati 110.050.

Noi ci siamo proposti di impegnarli a sollievo del no­stro popolo colla riduzione del dazio sul macinato, e per non fare che l'alleviamento sia poco sensibile, non po­tendo chiedere né alla proprietÀ, né all'industria, senza turbare l'economia del paese, altri sacrifici, ci siamo per necessitÀ rivolti ad una ritenuta sui soldi e le pensioni degli impiegati, che appunto per questi assegni hanno piÙ facile mezzo di sussistenza ».

Naturalmente sarÀ facile cosa, per gli increduli, segui­tare a parlare di corruzione borbonica dell'ambiente bu­rocratico, come da cento anni a questa parte se ne È sempre parlato, e torna quindi utile a questo proposito citare un ben chiaro periodo della « Storia del Piemon­te » scritta dal Brofferio, per rendersi conto di come era la situazione altrove. Eccolo: « I piÙ feroci spogliatori nel Piemonte non erano quelli delle pubbliche vie, ma quelli dei pubblici impieghi. Si vendevano i favori, si vendevano i titoli, si vendevano cariche, e vendevano le sentenze, tutto si vendeva». E questa È l'ennesima prova che la storia ufficiale scritta dai vincitori non È la storia vera e che per arrivare alla « storia vera » occorrono de­cenni e, magari, secoli.

Il Re Ferdinando II aveva ristabilito le pubbliche udienze, libere a tutti e gratuite, e faceva frequenti viaggi nelle varie provincie, senza lusso e senza preavvisi onde rendersi conto personalmente delle necessitÀ dei suoi sud­diti. Ma alcuni ufficiali compromessi nei moti del '21 e riammessi nell'esercito borbonico, al fine di spingere il sovrano a riforme costituzionali, si misero d'accordo con Nicola Intonti, ministro della polizia, al fine di inventare ed organizzare dei falsi tumulti a mezzo di poliziotti, anche distribuendo manifesti incendiari ma falsi, onde il Re fosse per paura, spinto a concedere leggi liberali. Tra i militari organizzatori di tali sciocche falsitÀ si possono ricordare Carlo Filangeri, Florestano Pepe, Lucio Carac-ciolo di Roccaromana e Francesco Pignatelli. Il Re si era quasi convinto di quanto l'Intonti e i soprannominati ufficiali gli andavano raccontando, fino a che messo sul­l'avviso dalla madre e dal generale Fardella, chiamÃ’ Francesco Saverio del Carretto e gli diede l'ordine di arrestare, impugnando la pistola, Nicola IntontÃŒ e di farlo espatriare a tutta velocitÀ.

I vari appartenenti alle varie sette, specialmente nelle provincie piÙ lontane, rimanevano in attesa dell'ordine della rivolta ignorando la fine fatta dall'Intorni e non avendo piÙ notizie in proposito pensarono di agire da soli. In tal modo si ebbero sollevazioni ad Amatrice in Abruzzo, dove furono arrestati vari cospiratori e poi scac­ciati dal Regno.

Cose simili avvennero in altre cittÀ dell'Abruzzo, delle Calabrie e delle Puglie e, in quest'ultima regione, l'orga­nizzazione settaria era diretta dal frate Cucciardi. Altre congiure si verificarono in Sicilia, ma tutto questo portÃ’ ad inutili sacrifici perché le popolazioni non seguivano questi tentativi che, anche se nobili nell'intenzione, erano puerili come organizzazione. Si pensava anche di uccidere il Re mentre andava a Caserta, ma tutto venne scoperto. Furono arrestati tra gli altri, Francesco Angeletti (uffi­ciale), Vito Romano, Ferdinando Giaquinto, Cesare Ros-sarol (figlio del generale), Ugo Paoletti e vari altri uffi­ciali e soldati. Il 13 dicembre 1833 fu emanata la sen­tenza di morte per l'Angeletti e Rossarol. Il tribunale per tutti gli altri fu mite, ma piÙ ancora fu mite il Re, che fece grazia ai condannati a morte.

Nel giugno 1832 Ferdinando II andÃ’ a Genova dove sposÃ’ la principessa Maria Cristina, di anni venti, ultima figlia di Vittorio Emanuele I re di Sardegna.

La principessa a Napoli fu subito amata dalla popola­zione e da tutta la Corte. Naturalmente anche riguardo a questo matrimonio i vari storici antiborbonici si sono sbizzarriti a raccontare favole pur di mettere in cattiva luce il marito. Ma Maria Cristina scrivendo alla sorella Maria Beatrice duchessa di Modena l'informava che «Fer­dinando È un angiolo, chi piÙ lo conosce piÙ gli si affe­ziona, perché È veramente un giovane raro ai suoi tem­pi ». In un'altra lettera cosÃŒ si esprimeva: « non posso essere piÙ felice col caro Ferdinando che riunisce tutte le qualitÀ, e con cui mi combino tanto d'idee e di carat­tere. Tutta la famiglia pare che ha tanta bontÀ per me; insomma vi assicuro che non credevo mai che si potesse essere cosÃŒ felici in questo stato, e l'unica pena che ho È quella di essere regina, che mi opprime ».

La povera regina perÃ’ era molto malata e morÃŒ di tu­bercolosi poco dopo aver dato alla luce un figlio il 16 gen­naio 1836. Tale figlio, chiamato dal popolino « 'o figlio d'a Santa » fu poi il re Francesco II, l'ultimo dei Bor-boni di Napoli.

Carlo Alberto, re di Sardegna, cugino di Maria Cri­stina aveva a suo tempo scritto a Ferdinando II per dis­suaderlo dal fare concessioni ai liberali; e seguitando a temere che Ferdinando II avesse intenzioni di mettersi alla testa di un movimento di unificazione dell'Italia e ben sapendo che molti liberali, anche della Val Padana, a lui pensavano a tale scopo, dava istruzioni al Cav. Au­gusto Sartirana, inviato a Napoli come ministro plenipo­tenziario del regno di Sardegna presso la Corte di Napoli, di avvicinare la Regina Maria Cristina affinchÈ inducesse il marito a rinunciare ai progetti che gli venivano attri­buiti e quindi a non abbandonare la causa delle mo-narchie per quella dei popoli, a restare fedele alla Santa Alleanza e a non ascoltare le voci moderniste che veni­vano dalla Francia. Ma il Sartirana non riuscÃŒ ad avvicinare la regina ed allora ne diede incarico a padre Terzi, confessore di Ma­ria Cristina; perÃ’ data la malattia della Regina, tali ma­neggi sotterranei quanto ipocriti non approdarono a nul­la. Questo episodio, storicamente vero, dimostra come la propaganda di parte si sia servita, in ogni tempo, di bugie per esaltare o per diffamare chiunque, pur di raggiungere determinati scopi. Per la nascita del principe ereditario, il Re Ferdinan­do II concesse un'amnistia ai compromessi politici, di guisa che molti furono i patriotti meridionali espatriati che rientrarono in tale occasione nelle Due Sicilie, dopo quelli che giÀ .avevano usufruito della precedente amni­stia del dicembre 1830.

Nel 1836 e nel 1837 tutta l'Italia fu funestata dal colera; nel Veneto si ebbero 25.000 morti.

Nel 1836 a Napoli in due mesi si ebbero 4444 morti e nel 1837 il morbo crebbe di violenza. In Sicilia il malcontento divenne fortissimo inquantochÈ tutti attri­buivano l'estendersi del morbo agli agenti segreti dei governo di Napoli che col colera avrebbe messo la Sicilia a terra, vendicandosi cosÃŒ delle congiure politiche di quel­la popolazione. Si ebbero tumulti a Messina, Catania, Siracusa, Palermo ed anche in centri minori.

Anche nel Napoletano il colera suscitÃ’ sospetti contro ipotetici avvelenatori e a Cosenza si approfittÃ’ dell'anor­male situazione per tramare una sollevazione onde pro­clamare il governo costituzionale, tentando anche di libe­rare i detenuti per reati comuni.

Molti furono gli arrestati e molti i condannati. Nel gennaio del 1838 una speciale commissione giudicatrice concluse il suo lavoro sminuendo la portata dei fatti de-nunziati dalla polizia; la maggior parte degli arrestati fu rimessa in libertÀ e tra essi Carlo Poerio.

Altri tentativi insurrezionali avvennero in Abruzzo e

furono condannati a morte otto cittadini e altri a lunghe pene di carcere. Si disse, a commento di quanto era av­venuto, che Ferdinando II avrebbe abbandonato la via della clemenza usata fino ad allora, per dimostrare all'Au­stria che non c'era bisogno delle truppe austriache e che il governo Napoletano era in grado di rimettere l'ordine con le proprie forze.

Nel 1842 Settembrini, non potendo per ragioni poli­tiche insegnare dalla cattedra governativa, si dedicÃ’ al­l'insegnamento privato e collaborÃ’ col marchese Basilio PuotÃŒ, organizzatore di una scuola privata. Il marchese Puoti scrisse una volta a Settembrini una lettera della quale È doveroso ricordare il seguente brano: « Pare piccola cosa quella che io fo, ma quando sarÃ’ morto la intenderete. Se io vi dico di scrivere la vera lingua ita­liana, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente e avere in cuore la Patria nostra. Tu vedrai altri tempi, e spe­riamo che farai intendere ciÃ’ che io ho tentato di fare, e non dimenticherai l'amico della tua giovinezza ». Anche Francesco De Sanctis, uscito dalla scuola libera del Puoti, si era dato all'insegnamento libero ed aveva raccolto in­torno a sé una eletta schiera di giovani, continuando cosÃŒ l'opera del suo vecchio maestro.

A Napoli si era trasferito il poeta Giacomo Leopardi, il quale visitÃ’ la scuola del Puoti e si legÃ’ di amicizia col De Sanctis e a Napoli fece uscire un'edizione di sue poesie ed una di prose filosofiche.

Il 9 febbraio 1837 Ferdinando II aveva sposato in seconde nozze la principessa austriaca Maria Teresa con la quale visse felicemente e fedelmente, avendone in cambio la piena comprensione e la felicitÀ di ben undici figli, che voleva vedere sempre intorno a sé e dai quali si allontanava a malincuore quando doveva intraprendere qualche viaggio per i suoi doveri di sovrano.

Il matrimonio di Ferdinando II con la principessa austriaca fu molto gradito alla corte di Torino, inquantochÈ detta corte era stata molto in ansia, dato che si era cre­duta cosa certa il matrimonio di detto Re con una delle figlie del Re Luigi Filippo di Francia. Se ciÃ’ fosse avve­nuto, sarebbe stato sicuro un indirizzo costituzionale del governo delle Due Sicilie ed una sua dipendenza dalla Francia. Ma sposando il Re una principessa austriaca, sva­niva ogni timore per la diplomazia sarda, perché in tal modo non solo a Torino ma anche a Napoli la reazione poteva considerarsi vittoriosa.

In questo periodo di tempo si iniziÃ’ un completo cam­biamento della politica inglese nei confronti del regno delle Due Sicilie. Napoleone era scomparso e nel Medi­terraneo la Francia non poteva dare eccessive preoccupa­zioni all'Inghilterra, la quale inoltre, con Gibilterra e l'ormai definitivo possesso di Malta (tolta ai Borboni), aveva delle splendide basi navali.

In Sicilia esisteva una grande ricchezza appetita da tutto il mondo: lo zolfo siciliano. La produzione era tutta riservata all'Inghilterra, ma negli anni 1836-37 e 38 la produzione delle miniere di zolfo era enormemente au­mentata e i prezzi subirono una forte diminuzione.

Il governo napoletano al fine di rimediare a tale in­conveniente stipulÃ’ un contratto monopolistico con una Compagnia francese; l'Inghilterra aveva avuto sentore di quanto era avvenuto, e richiamandosi ai trattati anglo­siciliani del 1816 e del 1817 informÃ’ il governo napo­letano che non poteva non protestare per quanto era avvenuto. Si tentÃ’ di comporre la divergenza con un trattato di commercio anglo-siciliano, ma Ferdinando II resistette. Nel 1840 l'ambasciatore inglese a Napoli chiese in modo perentorio che il contratto del 1838 fosse immediatamente risoluto e i capitalisti inglesi indennizzati delle perdite subite in quegli anni, minacciando, in caso contrario, severe misure da parte dell'Inghilterra. Ferdi-

nando II a commento dell'intimazione inglese dichiarÃ’: « io mi fido piÙ nella forza del diritto, che nel diritto della forza » e iniziÃ’ una politica dilatoria accompagnata dall'armamento di fortezze marittime e dal ricorso a Vien­na, Berlino e Pietroburgo, affinchÈ quei governi lo aiutas­sero in via diplomatica.

Ma non soddisfatto dell'azione di quei governi, Ferdi-nando II si rivolse al Re di Francia Luigi Filippo, dato che navi inglesi avevano cominciato a predare navi bat­tenti bandiera siciliana trasportandole poi nel porto di Malta, e ordinÃ’ il sequestro di tutte le navi inglesi anco­rate nei porti delle Due Sicilie. Immediatamente gli Inglesi reagirono mandando loro unitÀ a catturare navi ancorate nei porti napoletani e si­ciliani. Oltre a ciÃ’ il governo di Sua MaestÀ britannica presentÃ’ un ultimatum, intimando il rilascio dei navigli inglesi. Con l'intervento di Luigi Filippo fu stabilito che si annullasse il contratto con la Compagnia francese e si indennizzassero gli Inglesi per le spese fatte e per gli utili mancati e rimessi la produzione e il commercio degli zolfi nello stato in cui si trovavano precedentemente.

Da tutta questa avventura Ferdinando II uscÃŒ demora­lizzato e i suoi sentimenti verso l'Inghilterra comincia­rono a mutare e divennero ben diversi da quelli che nu­trirono i suoi nonni. Di lÃŒ a pochi anni, perÃ’, ebbe la soddisfazione di ricevere un pubblico elogio al Parla­mento britannico ove fu riconosciuto come uno dei re­gnanti europei tra i quali illuminati dell'epoca. Lord Peel, il grande statista inglese, dichiarÃ’ che « il governo napo­letano È stato uno dei governi che si È affrettato a seguire questa linea politica commerciale ( liberistica ). Debbo dire, per rendere giustizia al Re di Napoli, che ho visto un documento scritto di sua mano e questo documento racchiude principi tanto veri quanto quelli sostenuti dai piÙ illuminanti di economia politica ».

Questo alto riconoscimento concorda con una testimo­nianza riferita dal Nassam senior, economista britannico, secondo la quale il re sarebbe stato in materia commer­ciale di tendenze piÙ liberistiche dei suoi ministri contro i quali egli avrebbe combattuto la battaglia del libero scambio.

Negli anni susseguenti i governanti inglesi cambiarono di opinione rispetto a Ferdinando II e in modo partico­lare il presidente Lord Palmerston; questi era soprat­tutto mosso dal dispetto di veder negato da Ferdinan­do II al fratello Don Carlo di Borbone Due Sicilie, prin­cipe di Capua, il permesso di sposare la signorina Pene­lope Smith protestante irlandese e nipote dello stesso Lord Palmerston. Gli sposi fuggirono a Malta privati di ogni ricchezza dovuta al rango dello sposo il quale, da Malta, congiurava contro il fratello.

Quindi fra zolfo, matrimoni sbagliati e mancanza di necessitÀ dell'uso dei porti delle Due Sicilie, data l'occu­pazione abusiva di Malta, molti e di vario ordine erano i motivi dell'ostilitÀ britannica verso il regno di Ferdi­nando II.

In ultimo, È passato alla storia come uno dei princi­pali denigratori del regno borbonico, Lord Gladstone il quale, con una frase ad effetto ma ingiusta, dopo aver visitato le prigioni napoletane, definÃŒ quel governo, come la « negazione di Dio ».

Ora tutti sanno che per trovare prigioni orride non era necessario spingersi fino a Napoli, bastava soffermarsi allo Spielberg o ai Piombi di Venezia o nelle cittadelle del regno sardo. A questo proposito basterebbe leggere quanto Camillo Cavour scrisse nel suo diario (1833-1834) circa le prigioni di Cagliari8.

E per finire sulle accuse inglesi a carico dei Borboni di Napoli È bene ricordare quanto il signor Chandler, rap­presentante diplomatico degli Stati Uniti a Napoli, scriveva il 15 aprile 1860 al Segretario di Stato Caas: «la nazione che in India ha appena terminato la piÙ sangui­nosa serie di esecuzioni e di massacri che il mondo ab­bia conosciuto dal secolo quattordicesimo in poi, (ossia la Gran Bretagna), È piena d'orrore nell'udire che il Re di Napoli imprigiona i suoi sudditi per delitti politici ». G. M. Trevelyan, nella « Storia d'Inghilterra nel se­colo XIX » dice: « Ancora nel 1842 la Commissione rea­le delle miniere, che per prima gettÃ’ luce sulle condizioni di lavoro dell'Inghilterra sotterranea, ebbe questi dati da una donna del Lancashire, lavorante in una miniera di carbone con altre donne e con bambini anche sotto i cinque anni che lavoravano al buio per la durata di quat­tordici ore: « Porto una cintura e una catena che mi passa tra le gambe e devo camminare a quattro zampe. L'acqua mi arriva in cima agli stivaloni; me la sono vista anche sino alle cosce. Dalla fatica del tirare sono tutta scorti­cata. La cintura e la catena ci fanno soffrire di piÙ quan­do siamo incinte ». Venne scoperto anche che bambini sotto i cinque anni lavoravano al buio ».

Inoltre a pagina 382 della stessa opera, a proposito delle tristi condizioni nelle quali era lasciata l'Irlanda, si legge quanto segue:

« Per la fame la gente scappava da quell'isola per tro­var vita negli Stati Uniti e il diciassette per cento moriva nel viaggio. Dal 1849 al 1856 si ebbero, per la fame, cinquantamila famiglie espulse dalle case; e non venivano aiutate ad emigrare, ma letteralmente buttate fuori dal-l'Irlanda. Tale esodo avvenne in tali condizioni politiche e sociali che i discendenti degli immigrati in America di­vennero naturalmente nemici ereditari della Gran Bre­tagna ».



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