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LE FORZE ARMATE BORBONICHE E LORO PARTECIPAZIONE ALLA GUERRA DEL 1848
Parte della flotta da guerra borbonica era stata in un primo momento mandata ad incrociare, con quella sarda, davanti al porto di Trieste, per bloccare i movimenti eventuali della flotta austriaca, mentre il generale Guglielmo Pepe, nominato da Ferdinando II comandante in capo dell'armata napoletana di spedizione per l'alta Italia, partito il 4 maggio da Napoli sbarcava in Ancona l'8 maggio e secondo le di lui previsioni solo per la fine del mese l'intero corpo di spedizione sarebbe stato riunito sulla riva destra del Po. Tanto il Pepe che il suo collaboratore Poerio si lamentavano dell'organizzazione dei loro reparti; ma, evidentemente, ai due comandanti faceva velo il loro caldo appassionato amore per la causa dell'indipendenza italiana, poiché la spedizione napoletana era stata una sorpresa imprevedibile e poco gradita per i sovrani borbonici, anche perché poteva procurare solo enormi spese, turbamenti politici nei rapporti con una grande potenza come l'impero austriaco, ed era stata sconsigliata reiteratamente dai diplomatici inglesi e dalle autoritÀ religiose.
E dato che la guerra poteva accrescere solo la potenza del Regno Sabaudo, la dinastia borbonica ne avrebbe ricavato unicamente enormi dispendi e danni politici con grande sacrificio di vite umane.
CiÒ premesso, È doveroso far presente come l'opera svolta dai due battaglioni del X reggimento di linea borbonico e dal battaglione di volontari napoletani fu superiore ad ogni elogio, sia per il valore delle truppe che per le doti militari degli ufficiali, i quali spesso supplirono con la loro iniziativa alla scarsezza o all'incon-gruenza degli ordini dati dai generali piemontesi.
In modo particolare vanno ricordati il colonnello Cesare Rossaroll e Carlo Poerio che il 13 maggio rimasero feriti in combattimento di fronte a Mantova.
Nel quarto volume della « Storia del Risorgimento italiano » di Cesare Spellanzon si puÃ’ constatare come per venti volte, da pagina 548 a pagina 580, i combattenti di Curtatone e Montanara sono sempre citati come « i valorosi Toscani e Napoletani ». Ma nella storia ufficiale, e specie in quella ad uso delle scuole, i Napoletani sono ignorati, come ignorato È il valoroso comportamento del colonnello Rodriguez, comandante di uno dei due battaglioni del X reggimento borbonico u.
Sull'obelisco eretto nei pressi di Curtatone e Montanara in ricordo degli accaniti combattimenti passati alla storia come le « battaglie di Curtatone e Montanara » sono scolpiti solo i combattenti toscani, mentre sono stati volontariamente ignorati i combattenti napoletani.
È ora che a tali eroi venga resa giustizia e che la cittÀ di Napoli provveda essa stessa ad onorare quei caduti per l'UnitÀ d'Italia, con una apposita stele da erigersi a lato del monumento che ricorda i fratelli toscani.
Napoletani e toscani combatterono e caddero insieme per la stessa causa e per lo stesso ideale; furono eroi gli uni e gli altri; furono uniti nel sacrificio e nella gloria: uniamoli finalmente nel ricordo, superando l'ingiustizia campanilistica dei loro contemporanei che distribuivano gloria e biasimo secondo gli interessi personali, ignorando volutamente giustizia e lealtÀ.
Quando il generale napoletano Guglielmo Pepe arrivÒ con i suoi armati nelle vicinanze del Po, gli giunse da Napoli l'ordine di ritirarsi con tutte le truppe e rientrare nel Regno. Era giÀ noto come Ferdinando II a malincuore aveva acconsentito a mandare i propri soldati a combattere, unitamente alle truppe sarde, contro l'esercito austriaco.
Questa sua riluttanza era mossa soprattutto dal fatto che durante le trattative svoltesi a Roma, per iniziativa di Pio IX, al fine di costituire una Lega tra tutti gli Stati italiani, si era verificata l'impossibilitÀ di dar vita a tale Lega per la mancata adesione del governo di Torino. Quel governo temeva che, costituendo la Lega, Ferdinando II, data l'importanza del suo Regno, ne avrebbe avuto i maggiori vantaggi e Torino non voleva passare in seconda linea nei confronti di Napoli. Ma era certamente assurdo il pensare che uno Stato dell'importanza di quello delle Due Sicilie potesse insistere in guerra senza sapere quali sarebbero stati i vantaggi e i rischi e le spese da incontrare. Ciononostante, cedendo alle pressioni dei liberali napoletani, Ferdinando II aveva aderito a mandare delle truppe e ottenuto, non facilmente, il permesso di farle passare attraverso i territori pontifici, il corpo d'esercito napoletano potÈ finalmente partire.
Poi malauguratamente a Napoli avvenne la rivolta del 15 maggio 1848. In seguito a tale rivolta Ferdinando II giudicÒ imprudente mantenere delle forze militari fuori dei propri confini, sia per assicurare l'ordine nella penisola, sia anche per provvedere a debellare definitivamente la rivoluzione siciliana che aveva conquistato l'intera isola e dette perciÒ l'ordine di far rientrare a Napoli tutte le truppe che si trovavano al Nord. Guglielmo Pepe non riuscÌ a convincere i propri soldati a non eseguire gli ordini regi e solo con pochi valorosi e con essi il capitano Enrico Cosenz (il futuro primo grande Capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano) corse a Venezia dove fu nominato Comandante di tutte le forze di terra di quella gloriosa cittÀ assediata dagli Austriaci.
Anche il X reggimento di linea che aveva servito onorevolmente a Goito e a Montanara a fianco dei Sardi e dei Toscani partiva per far ritorno nel Regno meridionale, essendo sempre stato trattato con molta freddezza dai commilitoni dai quali si staccava.
I volontari napoletani, disgustati perché a paragone dei combattenti toscani di Curtatore e Montanara pochi dei loro erano stati decorati al valore, partivano protestando, e andavano a Venezia a mettersi a disposizione di Guglielmo Pepe.
Carlo Alberto era molto avvilito vedendo che il suo prestigio era completamente perduto nei confronti degli Italiani di tutte le regioni. Ma non teneva conto che la Corte Sabauda e il Governo di Torino avevano sistematicamente lasciate cadere tutte le proposte degli altri Governi italiani dirette a stabilire le basi e i limiti di una cooperazione comune per la guerra. Al Congresso di Roma nell'aprile del '48 i delegati piemontesi erano stati attesi inutilmente, e i napoletani che vi erano andati dovettero rientrare nel Regno borbonico affatto delusi. È assai dubbio se un qualche accordo sarebbe stato mai raggiunto, giacché troppi interessi particolari e antitetici tra loro dividevano i Principi regnanti nei diversi Stati d'Italia. Ma poteva Carlo Alberto, cui non erano sconosciute le forme tradizionali della diplomazia e la ragione di vita degli Stati, credere che un governo indipendente potesse consentire all'invio della totalitÀ delle proprie forze armate a sostegno di un'impresa guerresca, cominciata da un altro Stato, potenzialmente rivale, quando mancava
una precisa convenzione politica e militare, che attribuisse all'uno o all'altro dei Principi contraenti, una determinata porzione di oneri e di benefici? È ben vero che questa guerra era stata proclamata guerra santa per la liberazione dell'Italia dallo straniero, e, considerata sotto questo aspetto ideale, il disinteresse e la generositÀ dovevano guidare le azioni di tutte le Corti italiane. Ma chi aveva mai dato il buon esempio?
Il Re sardo allo scoppio del conflitto aveva solennemente proclamato che lui accorreva con il suo esercito a dare l'aiuto che il fratello offre al fratello, senza nulla chiedere, senza nulla patteggiare; ma il Franzini, suo ministro della guerra, fece chiaramente intendere ai Veneti che se non avessero deciso l'unione con gli Stati Sardi era impossibile che il Re esponesse le sue truppe e gravasse le proprie finanze per liberare cittÀ e provincie che si mostravano cosÌ riluttanti a darsi in braccio al Governo di Torino. Quando il Franzini si esprimeva in tal modo non si potevano certamente criticare gli altri Governi della penisola, i quali sostanzialmente si rifiutavano di seguitare a contribuire alla guerra contro l'Austria, ignorando quali pesi avrebbero dovuto sopportare e quali vantaggi ne avrebbero ottenuto i propri sudditi.
Era impossibile che Carlo Alberto ignorasse tutto ciÃ’, e i posteri non possono imputare al re Ferdinando II la colpa di non aver voluto l'UnitÀ d'Italia, dato poi che questa fantasmagorica UnitÀ era capita e voluta solo da pochi, e lo stesso Cavour, come abbiamo giÀ detto, considerava un utopista Daniele Manin (mazziniano) perché « voleva l'UnitÀ d'Italia ed altre corbellerie ».
Carlo Alberto, dopo la sconfitta, dovette uscire alla chetichella da Milano, di notte, e riparare oltre il Ticino e, come È stato giÀ detto, il giorno nove agosto il generale Salasco a Milano firmava a nome del Re un armistizio con il maresciallo austriaco Hess.
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