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LA DINASTIA DEI SAVOIA E L'UNITÀ D'ITALIA
Dopo la caduta di Napoleone, e la conseguente restaurazione degli antichi Stati, tra le varie dinastie la Casa di Savoia era la piÙ antica; regnante da circa un millennio e l'unica che vantasse, da secoli, una visione politica e un passato politico militare di carattere europeo; ed era naturale che ciÒ fosse, data la posizione geografica della sua sede.
Infatti per secoli i conti, i duchi, i principi di Savoia (poi re di Cipro, di Sicilia e infine di Sardegna) avevano partecipato da attori o da spettatori interessati a tutte le vicissitudini europee e agli scontri militari e politici che nei vari secoli si ebbero tra le maggiori potenze, ossia: Francia, Inghilterra, Spagna, Paesi bassi, Austria.
Quindi, mentre gli altri regnanti nelle varie province o stati italiani ragionavano in termini regionali o provinciali o addirittura campanilistici, la Casa di Savoia, da sempre, ragionava e operava in termini europei.
Oltre a questo, i membri della Casa di Savoia avevano dato luminoso esempio di qualitÀ militari e, senza risalire a Umberto Biancamano o al Conte Rosso o al Conte Verde, basterÀ ricordare il grande Emanuele Filiberto, detto «testa di ferro», e il grande condottiero europeo
principe Eugenio ( salvatore di Vienna dall'invasione ottomana), per avere la spiegazione storica delle virtÙ militari di tali Principi.
Ci furono nella storia risorgimentale italiana degli illusi (forse Ciro Menotti e i di lui seguaci) che proposero al re di Napoli Ferdinando II, che, ventenne, era salito al trono, di mettersi a capo di un movimento italiano di indipendenza e diventare cosÃŒ « re d'Italia ».
Ma il giovanissimo Ferdinando II, tutto preso dal grande lavoro di risanamento delle piaghe ereditate dalle guerre e dalla dominazione napoleonica, non prese nemmeno in considerazione tale proposta e la mise in ridicolo dicendo che il suo regno era per tre quarti limitato dall'acqua salata, ossia dal mare, e per un quarto (a nord) dall'acqua santa, ossia dai domini pontifici.
E se nel 1848 mandÃ’ in Lombardia il valoroso generale Guglielmo Pepe alla testa di 10.000 uomini che si coprirono di gloria a Curtatone, a Montanara, a Goito e in altri fatti d'arme, riportando ferite, morti e decorazioni al valore, lo fece, unitamente al Granduca di Toscana, senza entusiasmo e solo per seguire l'esempio di Pio IX, le cui truppe partirono contemporaneamente per la pianura lombarda agli ordini del generale Durando.
Dopo Novara, Guglielmo Pepe, con pochi volontari, corse a difendere la repubblica di Venezia, rimandando a Napoli il rimanente delle truppe borboniche. E vedremo poi le vere ragioni di questo rinvio, avvenuto unitamente a quello delle truppe toscane.
Carlo Alberto giÀ da principe ereditario aveva sofferto il dramma risorgimentale, quando, nel 1821, essendo reggente del trono, in assenza del re, d'accordo con un gruppo di militari carbonari, elargÌ la Costituzione di Spagna. Ma il re Carlo Felice sconfessÒ Carlo Alberto che dovette andare in esilio.
L'Austria, chiamata dal re Carlo Felice, mandÃ’ le sue
truppe e tutto fu rimesso nello stato di prima, ossia nello stato nel quale il Piemonte, come tutte le Nazioni d'Europa, si trovava prima delle conquiste napoleoniche.
Naturalmente, condanne a morte, carcere ed esilio ce ne furono in abbondanza. Come ce ne furono in abbondanza nel 1833, quando, salito al trono Carlo Alberto, si ebbero nuove congiure e sommosse, e in tale occasione, come vedremo in appresso, furono condannati a morte anche Mazzini e Garibaldi i quali espatriarono clandestinamente.
Ma superata tale crisi, l'orientamento liberale di Carlo Alberto, se non sempre evidente e deciso, fu fermamente ed inaspettatamente rivelato a Massimo d'Azeglio, da lui ricevuto alle sei del mattino di un giorno del 1845. Dopo che d'Azeglio gli aveva esposto le sue impressioni circa le opinioni dei liberali dell'Italia centrale e settentrionale, raccolte in un lungo viaggio in carrozza da Roma a Torino, Carlo Alberto cosÃŒ gli parlÃ’: « Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendoci per ora nulla da fare. Ma siano certi, che presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarÀ speso per la causa italiana ».
E Carlo Alberto mantenne la parola data a Massimo d'Azeglio, in segreto senza testimoni e senza esserne sollecitato, pagando poi con l'abdicazione e l'esilio il disastro della « fatal Novara ».
Il figlio di Carlo Alberto fece poi meglio e di piÙ del padre, pur non pensando, unitamente al suo ministro Cavour, alla riunione di tutta l'Italia in un solo Stato.
L'UnitÀ d'Italia era l'idea di Mazzini e veniva ritenuta un'utopia dallo stesso Cavour. Solo la folgorante marcia garibaldina da Marsala a Napoli fece comprendere in Piemonte che il sogno di Mazzini poteva diventare una realtÀ; e allora, dimenticando diplomazia e correttezza,
senza nessun preavviso, l'esercito piemontese invase gli Stati pontina e borbonici. E per l'UnitÀ della Patria ci voleva veramente quello che il destino dette all'Italia: ossia una grinta dura e una volontÀ decisa e altrettanto dura, quanto quella di Vittorio Emanuele II e il di lui coraggio unito alla sottile diplomazia del conte di Cavour.
Tutto questo ho desiderato esporre affinchÈ sia ben chiaro che se nel corso di questo studio si troveranno critiche ed osservazioni pesanti nei confronti del governo piemontese, dei suoi generali o di altre figure del Risorgimento, tali critiche ed osservazioni saranno fatte solo in omaggio alla veritÀ, non per sminuire per partito preso la gloria e i meriti risorgimentali del Piemonte e dei membri di Casa Savoia. Gloria e meriti indiscutibili che si debbono riconoscere ad una dinastia di Principi religiosissimi, tra i quali si annoverano santi e anche delle sante, riconosciute almeno per tali dalla tradizione popolare (come Maria Cristina sposa di Ferdinando re di Napoli e Maria Clotilde sposa di Gerolamo Bonaparte). Ciononostante tale dinastia, nell'interesse supremo della Patria, non esitÒ ad assumere un atteggiamento non conformista nei confronti della Chiesa, anzi un atteggiamento laico, giungendo alla abolizione del Foro ecclesiastico e alla confÌsca dei beni degli istituti religiosi.
Atteggiamento che ebbe fine ufficialmente solo con la firma dei Patti Lateranensi. E a questo proposito È bene ricordare il vero spirito col quale Mussolini li aveva sottoscritti, riportando le parole da lui pronunciate alla Camera dei Deputati il 13 maggio 1929: « nello Stato la Chiesa non È sovrana e nemmeno libera. Non È sovrana per la contraddizione che non lo consente; non È nemmeno libera perché nelle sue istituzioni e nei suoi uomini È sottoposta alle leggi generali dello Stato ed È anche sottoposta alle clausole speciali del Concordato ».
Ma solo chi non fa non sbaglia e gli atti di chicchessia
possono prestare il fianco alle critiche. E sarebbe poco intelligente e contrario alla logica se, volendo sviscerare determinati avvenimenti in omaggio alla veritÀ, non si cercasse il vero anche se diverso da quello messo in circolazione dalla storia, inevitabilmente romantica e romanzata, dei vincitori.
A questo punto, dopo un secolo di esaltazione della Casa Savoia e di denigrazione dei Borboni di Napoli, È opportuno ricordare una frase scritta il 13 dicembre 1860 dall'eroico re Francesco II in una lettera diretta all'imperatore Napoleone III, che invano lo sollecitava ad arrendersi abbandonando la fortezza di Gaeta alle poderose forze assedianti. Francesco II non voleva arrendersi e scriveva: « i Re che partono difficilmente ritornano sul trono, se un raggio di gloria non abbia indorato la loro caduta ». Questa veramente regale frase, letta oggi, dopo oltre un secolo e dopo avvenimenti storici piÙ recenti, ha la potenza di un monito e il valore di una profezia.
Vedremo poi a quale altezza di valore seppero giungere soldati ed ufficiali borbonici e la stessa moglie di Francesco IL II nome di quest'ultima, che riempiva di ammirazione gli stessi avversari, passerÀ poi alla storia oltre che per il coraggio indomito, anche per una risposta veramente regale, data all'assediante generale Cialdini, che si era offerto per proteggerla dai bombardamenti dei cannoni piemontesi di lunga gittata.
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