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LA GUERRA DEL 1866

Storia



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LA GUERRA DEL 1866

Sempre a proposito dell'esercito di Francischiello È doveroso portare a conoscenza del lettore, in forma suc­cinta e chiara, come si svolse la guerra del 1866, sia per terra che per mare, onde mettere in evidenza non i pregi dei generali e dei comandanti provenienti dall'antico e-sercito piemontese, dato che quei pregi furono pochi, ma le loro pecche, che furono molte e gravissime e dalle quali derivarono conseguenze assai pesanti anche per la stessa guerra del 1915-18. E ne verrÀ in luce, al para­gone inevitabile, come la preparazione tecnica e il valore dei generali e dei comandanti di marina, provenienti dal disciolto esercito borbonico e da quella marina militare, fossero veramente ammirevoli.



I pregi di intuizione e di studio di uno dei generali napoletani, lasciarono ben definite e fortunate ereditÀ anche nella guerra 1915-18, giÀ ricordata; ereditÀ pre­ziosa per la quale È dovuta, dai vecchi combattenti ita­liani di cinquanta anni or sono, grande riconoscenza per un valoroso e colto, quanto modesto, generale partenopeo.

Siccome si parla di cose militari, chi scrive desidera che sia ben chiaro che ogni dato È, come sempre, fornito di documentazione, e questo capitolo È suffragato dal testo di libri scritti da militari. Primo tra essi il volume « Custoza 1866 », del generale Alberto Pollio capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano dal 1908 al 1914, edito dal Ministero della Guerra (Ufficio storico); un altro, scritto dal generale Luigi Cadorna e intitolato « II generale Raffaele Cadorna nel Risorgimento italiano », e il terzo, sempre del generale Luigi Cadorna intitolato « La guerra alla fronte italiana fino all'arresto del Piave e del Grappa (24 maggio 1915-9 novembre 1917) ».

Come si vede sono volumi scritti da generali che per le loro qualitÀ di capi di Stato Maggiore hanno il peso probante derivato dalla cultura e dalla serietÀ, di chi, scrivendoli, ne ha assunto la responsabilitÀ. L'Italia, alleata della Prussia, il 20 giugno del 1866 schierÃ’ le proprie truppe ai confini del Veneto per muo­vere guerra all'Austria allo scopo di liberare tutti i popoli e le regioni di lingua italiana ancora facenti parte del­l'Impero Austro-Ungarico.

Le forze a disposizione dell'esercito italiano erano le seguenti: 220.000 baionette, 37.000 cavalli, 456 canno­ni, senza contare i volontari di Garibaldi. Le forze a disposizione dell'esercito imperiale erano invece: Armata del Sud: 143.000 baionette, 15.000 ca­valli, 192 cannoni. PerÃ’, all'Esercito di Operazioni nel Veneto, bisogna assegnare soltanto una forza di circa: 94.500 baionette, 12.500 cavalli e 168 pezzi, ossia la metÀ all'incirca del nostro esercito di operazioni; cosÃŒ scrisse il generale Pollio. Nel Tirolo le truppe austriache avevano 19.000 baio­nette, 24 cannoni e 8 racchette.

Mentre i fucili dell'uno e dell'altro esercito avevano press'a poco la stessa portata, la portata di alcuni con­noni austriaci era maggiore dei nostri e in piÙ erano muniti di shrapnell.

Iniziate le ostilitÀ, come al solito i soldati italiani dal generale all'ultimo fantaccino si dimostrarono valorosi. E dal generale al soldato tutti seppero, quando fu ne­cessario, morire. E grande fu il numero degli ufficiali morti e feriti, come grande fu quello dei soldati che ugualmente si sacrificarono. E cade acconcio ricordare con compiacenza, scrive il generale Pollio, un modesto soldato siciliano, Fuggetta del 51° fanteria, che, aiutando a spingere un cannone per salvarlo, fu ferito ad un brac­cio. AiutÃ’ con l'altro braccio. Colpito nuovamente, cad­de, chiamando perÃ’ i suoi ed incitandoli a salvare il cannone. Fu decorato della medaglia d'oro.

Disgraziatamente i Comandi non funzionarono e i piani prestabiliti peccavano di decisione e di seria pre­parazione. Pollio scrisse che i generali non si improvvisano e che il piccolo esercito piemontese non poteva essere in grado di improvvisare tanti buoni comandanti di Corpo d'Armata, di Divisione e di Brigata; si erano avuti alcuni ottimi generali dell'esercito garibaldino quali Cosenz, Bixio, Medici, Sirtori e altri del disciolto esercito napo­letano primo tra essi il generale Pianell; ma con tutto ciÃ’ si era ben lontani da poter fare assegnamento sui Capi. I generali austriaci avevano una competenza tecni­ca e un'esperienza maggiore dei nostri.

La principale ragione per la quale la campagna finÃŒ cosÃŒ malamente stava nella cattiva organizzazione del Comando Supremo. Tra i generali piÙ in vista e sui quali si sperava di poter fare grande assegnamento c'era il generale Cialdini che portava il pomposo titolo di « duca di Gaeta ». Era un titolo altisonante che gli venne elargito perché dopo aver comandato il corpo di spedizione piemontese attra­verso le Marche, l'Umbria e gli Abruzzi, bombardÃ’ per piÙ di tre mesi Gaeta.

Bombardare la fortezza di Gaeta da terra con cannoni

di piÙ lunga portata di quelli degli assediati, e dal mare, con i cannoni delle navi di Persano, non era, bisogna riconoscerlo, un'impresa eccessivamente meritoria sia come stratega, sia come combattente. Era un poco simile all'azione del cacciatore che, in agguato davanti alla tana della selvaggina, aspetta che quella, per fame o per fuoco immesso nella tana stessa, si decida a venir fuori per quindi finirla. E chi non conquista una fortezza d'assalto, ma la sman­tella comodamente al riparo dal tiro nemico, non È certo un eroe. Se si voleva premiare il Cialdini per il suo stato di servizio, sarebbe stato preferibile, volendolo ricom­pensare con un titolo nobiliare, scegliere un altro titolo che ricordasse qualcosa di veramente nobile o almeno di piÙ eroico. Certo È che Garibaldi, il quale odiava i bombardamenti e aveva conquistato un regno, non si rallegrÃ’ molto alla notizia che era nato un nuovo duca e per di piÙ di Gaeta!

Se Cialdini fosse stato meno duca e meno capriccioso, ma piÙ stratega, indubbiamente le sorti della campagna del 1866 avrebbero potuto essere diverse.

E Cialdini il 1° maggio del 1866 aveva scritto al ge­nerale La Marmora cosÃŒ: « non accetto un comando maggiore di due o tre divisioni al piÙ non mi sento in forza di assumere comandi piÙ importanti, né di con­correre alla condotta generale della guerra, la cui re­sponsabilitÀ declinÃ’ completamente ». Poi, con un cambiamento dovuto ai suoi capricci estro­si, assunse prima il comando di un mostruoso Corpo d'Armata di 144 battaglioni, 30 squadroni di cavalleria, 37 batterie, piÙ le truppe tecniche, e poi di un'Armata di cinque corpi, tenendola a covare tra Bologna e Mo-dena, invece di passare il Po attaccando decisamente le forze austriache. E questo anche quando l'Arciduca Al­berto e una gran parte dell'esercito austriaco del sud (per nostra mortificazione, il cui ricordo, scrive il gene­rale Pollio, ci sferza a sangue), furono diretti a Vienna, mentre davanti a noi rimase solo il 7° Corpo d'Armata il cui effettivo era di 19.790 baionette, 490 cavalli, 38 cannoni e 16 racchette. Altro che ducato di Gaeta! Se La Marmora, che era di pessimo carattere e non all'altezza di poter fungere da Capo di Stato Maggiore, (come del resto Cialdini), a-vesse deciso di rimettere al Re Vittorio Emanuele II il comando supremo delle operazioni, detto Re, col suo impeto e con la sua presenza al fronte con precise respon­sabilitÀ, avrebbe forse potuto suscitare entusiasmi e sot­tomissione concorde tra tutti i generali piÙ anziani; e il Re avrebbe saputo anche utilizzare l'ingegno e la signo­rilitÀ del suo fido generale Petitti nei rapporti con i comandi inferiori. Ma disgraziatamente tutto questo non si avverÃ’.

Dopo lo scontro sfortunato di Custoza, la guerra non era né finita, né perduta; si erano solamente perdute la calma e la capacitÀ di ragionare da parte di alcuni co­mandanti superiori, mentre generali comandanti solo di divisione quale il giovane ed intelligente piemontese Govone ed il generale Pianell, giÀ ministro della guerra di « Francischiello » avevano a Custoza conservato la testa sul collo, tantoché se uno di questi due avesse as­sunto la responsabilitÀ del Comando Supremo, la cam­pagna del 1866 non sarebbe stata una sconfitta. CosÃŒ afferma il generale Pollio e, aggiunge chi scrive, probabilmente i fratelli di Trento e Trieste sarebbero stati liberati fin da allora.

Ma il generale Cialdini che si trovava al di qua del Po, tra canali e acquitrini, conservava sempre una batteria da montagna di dodici pezzi, mentre Garibaldi nel Tren­tino ne aveva solo sei pezzi.

A questo punto È bene soffermarsi ad esaminare l'operato dell'ex ministro della guerra di « Francischiello » ossia il generale conte Giuseppe Pianell. Tale generale era nato a Palermo, aveva servito nell'esercito borbonico distinguendosi nella campagna 1848-1849 in Sicilia, du­rante la quale rimase due volte ferito. Il 21 dicembre 1855 fu promosso generale di brigata e nel 1860 da Francesco II venne nominato ministro della guerra. Sciol­to l'esercito borbonico fu nominato generale di divisione nell'esercito italiano. Per il suo contegno come coman­dante di divisione fu subito promosso comandante di Corpo d'Armata e poi decorato con le massime onori­ficenze militari, una delle quali lo faceva diventare cu­gino del Re 31. Da quando È stato narrato si deduce che: 1° Garibaldi era un vero condottiero e un trascina­tore di folle.

2° L'esercito borbonico era ben istruito, comandato da generali colti e intelligenti e composto di valorosi e fu vinto dall'idea e non dalle forze militari avversarie.

3° La spedizione Marche-Umbria-Abruzzi fino a Ca-pua e Gaeta fu montata artificiosamente negli episodi e nel valore dei comandanti solo per sminuire il merito di Garibaldi.

4° Nel 1866 i generali di origine borbonica erano piÙ preparati di quelli piemontesi.

5° Nella battaglia navale di Lissa, il fedele di Cavour nei maneggi politici, ossia il conte Carlo Persano, si di­mostrÃ’ un ammiraglio da operetta 32, che dopo la scon­fitta telegrafÃ’ di « essere rimasto padrone del mare » e anche in quella battaglia, eroi sul tipo del piemontese FaÀ di Bruno e del livornese Alfredo Cappellini, si im­molarono gloriosamente per la Patria; e anche lÃŒ si fe­cero conoscere e bene apprezzare dei comandanti della marina borbonica quali: Ferdinando Acton che poi di­venne ammiraglio nel 1883 e ministro della marina dal 1879 al 1883 e Guglielmo Acton comandante a Lissa della fregata « Principe Umberto » decorato al valore e poi ministro della marina nel gabinetto Lanza dal 1870 al '71 e poi ancora senatore.

L'iniquo confine impostoci nel 1866 fu dovuto all'inet­titudine di vari generali del vecchio esercito piemontese e in modo speciale all'inetto generale Cialdini il quale si ostinava a rimanere oltre la riva destra del Po con la sua enorme armata perdendo tempo con telegrammi in­sulsi e inconcepibili per un soldato. Ma se i combattenti della guerra del 1915-1918 deb­bono all'« iniquo confine » come lo chiamava Luigi Ca-dorna, impostoci dopo la campagna del 1866, la perdita di centinaia di migliaia di compagni immolatisi solo per conquistare posizioni migliori per attestarsi e poi partire all'attacco, detti combattenti debbono grande ricono­scenza all'« illustre generale Enrico Cosenz » (cosÃŒ qua­lificato anche dal generale Luigi Cadorna), perché du­rante il suo incarico di Capo di Stato Maggiore ricoperto dal 1881 al 1892 studiÃ’ in modo particolare la difesa della linea del Piave dato che quel generale ben capiva che, con il possesso delle forti posizioni di montagna da parte degli Austriaci e la derivante precarietÀ delle nostre linee prolungantisi nel Friuli fino all'Iudrio, un Coman­dante d'esercito italiano avrebbe sempre dovuto preve­dere la necessitÀ di una difesa su di un fronte piÙ ri­stretto e meno avanzato. E il generale Luigi Cadorna nel suo libro « La guerra alla fronte italiana, partendo dagli studi di Enrico Co­senz », spiega come seguendo le idee di « quel maestro di arte militare », lui avesse scelto la linea del Piave come quella di definitiva resistenza dopo Caporetto.

E chi era mai il generale Enrico Cosenz? Il generale Enrico Cosenz era un ufficiale borbonico di carriera, u-scito dalla scuola militare borbonica della « Nunziatella » di Napoli. Detto ufficiale nel 1848 era capitano e come tale fu inviato al Po dal Re Ferdinando IL Nel 1849 seguÃŒ l'altro napoletano, generale Guglielmo Pepe a Venezia distinguendosi nella difesa di Mestre e di Mar-ghera. Poi andÃ’ esule a Malta, CorfÙ e in Francia.

Nel 1859 combattÈ con Garibaldi nei « cacciatori del­le Alpi » e, dopo aver passato un brevissimo periodo nel­l'esercito piemontese, raggiunse il suo vecchio coman­dante Garibaldi, il quale lo definiva il migliore dei suoi generali e la nominava ministro della guerra a Napoli.

Assunto come generale nell'esercito italiano nel 1861, fu poi nominato presidente del Comitato di Stato Mag­giore prima e in seguito Capo di Stato Maggiore e sena­tore. Come si vede gli ufficiali borbonici non solo erano valorosi quanto altri, ma spiccavano sugli altri, per cul­tura e genialitÀ nelle dottrine militari. E per cultura militare si affermarono anche i fratelli Carlo e Luigi Mezzacapo. Erano ambedue ufficiali d'arti­glieria nell'esercito borbonico e nel 1848 combatterono a Venezia con Guglielmo Pepe. Ritiratisi a Torino fondarono nel 1856 la « Rivista militare » e nel 1859 Carlo Mezzacapo pubblicÃ’ degli ottimi « studi topografici e strategici sull'Italia ». In seguito Carlo Mezzacapo divenne generale di corpo d'ar­mata e fu fatto senatore nel 1876; il fratello Luigi fu nominato senatore nel 1870 e Ministro della Guerra nel 1876.

È chiaro che la cultura militare negli ufficiali prove­nienti dall'esercito borbonico era notevole e li faceva eccellere sui loro colleghi provenienti dall'esercito sardo.

Dopodiché si crede, e a ragione, che le critiche e le ridicolaggini circa « l'esercito di Francischiello » non sono state altro che una montatura che nascondeva la meschinitÀ dei critici stessi. Il generale Pianell con l'a­zione della sua divisione impedÃŒ l'occupazione del ponte

di Monzambano da parte di una colonna austriaca, sal­vando cosÃŒ la ritirata alle nostre truppe; e per la sua ardita manovra, concepita ed eseguita in contrasto con gli ordini ricevuti dal generale Durando, suo comandante di Corpo di Armata, decorato con la Croce di Grande Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia e col collare della SS. Annunziata, morÃŒ da Comandante di Corpo d'Armata e membro del Consiglio Superiore dell'Esercito. Di En­rico Cosenz, primo Capo di Stato Maggiore, quello che era, È stato detto. Solo È anche doveroso ricordare che la vittoria italiana sulla linea del Piave, linea prevista e studiata dal napoletano Cosenz, È stanta conseguita da un altro Capo di Stato Maggiore napoletano, ossia dal maresciallo Armando Diaz.

Ma né i combattenti del 1915-18, né Armando Diaz sono stati ritenuti degni di ricordo celebrandosi il cen-tenario dell'UnitÀ d'Italia a Torino.

Come pure a Torino non si È ritenuto doveroso invi­tare i sindaci delle principali cittÀ della Sicilia, dove nel 1812, 1820, 1848 si ebbero i primi moti italiani per ottenere una costituzione e dove tutta la popolazione aiutÃ’ Garibaldi per la riuscita della sua grande impresa per il raggiungimento dell'UnitÀ. Mentre le popolazioni del Trentino non mossero affatto in favore di Garibaldi durante la guerra del 1860.

E circa l'UnitÀ d'Italia, nel maggio del 1860 detta UnitÀ, nelle alte sfere ufficiali, era ancora considerata come un'utopia. Un'altra cosa È bene aggiungere, ed È questa: tutte le cittÀ italiane rigurgitano di vie e piazze intitolate a ge­nerali piÙ o meno degni di esaltazione sul tipo del « Du­ca di Gaeta »; e a Roma, solo da poco tempo, in uno dei lontani sobborghi della cittÀ, ossia a Casal Bertone, vi È una piazza intitolata a Cosenz e una via a Pianell. Meglio tardi che mai.

E qui È opportuno soffermarsi su quanto segue: nelle storie ufficiali ed ufficiose si È sempre esaltato l'apporto dato da Napoleone III e dalle truppe francesi alla libera­zione della Lombardia e non si capisce come e perché non debba venire riconosciuto che alla Prussia e al valore di quelle truppe, noi dobbiamo il Veneto, regalatoci nono­stante il pessimo andamento della nostra guerra del 1866.

L'Austria, per nostra fortuna, venne sconfÃŒtta dalla Prussia, nostra alleata, e da questa fu obbligata a cederci il Veneto per quanto in misura incompleta e con pes­simi confini.

L'Austria fece buon viso e cattivo gioco e si sottomise al volere della Prussia, dandoci perÃ’ lo schiaffo morale di cedere tale regione a Napoleone III il quale poi la passÃ’ a noi.

E se l'ostinazione di Napoleone III ci impedÃŒ per lun­ghi anni di raggiungere il sogno di tutti gli Italiani, di avere Roma come capitale d'Italia, tale sogno fu possi­bile tradurre in realtÀ solo con la tremenda disfatta francese del 1870 per opera dei germanici guidati dalla Prussia. Ma in Italia si È sempre fatto confusione tra Tedeschi e Austriaci non volendo ricordare che durante le guerra del Risorgimento, non i tedeschi ci furono nemici, ma gli Austriaci, ossia quel miscuglio di popo­lazione croate, slovene, slovacche, ceke, polacche, un­gheresi e italiane, dove la lingua meno parlata da milioni di sudditi era proprio la lingua tedesca. E a questo punto È anche doveroso mettere in luce quanto subdolo e di­sonesto, nei confronti dell'Italia, fosse stato il contegno di Napoleone III in occasione della guerra del 1866.

Poche settimane prima che tale guerra scoppiasse tra Prussia e Italia da una parte e l'Austria dall'altra, Napo­leone e l'Austria sottoscrissero un trattato segreto. Con tale trattato la Francia si impegnava a non opporsi ad eventuali moti disgregatori dell'UnitÀ d'Italia.

Secondo documenti pubblicati nel 1926 a Berlino, per opera del tedesco H. Oncken, appare chiara la condotta sleale, anzi traditrice, di Napoleone III nei confronti dell'Italia.

L'ambasciatore austriaco Metternich (figlio del famoso Metternich nemico di Napoleone I e manipolatore della Santa Alleanza) cosÃŒ dichiarÃ’: « II giorno 6 giugno 1860 Napoleone III mi disse parlando di se stesso: Se io fossi sicuro di avere un giorno il Veneto e se io potessi dor­mire tranquillo sapendo che voi Austriaci non intacche­reste l'onore dell'armata francese cancellando tutti i ri­sultati della guerra del 1859, io non domando di meglio che voi battiate gli Italiani se vi attaccassero; e se, in seguito ai vostri successi, si dovessero verificare dei moti in Italia, (cosa che io prevedo) e tali moti portas­sero a dei cambiamenti che facessero crollare l'unitÀ ita­liana, io non mi opporrei a tali avvenimenti ».

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