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IL REGNO DI SARDEGNA DAL 1821 AL 1823

Storia



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IL REGNO DI SARDEGNA DAL 1821 AL 1823

Dopo i moti del 1820 nel Regno delle Due Sicilie e quelli del 1821 nel Piemonte, in tutta l'Italia si ebbero cospirazioni, tumulti, arresti e condanne. Sia il Regno Lombardo-Veneto, sia i ducati di Parma e di Modena, sia lo Stato Pontificio, furono teatro di incarcerazioni, persecuzioni, esilio e condanne a morte. Pareva che i reg­gitori di tali stati, sotto l'incitamento e la protezione del­l'Austria, facessero a gara tra di loro in bestiali perse­cuzioni contro i generosi patrioti che amavano e propa­gandavano la libertÀ e l'indipendenza italiana. Il lettore che volesse documentazioni in proposito puÃ’ farlo con­sultando i volumi della « Storia del Risorgimento e del­l'unitÀ d'Italia » dello storico Cesare Spellanzon.



Ma questo nostro studio vuole limitarsi a mettere in evidenza la storia del Regno di Napoli e la storia del Re­gno di Sardegna;questo perché, per partito preso, si È sempre esagerato nelle critiche verso il regno borbonico e i suoi abitanti, e si È sempre esaltato tutto quanto av­venne nel regno di Sardegna, nascondendo o sminuendo quanto in esso si verificÃ’ di criticabile e di condannabile. Ma la dinastia dei Savoia, specialmente per quanto fu operato dal Re Vittorio Emanuele II, ha tali meriti ed ha tale incontestabile diritto alla riconoscenza nazionale, che il nascondere quando fu fatto di errato e di riprove­vole nel Regno di Sardegna, dopo che i Napoletani ave­vano dato inizio al movimento liberale italiano, si tramu­terebbe in una diminuzione dei meriti di tale dinastia co­me se essa avesse bisogno di nascondere gli errori per avere il diritto alla riconoscenza nazionale. Sta di fatto che tutti i governi europei erano reazionari, e per gli stessi regnanti, anche i piÙ illuminati, era difficile, se non im­possibile, capire quello che era giusto e quello che era ingiusto, e solo attraverso una maturazione, anche dolo­rosa, poterono arrivare a comprendere la veritÀ. Ma È doveroso e necessario, per arrivare alla vera unitÀ morale italiana, distruggere una buona volta la leggenda di bar­barie a carico di uno Stato o di una dinastia e le leg­gende di dinastie e di Stati sempre perfetti e superiori ad altri per lungimiranza, per patriottismo e per moder­nitÀ di strutture economiche e per una maggiore effi­cienza commerciale e industriale; cose contrarie alla veritÀ, questo, del resto, È lo scopo del presente studio che ha pertanto un fine di giustizia.

Tutto ciÃ’ ricordato, ancora una volta, È bene esami­nare l'operato del Re Carlo Felice e poi del Re Carlo Alberto dopo i moti del 1821. Quando Carlo Felice, mandato in esilio il principe Carlo Alberto, rientrÃ’ a Torino, non ebbe accoglienze calorose e durante il suo regno fu chiamato comunemente « Carlo Feroce ».

Tale nomignolo aveva avuto origine dagli atteggia­menti, veramente feroci di tale regnante, per tutto quanto sapeva di novitÀ in materia politica.

Di lui si ricordava come nel 1791, essendo scoppiati a Torino dei tumulti studenteschi, lui scrivesse all'asses­sore del Vicariato: « se essi si ostinano a riunirsi, bi­sogna arrivare alla carneficina, che È l'unico sistema ».

E mentre era viceré di Sardegna scriveva al proprio fra­tello, il Conte di Moriana, spronandolo a proposito di un certo Sullis per il quale si facevano tentativi di gra­zia: « io temo che si tenti di evitare l'impiccagione e le mani mi prudono per la voglia d'impiccare », e due gior­ni prima aveva scritto: « spero che gli assassini saranno impiccati; impicca, impicca, cosÃŒ va bene», e poi, «quan­to all'assassino ammazza ammazza, ammazza; questo va bene per il riposo del genere umano», e poi ancora «so­no dispiaciuto che ci sia un complotto, ma fai impiccare: non c'È altro sistema ». E finalmente in un proscritto, in un'altra lettera al fratello: « dimenticavo di dirti che qui la giustizia va bene, perché ogni quindici giorni si impicca un uomo ». E infatti durante il periodo nel quale Carlo Felice fu viceré in Sardegna vi furono nel­l'isola, nello spazio di soli nove giorni, piÙ impiccagioni di quelle che ci fossero state durante dieci anni in tutto il regno sabaudo.

Carlo Felice vedeva nel potere assoluto il solo modo di governare e per lui tutti i fautori di novitÀ nell'ordi­namento statale erano uomini perversi e traditori.

Massimo d'Azeglio scrisse poi nel suo bellissimo libro « I miei ricordi » alcuni periodi che fotografano la situa­zione del modo di vivere nel Regno di Sardegna; eccoli: « Era un dispotismo pieno di rette ed oneste intenzioni, ma del quale erano rappresentanti ed arbitri quattro vec­chi ciamberlani, quattro vecchie dame d'onore, con un formicaio di frati, monache, preti e gesuiti ».

« Per chi aveva fÃŒssi nel cuore, elementi di libertÀ, fosse pure limitata, misurata, ordinata, disciplinata quan­to si vuole, ma alla fine di libertÀ e di vivere libero, per chi non poteva rassegnarsi a mangiare, bere e dormire senza mai alzare gli occhi dalla vita trista, Torino era un ambiente di piombo, una specie di mancanza d'aria re­spirabile, da non potersi descrivere ».

Il Re Carlo Felice al congresso di Verona, dove si in­contrarono i rappresentanti delle potenze della « Santa Alleanza », cercÃ’ nuovamente di ottenere un provvedi­mento che togliesse a Carlo Alberto la qualitÀ di suc­cessore al trono di Sardegna; ma Mettermeli si oppose a tale proposta e tutte le altre potenze si unirono nell'op­posizione alla proposta di Carlo Felice. Carlo Alberto dal suo esilio di Firenze scrisse varie volte al Re ma non ne ebbe mai risposta. Scrisse poi un memoriale in propria difesa, accusando nello stesso tempo i ministri di Vit­torio Emanuele I di inettitudine e quasi di tradimento; e gli accusati, venutine a conoscenza, ritorsero le accuse inferocendo contro l'esiliato.

La Corte torinese affermava che l'accusa e la condanna fossero insite nelle stesse parole del Carignano, in quan-tochÈ egli ammetteva di avere avuto rapporti con i con­giurati e di essere stato al corrente della congiura senza denunciarla al Re. D'altra parte gli esuli piemontesi la­mentavano che fra tante condanne inflitte ai congiurati non figurasse quella del Principe che avrebbe dovuto es­sere il primo dei condannati.

Il Carignano, in tali tristi vicende, divenne ostenta-tamente religioso; ma Carlo Felice non approvÃ’ tale at­teggiamento, tanto che, scrivendo al fratello Vittorio Emanuele I diceva: « È una vipera in letargo per il fred­do; appena si sarÀ riscaldata morderÀ con maggiore vee­menza perché sarÀ animata dallo spirito della vendetta; quand'anche facesse tutte le penitenze di un anacoreta e si frustasse a sangue con la disciplina, non ci si potrÀ ancora fidare della sua sincera conversione, data la sua capacitÀ di simulazione ».

Al Papa, che aveva scritto al Re Carlo Felice consiglian­dolo alla clemenza, detto Re rispondeva: « segretamente sono in dovere di palesare a Vostra SantitÀ, col mio piÙ grave rammarico, che ho ancora presentemente le prove

della di lui falsitÀ ». D'altra parte Gino Capponi, genti­luomo toscano di grande dirittura, scrivendo al Tomma-seo cosÃŒ si esprimeva: « tutti ridono al vederlo inginoc­chiato in istrano modo perché quel suo ostentato fervore religioso È giudicato ipocrisia sfacciata e manifesta ».

Insomma il Carignano si veniva a trovare nelle condi­zioni di chi, avendo sbagliato, vede accanirsi contro la propria persona l'incredulitÀ e la cattiveria umana; cosa che È sempre accaduta e sempre accadrÀ. Carlo Alberto in tale triste situazione pensÃ’ di riscattare il proprio ono­re dando una prova decisiva del suo pentimento e del suo attaccamento alle forze reazionarie recandosi volontaria­mente a combattere contro i liberali spagnoli insorti per­ché quel governo aveva dichiarato decaduta la costitu­zione concessa nel 1820.

Ottenuto il permesso di Carlo Felice, il Carignano si imbarcÃ’ a Livorno il 2 maggio 1823 sulla fregata « II Commercio » e raggiunse la Francia e poi Madrid, incor­porato nel corpo di spedizione francese che combatteva gli insorti. Dalla Spagna il principe scriveva ai suoi amici di Torino lettere nelle quali « inveiva contro la vile marmaglia rivoluzionaria, e si rallegrava che la popola­zione desse la caccia agli insorti come a cani rabbiosi ». PartecipÃ’ all'assalto del Trocadero, ultimo baluardo dei rivoluzionari e si comportÃ’ da buon combattente dicendo al proprio generale « Spero che il Re sia, questa volta, contento di me ». Dopo qualche mese e dopo infinite tergiversazioni il Re di Sardegna mandÃ’ a Parigi il pro­prio incaricato, marchese Alfieri, che presentÃ’ a Carlo Alberto un documento da firmare. Con tale documento il Principe si impegnava a rispettare e mantenere religio­samente, allorché sarebbe giunto al potere, tutte le leggi fondamentali della Monarchia ecc. ecc. e il 7 gennaio 1824 Carlo Felice annunciÃ’ che il Carignano sarebbe tor­nato a Torino.

Con l'intervento dell'imperatore d'Austria, il Re di Sar­degna ridiede al principe il titolo di successore al trono, dopo di che Carlo Alberto non faceva passare occasione per dimostrare la sua avversione per i liberali, i quali lo ripagavano con ugual moneta e il poeta Giovanni Berchet pubblicava a Londra una romanza patriottica nella quale si leggevano i seguenti versi:

Esecrato Carignano

Va il tuo nome in ogni gente

Non v'È clima sÌ lontano,

Ove il tedio, lo squallot,

La bestemmia di un fuggente

Non ti annunzi traditor

E i versi del Berchet venivano clandestinamente intro­dotti in Italia ed eccitavano gli animi, mentre a Genova il giovane Giuseppe Mazzini studente universitario che non partecipava alla vita gaia e spensierata dei suoi coe­tanei, ma conduceva una vita solitÀria e cogitabonda, maturava dentro di sé un proprio sistema politico-sociale. La serietÀ con la quale l'animo e l'ingegno del giovane pensatore partecipavano a tali elocubrazioni e a tali studi faceva sÃŒ che le recondite mete che Mazzini voleva rag­giungere superassero di mille cubiti quelle degli spiriti meno elevati, dando cosÃŒ al proprio pensiero una nobiltÀ ed  una elevatezza che avevano qualcosa di religioso.

Gli anni 1824 e 1825 rimarranno famosi nella storia europea per la rivoluzione greca contro il dominio turco e per la partecipazione di molti esuli piemontesi e napo­letani a quelle cruente battaglie. Nel 1824 il poeta in­glese Lord Byron moriva a Missolungi ( in combattimento secondo la leggenda, ma di indigestione secondo i testi­moni) e nel 1825, circondato dagli amici Collegno, Pietro Torella, Antonio Pecorara e dal generale napoletano Giu­seppe Rossarol, nell'isola di Sfacteria cadeva da prode Santorre di Santarosa.

Nel 1827 Giuseppe Mazzini, sebbene non ne fosse en­tusiasta, si iscrisse alla Carboneria. Nell'ottobre 1930 un membro autorevole di tale setta, denunciava gli associati al Governatore di Genova, rivelandone i vari programmi di attentati e di sommosse che avrebbero dovuto verifi-carsi entro poco tempo.

Il 13 novembre 1830 furono arrestati i seguenti car­bonari: Passano, Mazzini, Antonio Doria libraio, Pietro Torre, Gaetano Morelli, Cesare Leopoldo Bixio e Gerva-sone, i quali furono rinchiusi nella prigione di Savona. Il 9 agosto del 1830, a processo ultimato, furono assolti tutti tranne il Passano che era corso e quindi espulso e mandato in Francia, e il Mazzini che, condannato all'esi­lio, andÃ’ a Ginevra e poi a Lione.

Nel 1831 l'esule Mazzini iniziÃ’ la costituzione di una nuova associazione, ossia la « Giovine Italia », la quale pur traendo dalla Carboneria molti elementi formali, do­veva raccogliere intorno a sé i piÙ ardenti, i piÙ risoluti, i piÙ animosi patriotti delusi dai numerosi insuccessi del­la Carboneria.

Poco dopo la morte di Carlo Felice a Torino, veniva scoperta un'associazione di impronta massonica della qua­le facevano parte tra gli altri, Angelo Brofferio, i fratelli Angelo e Giovanni Durando, il medico Anfossi, il chi­mico Balestra e il sottotenente Ignazio Ribotty il quale ultimo aveva rivelato l'esistenza dell'associazione che provvedeva alla diffusione di stampe rivoluzionarie e po­teva fare assegnamento su numerosi ufficiali del regio esercito.

Carlo Alberto decise d'autoritÀ di mandare liberi dopo qualche mese tutti gli arrestati tranne Bersani che fu rinchiuso a Fenestrelle e una ventina di ufficiali che fu­rono destituiti.

Nel 1833 a Torino, in seguito ad una rissa tra il ser­gente Girolamo Allemandi del 2' Granatieri e il furier maggiore Sebastiano Sacco dello stesso corpo, ma di stan­za a Genova, il Sacco riportava una ferita e PAllemandi denunziava al suo colonnello che in una trattoria frequen­tata dal Sacco si mangiava e si beveva senza pagare e si complottava al fine di nominare Re d'Italia il Re di Sardegna. Tali affermazioni unite a dichiarazioni simili, fatte dai sergenti Poggi, Aimini e da altri, dettero la sensazione alle autoritÀ di essere sulle tracce di una grave cospirazione sia in Piemonte che in Liguria.

In seguito ad indagini eseguite a Genova si procedette all'arresto del sottufficiale Biglia, del medico Castagnino, del maestro di scherma Gavotti, del commesso di negozio Noli, e dei fratelli Jacopo, Agostino e Ottaviano Ruffini, mentre l'altro fratello Giovanni poteva evadere per via mare. Contemporaneamente ad Alessandria il sergente Seguret provocava, con le sue rivelazioni, l'arresto degli avvocati Andrea Vochieri e Giovanni Girardenghi, e di cinque furieri della brigata Cuneo, tali Menardi, Costa, Rigasso, Viora e Ferraris e del tenente Paolo Vivaldi Piana via.

Era Governatore di Alessandria il generale Gabriele Galateri di Genova che È passato alla storia per la sua crudeltÀ e i suoi istinti di raffinato carnefice, istinti in lui rafforzati da una lettera inviatagli dal ministro degli interni a nome del Re. In tale lettera si leggevano le seguenti frasi: « se le investigazioni portassero alla sco­perta di qualche colpevole, V.E. non deve esitare a sot­tometterlo ad un Consiglio di guerra e fare eseguire la condanna a morte, usando della dignitÀ di Governatore e delle facoltÀ straordinarie accordate dal Biglietto Reale del 5 marzo 1832 ».

Anche a Chambery si erano scoperte tracce di congiura.

Le prime condanne e le prime fucilazioni ebbero luogo

in quella cittÀ ove vennero arrestati un vecchio generale

di anni sessanta e venticinque tra ufficiali, sottufficiali e

borghesi. Il 20 maggio 1833 furono condannati a morte ignominiosa Giuseppe Tamburelli, Battista Canale e Gio­vanni De Gubernatis. Ma solo il Tamburelli fu trascinato in piazza d'armi e fucilato nella schiena, mentre gli altri due ebbero grazia e condannati a solo vent'anni di reclu­sione, avendo fatto la spia.

Si narra che Carlo Alberto, dolendosi col ministro Pes di Villamarina dell'umile condizione dei condannati di Chambery, dicesse: « non È bastevole esempio il sangue dei soldati subalterni, pensate a qualche ufficiale ».

Il 10 giugno il Consiglio di Chambery condannava i tenenti Manfredi e Muzio a qualche anno di carcere e il luogotenente Efisio Tola a morte. Il Tola, sardo e di animo forte e generoso, disse ai giudici: « Voi versate sangue innocente, ma vi insegnerÃ’ io come si debba e si sappia morire; la vendetta, sotto forma di giustizia mi vuole morto, e morrÃ’; non sono reo, né ho compiici, e seppure ne avessi, né il nome sardo, né il mio, farei prezzo di tanta infamia e di tanta pietÀ ».

Il luogotenente Nicola Arduino riusciva invece a pas­sare il confine francese. Il 18 giugno il Consiglio di Guer­ra faceva arrestare il caporale Alamano e il sergente Ca-biati e condannava poi a qualche anno di carcere tre caporali e due sergenti, ma faceva fucilare nella schiena il furiere Alessandro De Gubernatis.

Ad Alessandria il generale Galateri, uomo di principi retrivi e che durante il periodo napoleonico aveva pre­stato servizio nell'esercito dello Zar, caduto Napoleone, era tornato in Piemonte e dal 1824 era divenuto Gover­natore della provincia di Alessandria. Si interessava del modo di vestire dei sudditi e delle loro barbe e dei loro baffi e godeva nello svegliare la popolazione con improv­visi e notturni rulli di tamburi.

Tra gli arrestati ad Alessandria, un certo Menardi tradÃŒ i compagni e poi il sergente Viora fece altre rivelazioni insieme ad un certo Ferraris. L'avvocato Andrea Vochieri, come altri detenuti, fu fatto oggetto di atroci torture fi­siche e morali ma non fece rivelazioni e scrisse, prima di morire, una lettera alla moglie e ai figli che È rimasta come un nobilissimo esempio di elevatezza d'animo, di altezza d'ingegno e di forte carattere.

In varie riprese, fino a poche ore prima della pena ca­pitale, venne sollecitato dagli scherani del Galateri a fare rivelazioni su altri complici per avere salva la vita; le sollecitazioni si ripeterono nella notte, svegliandolo al­l'improvviso e poi infine durante il percorso verso la piazza d'armi dove doveva essere fucilato. Vochieri ri­spose: « andiamo » e affrettÃ’ il passo.

La fucilazione fu eseguita da undici uomini scelti tra gli aguzzini e i guardiaciurme addetti alla Catena Militare.

Anche a Genova l'inquisizione militare procedeva con alacritÀ, continuamente sorvegliata e sollecitata dal Re e dai suoi ministri. Nella notte del 18-19 giugno 1833 Jacopo Ruffini fu trovato morto nella sua cella, mentre Gavotti Biglia e Miglio furono condannati a morte igno-miniosa. L'imputato Girardenghi rivelÃ’ altri nomi di con­giurati di VogherÀ, Asti, Garlasco, Alessandria, Tortona e Genova. Il Consiglio di Guerra il 5 settembre condan­nava a morte altri due congiurati ossia il marchese Carlo Cattaneo di Belforte unitamente al delatore Girardenghi che aveva tradito i compagni per salvare la propria vita. Ci fu poi un altro delatore nella persona di Giovanni Re detenuto in Alessandria il quale fece il nome di Primo ed Emilio Barozzi di Pavia, dell'avvocato Pio Picchioni di VogherÀ e dell'avvocato Girolamo San Pietro di Naz-zano, i quali furono subito fatti arrestare dal Galateri; il Re conosciuti anche i nomi di cospiratori lombardi li fece denunziare dal Governo di Torino a quello di Milano. Il Giovanni Re rimesso in libertÀ riuscÃŒ a fuggire in Sviz­zera da dove dichiarÃ’ che tutte le sue denuncie erano

false e che aveva dato venti luigi d'oro al tenente Ra-pallo e tale somma fu sufficiente per corrompere il su­premo presidente conte di Cimalla. A Torino, Genova, Nizza ed Alessandria furono pronunciate altre sentenze e qualche condanna a morte ma solo contro contumaci. Oltre a Jacopo Ruffini, anche Lorenzo Boggiano si uc­cise in carcere e tutte queste vittime dettero un tragico e glorioso battesimo alla « Giovine Italia » mentre oltre duecento persone riuscirono a varcare il confine accre­scendo la moltitudine dei fuorusciti che vivevano lontani dalla Patria.

Re Carlo Alberto, ricevendo l'ambasciatore austriaco Enrico de Bombelles, gli diceva di « essere ben convinto di voler seguitare, senza paura e senza misericordia, la persecuzione dei cospiratori e soprattutto verso coloro che li dirigono »; parole che fecero impressione non fa­vorevole allo stesso austriaco. Inoltre il Re scrisse al Galateri di proprio pugno all'indomani della fucilazione di Andrea Vochieri: « Mio caro, sono soddisfatto del vo­stro operato e mi riserbo di testimoniarvi la mia soddi­sfazione ». E infatti l'anno seguente lo insigniva del Col­lare dell'Ordine dell'Annunziata.

Nel tempo trascorso tra la lettera indirizzata al Gala­teri e la concessione del Collare, Re Carlo Alberto in data 10 luglio 1833 scriveva a Ferdinando II Re delle Sicilie, (che era in fama di idee liberali e riformatrici e verso il quale si volgevano tante italiche speranze) quali e quanti fossero i pericoli che minacciavano i troni e quindi lui (Ferdinando II) avrebbe dovuto essere piÙ severo, inesorabile, con i seguaci della «Giovine Italia», seguendo cosÃŒ il suo esempio.

Inoltre lo informava che lo scopo di una setta, sco­perta dopo la morte di Carlo Felice, era quello di assas­sinare lui, Carlo Alberto, di notte nel suo appartamento.

Del resto anche quegli storici che hanno narrato di questo fosco periodo piemontese, con sentimenti favore­voli alla Casa regnante, non hanno esitato a deplorare la continua ingerenza del Re in quei processi. E Cesare Balbo, devotissimo a Carlo Alberto scrisse che la rapressione pie­montese del 1833, «giusta in sé, era stata ingiusta nelle forme e negli eccessi»; come pure Luigi Cibrario, legato al Re di Sardegna da una ventennale consuetudine di rapporti amichevoli, dopo la sua morte scrisse che il Re « fu infelice nella scelta di coloro che deputÃ’ ad am­ministrare od a promuovere quelle severe giustizie ».

Il teologo Vincenzo Gioberti aperto alle nuove idee fu arrestato a Torino il 31 maggio del 1833 e rinchiuso nella cittadella, ma dopo una lettera di sottomissione gli venne concesso di andarsene in esilio in Francia.

Giuseppe Garibaldi, infine, marinaio della Marina Sar­da, presentendo il proprio arresto, quale appartenente alla « Giovine Italia », riuscÃŒ ad espatriare passando a nuoto il fiume Varo che divideva il territorio di Nizza dalla Francia. E cosÃŒ tra i condannati a morte in contu­macia, al nome di Giuseppe Mazzini si unÃŒ quello di Giuseppe Garibaldi. Se tali condanne a morte avessero potuto veramente effettuarsi, il destino dell'Italia sarebbe stato molto diverso e soprattutto molto infelice.

Abbiamo visto come effettivamente stessero le cose politiche nel Regno di Sardegna. Stavano come stavano negli altri Stati che componevano la carta politica del territorio italiano. Dappertutto, anche nello Stato Ponti­ficio, chi pensava liberamente non poteva e non doveva vivere. Forse nel ducato di Modena e nel Lombardo-Veneto si ebbero maggiori crudeltÀ, ma fosse lo Stato, austriaco o borbonico, o sardo, martiri per la libertÀ ce ne furono ovunque: nel regno di Sardegna ci fu crudeltÀ unita all'ipocrisia; ipocrisia che nel Regno delle Due Si­cilie era sostituita da un paternalismo popolaresco certa­mente meno odioso della transalpina doppiezza 7.



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