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IL REGNO DI SARDEGNA NEL 1821

Storia



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IL REGNO DI SARDEGNA NEL 1821

Narra lo storico Cesare Spellanzon, nel volume primo della « Storia del Risorgimento italiano », come il moto costituzionale di Napoli non aveva lasciato fredda ed in­differente l'Italia. « Ovunque il desiderio di imitare i Napoletani prese consistenza, soprattutto per aiutare e sorreggere la libertÀ del Mezzogiorno; e si ebbero cosÃŒ manifestazioni nelle Marche, nell'Emilia, a Lucca e nel­l'isola d'Elba; ma gli avvenimenti napoletani ebbero in­fine una maggior risonanza in Piemonte e in Lombardia».



Nel regno di Sardegna le notizie giunte da Napoli ave­vano turbato in diversa guisa lo spirito dei patriotti e quello degli avversari di ogni innovazione costituzionale. A Torino, Santorre di Santarosa deplorava « l'affermarsi della prepotenza austriaca in Italia e gli errori della re­staurazione la quale senza prudenza e saggezza aveva ri­messo in vigore i privilegi di casta, le primogeniture, i fidecommessi e piÙ ancora le fustigazioni, la tortura, la ruota, le tenaglie infuocate, tutti insomma i residui del­l'esecrata inquisizione ».

« Inoltre non si puÃ’ non ammettere (scrive ancora lo storico Spellanzon) e non vi È dubbio che la politica sabauda dal 1814 al 1846, quale fu perseguita dai re

Vittorio Emanuele I, Carlo Felice e Carlo Alberto, pa­reva veramente destinata a favorire il perpetuarsi del predominio austriaco nell'Italia, qualunque fosse l'intimo sentimento di quei principi verso il dominatore del Lom­bardo Veneto ».

La gioventÙ studentesca piemontese entrÃ’ ben presto in fermento e, come scrisse Massimo d'Azeglio, « Torino era in quello stato d'inquietudine smaniosa che provano gli ammalati alla vigilia di un'espulsione ». Oltre a que­sto, bisogna aggiungere che tutte le regioni d'Italia, nes­suna esclusa, soffrivano di una grande crisi economica e di una altrettanto grande miseria dovute alle lunghe guer­re imposte dalla megalomania militare napoleonica dopo gli anni di rivoluzione e di terrore giacobino.

Una sera del gennaio del 1821 a Torino si verificarono dei tafferugli tra alcuni studenti, che assistevano ad una recita al teatro D'Augennes, e la polizia; ed alcuni stu­denti furono arrestati. Il mattino dopo all'UniversitÀ ci fu grande fermento perché si venne a sapere che il Re aveva disposto l'invio di uno degli arrestati al forte di Finestrelle e di un altro al Castello d'Ivrea

Gli universitari si asserragliarono nell'Ateneo costruen­do anche delle barricate e il governatore di Torino, at­tesa la sera, inviÃ’ delle truppe munite di fiaccole. Nei locali universitari si arrivÃ’ ad uno scontro all'arma bianca e molte decine di giovani riportarono ferite, delle quali la maggior parte di sciabola e non di baionetta; il che dimostra che i piÙ accaniti furono gli ufficiali, nono­stante che uno di questi, Cesare Balbo, figlio del ministro Prospero, facesse tutto il possibile per difendere gli stu­denti dagli eccessi polizieschi.

A tali notizie, il Principe di Carignano mandÃ’ agli stu­denti feriti e prigionieri doni in denaro e in dolciumi ( questa ricerca di malsana popolaritÀ era nello stesso tem­po un'imprudenza — scrisse un biografo di Carlo Alberto) e cosÃŒ venne a diffondersi l'opinione che il Carignano era, con i ribelli, contro la Casa Reale.

Mentre Re Vittorio Emanuele I si affrettava a far conoscere all'Austria la sua volontÀ di non fare ai propri sudditi nessuna concessione di carattere costituzionale, Carlo Alberto dava, ai fautori di riforme liberali, l'assi­curazione di essere con loro pienamente d'accordo.

Sul cadere del giorno 6 marzo 1821 si recarono a pa­lazzo Carignano i seguenti congiurati: il conte Santorre di Santarosa, il capitano Giacinto di Collegno, il colon­nello Carlo di San Marzano ( figlio del ministro degli este­ri) e il conte Livio Moffa capitano dei cavalleggeri del re. Introdotti attraverso una scala segreta trovarono nella biblioteca del principe anche il marchese Roberto d'Azeglio. Il San Marzano assicurÃ’ Carlo Alberto che « nel moto preparato nulla di sinistro era a temersi per il Re e per la sua famiglia ». Santorre di Santarosa, uomo di grande serietÀ e di indiscutibile rettitudine, afferma che Carlo Alberto diede la propria adesione al moto proget­tato. E data la probitÀ dell'uomo, mai messa in dubbio nemmeno dai suoi avversari, ben scarso valore possono avere le successive smentite a tale riguardo.

Nessuno dei presenti al colloquio smentÃŒ mai il Santa­rosa nemmeno il d'Azeglio conosciuto per la sua onestÀ e dirittura.

Durante la notte il Carignano cambiÃ’ idea e il 7 mat­tino informÃ’ il San Marzano e il Collegno che lui ritirava la parola data. Invece la sera dell'8 marzo, lo stesso Cari­gnano dava al Santarosa e al San Marzano la conferma del suo consenso al moto rivoluzionario, e trattava con i ribelli e discuteva con essi circa i particolari da mettersi in atto. Ma in contrasto con tale atteggiamento emanava contemporaneamente ordini e disposizioni per impedire la rivoluzione. Inoltre la mattina del 10 marzo Carlo Al­berto si recava a Moncalieri per gettarsi ai piedi del Re

a chiedergli perdono di quanto aveva trescato con i ri­belli, rinnovandogli l'assicurazione della sua fedeltÀ.

Nella stessa giornata del 10 marzo la Corte fu infor­mata che i cavalleggeri di Livio Moffa si erano ammuti­nati e si erano impadroniti della cittadella di Alessandria.

Il capitano FerrerÃ’ si sollevava con centocinquanta sol­dati nel paese di San Salvario e altre ribellioni avveni­vano a Vercelli, Valenza, a Ivrea, a Vigevano e a Biella, e la cittadella di Torino cadeva il giorno 12 nelle mani di due capitani liberali. La stessa sera re Vittorio Ema­nuele I abdicava in favore del fratello Carlo Felice, no­minando « Reggente » il principe Carlo Alberto, il quale sotto la minaccia di una folla tumultuosa intorno al suo palazzo e cedendo ai consigli di alcuni nobili signori di Torino firmava il proclama annunziante la concessione della Costituzione.

Carlo Felice, il nuovo Re, ignaro di tutto quanto era successo, si trovava a Modena presso il duca Francesco IV e Carlo Alberto gli inviÃ’ il proprio scudiere Silvano Co­sta con una lettera dove erano narrati tutti gli avveni­menti che avevano portato all'abdicazione del fratello.

Carlo Felice gettÃ’ la lettera in faccia allo scudiere, con­vinto della colpevolezza di Carlo Alberto in tutta la poco chiara vicenda. Poco dopo richiamÃ’ lo scudiere e gli con­segnÃ’ un proclama alla popolazione del regno di Sardegna con il quale non riconosceva l'abdicazione del fratello, né la reggenza di Carlo Alberto (proclama che poi risultÃ’ stilato dal Duca di Modena) e disse a voce le seguenti parole: « dite al Principe che se nelle sue vene c'È ancora una goccia di sangue reale egli deve subito partire per Novara e lÃŒ aspettare i miei ordini ». Carlo Alberto, in conseguenza decise di ubbidire a Carlo Felice e di na­scosto fece i preparativi di partenza e di concentrazione di truppe anticostituzionali.

Santorre di Santarosa si presentÃ’ a Carlo Alberto ma non fu ricevuto; perÃ’ il giorno dopo Carlo Alberto no­minÃ’ il Santarosa ministro di guerra, volendo in tal modo mascherare i preparativi della sua prossima irrevocabile fuga. A notte fatta uscÃŒ da palazzo Carignano e giunto al Valentino si mise a capo del reggimento Savoia Caval­leria e raggiunse Sangermano la mattina del 23 marzo dove il generale Roberti gli consegnÃ’ una lettera di Carlo Felice con l'ordine di recarsi immediatamente a Novara. Carlo Alberto lasciÃ’ il reggimento Savoia Cavalleria al generale Roberti e proseguÃŒ da solo per Novara e ivi pub­blicÃ’ un proclama col quale rinunciava alla reggenza. Poi, ricevuto un biglietto da Carlo Felice con l'ordine di uscire dal regno e di recarsi in Toscana, ad attendervi la sua famiglia, si mise subito in viaggio.

Con la notizia della fuga di Carlo Alberto, lo scora­mento s'impadronÃŒ dei costituzionali e dopo tentativi di resistenza e l'arrivo delle truppe austriache, chiamate sin dal 22 marzo da Carlo Felice (il quale si era rivolto al­l'Imperatore d'Austria e allo Zar di Russia per averne appoggio ed assistenza) i capi dei costituzionali furono costretti ad andare in esilio affluendo a Genova per il loro imbarco. A Genova fu fatta una pubblica questua a fa­vore dei poscritti e Giuseppe Mazzini, giovinetto, che sul molo assisteva alla questua e all'imbarco di coloro che andavano in esilio lasciÃ’ scritto che: « quel giorno fu il primo, in cui si affacciasse confusamente all'anima mia, non dirÃ’ un pensiero di Patria e di LibertÀ, ma un pen­siero che si poteva, e quindi si doveva, lottare per la libertÀ della Patria ».

Nominato luogotenente del Re il conte Ignazio Thaon di Revel e nominato un tribunale per giudicare i costi­tuzionali, tale tribunale si riunÃŒ trentuno volte, dal 7 mag­gio al primo ottobre, e pronunciÃ’ settanta condanne a morte, cinque alla galera perpetua e venti a pene varianti

dai cinque ai venti anni di reclusione. Ma quasi tutti erano riparati all'estero e soltanto due tenenti e un sol­dato subirono effettivamente la pena capitale.

Avendo il re Vittorio Emanuele I confermata la sua abdicazione, Carlo Felice fu re definitivamente e di pieno diritto. Le UniversitÀ di Torino e di Genova furono chiuse per un anno e annullate tutte le lauree concesse dopo il 12 marzo del 1821, e i funzionari e i sacerdoti, setacciati minuziosamente dalla polizia, dovettero prestare un speciale giuramento di fedeltÀ al Re.

Questi poi tentÃ’ di togliere i diritti di successione a Carlo Alberto, cercando, a tale scopo, l'appoggio dell'Au­stria affinchÈ fosse dichiarato erede Francesco IV di Mo-dena, ma l'Austria si rifiutÃ’ e altrettanto fecero Russia, Francia ed Inghilterra.

La reazione trionfava e gli esuli, stanchi, spossati, mi­seri e minacciati anche al di lÀ delle Alpi dall'ira dei reazionari, facevano vita ben grama e molti di loro si preparavano per andare a combattere in Spagna e in Grecia, per la difesa di quelle idee di libertÀ che, senza fortuna, avevano esaltate e propugnate in Piemonte.



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