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SITUAZIONE ECONOMICA DELL'ITALIA MERIDIONALE PRIMA E DOPO IL 1860

Storia



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SITUAZIONE ECONOMICA DELL'ITALIA MERIDIONALE PRIMA E DOPO IL 1860

Napoli nel 1860 era la cittÀ piÙ grande d'Europa dopo Londra, Parigi e Pietroburgo. Aveva veramente l'aspetto di una Capitale, sia per la sua favorevole posizione na­turale, sia per il numero dei suoi abitanti, sia per l'im­ponenza delle sue costruzioni.

Era del resto la capitale del Regno delle Due Sicilie, ossia dello Stato piÙ importante e piÙ popoloso di tutta la penisola e la cui principale risorsa era nell'agricoltura pur essendo all'avanguardia, in Italia, nel settore mari­naro, in quello commerciale e in quello industriale. Per l'Italia meridionale l'UnitÀ non fu un « affare » parlando in termini spiccioli, ma fu una rovina economica e una diminuzione di prestigio. Sono, anche queste, affermazioni gravi, come gravi sono state altre affermazioni comparse nelle pagine pre­cedenti di questo studio. Ma come È avvenuto per le pagine precedenti, chi scrive afferma sempre e solo cose per le quali esiste una documentazione precisa.



Marina da guerra — Nel 1859 la marina da guerra borbonica contava: 2 vascelli da 80 cannoni - uno a vela, uno ad elica; 11 fregate - tre a vela, due a elica, sei a vapore; 6 corvette - due a vela, quattro a vapore; oltre ad un grande numero di brigantini, corvette mi­nori a vela, barche cannoniere e bombardieri.

Tranne le prime navi a vapore che furono comprate in Inghilterra, tutte le altre erano costruite nei cantieri di Castellammare di Stabia e non avevano niente da in­vidiare a quelle inglesi. Inoltre Cavour, che si occupÃ’ fino agli ultimi suoi giorni, della marina militare, fece adottare dalla flotta del regno d'Italia le ordinanze, le manovre e i segnali di bandiera della Flotta napoletana; segno evidente dell'inferioritÀ, in tale settore, degli or­dinamenti in uso nella marina sarda.

Marina mercantile — Nel 1859 la flotta mercantile delle Due Sicilie contava circa diecimila legni, dato che negli ultimi trenta anni, per il continuo incremento dei traffici commerciali, era quasi raddoppiata. Per il ton­nellaggio tale marina era la terza in Europa e rendeva completamente indipendente il Regno delle Due Sicilie dalle flotte mercantili straniere. Operanti in cittÀ di mare della penisola e della Sicilia, esistevano ben quat­tordici scuole nautiche. I noli marittimi coprivano lar­gamente il disavanzo commerciale tra esportazioni e im­portazioni.

Circolazione monetaria — Secondo gli studi dell'eco­nomista Nitti, confortati dai dati forniti da altri studiosi suoi predecessori, la circolazione monetaria metallica in oro e argento fino al 1860 nel Regno delle Due Sicilie era semplicemente il doppio di quella degli altri Stati della Penisola messi insieme. Inoltre le monete del Regno borbonico erano incise, da veri artisti della medaglia, in una Zecca dove si producevano autentici capolavori e la cui distribuzione avvenuta con il nuovo governo fu il­logica e ingiustificabile.

Industria tessile — Fin dal 1840 nell'Italia meridionale si producevano 70.000 chilogrammi tra organzino e seta da cucire sia in laboratori di artigiani che in fab­briche vere e proprie a Reggio, Catanzaro, Monteleone, Matera e soprattutto nel grandioso stabilimento di San Leucio fondato da Ferdinando IV e dove lavoravano ben ottocento operai con dei regolamenti sindacali di tipo socialista e contemplanti anche l'assistenza malattia e la invaliditÀ e la vecchiaia.

Avuto il permesso di esportare seta greggia si incorag­giÃ’ in conseguenza la piantagione di gelsi e l'allevamento del baco da seta e giÀ nel 1830 si producevano 1.200.000 libbre (pari a Kg. 400.000) di seta e tale produzione non solo competeva per volume con quella piemontese e lombarda, ma era talmente pregiata da far concorrenza alle sete cinesi e francesi sui mercati piÙ lontani, persino in Brasile e negli Stati Uniti.

L'industria laniera aveva uno sviluppo simile a quella serica, e oltre a dei laboratori artigiani, faceva assegna­mento anche su organizzazioni industriali a Napoli, a Isola del Liri, ad Arpino, a Sora, a Chieti e a Salerno dove esistevano fabbriche grandiose per quei tempi e provvedute di esperti tecnici e di macchine non seconde alle piÙ rinomate d'Europa.

E dato che si È nel campo della lana È doveroso ricor­dare che anche nei cappelli di lana e in quelli di castoro la produzione napoletana gareggiava con la migliore d'Europa.

L'industria del lino e della canapa era, come in tutta l'Europa meridionale, alquanto trascurata; nondimeno la filatura di queste due fibre dava lavoro a non meno di centornila filatrici e a sessantamila telai; e per il lino, in modo particolare gli stabilimenti principali erano a Piedimonte d'Alife, a Cava dei Tirreni, a Scafati, a Sarno e soprattutto a Napoli.

All'epoca del blocco continentale napoleonico la coltivazione del cotone assunse nell'Italia meridionale e nella Sicilia, una notevole importanza; dopo la caduta del blocco napoleonico, la coltivazione stessa riprese in Terra di Lavoro in modo che tale produzione alimentÃ’ piccole imprese e grandi fabbriche a Piedimonte, a Scafati, a Ca-stellammare, Cava, Salerno, Aldifredi. E, secondo il tecnico in materia, De Augustinis, non avevano niente da invidiare a quelle di Manchester, di Nottingham, della Francia e della Svizzera. In conclusione lo sviluppo del­l'industria cotoniera, che esportava buona parte del pro­dotto, era talmente importante che giÀ prima del 1850 dava lavoro solo in Campania e nel cosidetto principato Citeriore a non meno di sessantamila operai.

Inoltre il gros, il velluto, il raso, la marsiglina di San Leucio gareggiavano con i migliori prodotti di Lio-ne, anzi erano considerati piÙ consistenti di quelli ana­loghi francesi. E mentre le cotonate di Piedimonte e dintorni soste­nevano vittoriosamente il confronto con quelle di Man­chester, i panni di Sora, Isola del Liri e di Napoli regge­vano il confronto con quelli di media qualitÀ della Fran­cia e del Belgio. E con l'UnitÀ d'Italia tutto ciÃ’ andÃ’, come si vedrÀ in appresso, bestialmente distrutto.

Industria siderurgica — Questa industria era, per forza di cose, sviluppata, sia con il poco minerale che veniva reperito nel Regno, sia con quello prodotto dall'isola d'Elba, sia con i rottami di ferro che venivano importati dall'estero. Le fabbriche, anche queste eccellenti, erano principalmente quelle di Bivongi, di Pezzana, della Mon-giana e servivano anche per le nuove opere di carattere pubblico, come i ponti sospesi sul Garigliano e sul Calore. A Pietrarsa, tra San Giovanni a Teduccio e Portici, si fabbricavano cannoni, macchine a vapore sia terrestri che per la marina, locomotive, tenders, rotaie, gru, ruote per piroscafi, macchine per opifici metallurgici, fucine portatili, martelli a vapore, tubi di ferro, argani. In Calabria a Mongiana era intenzione di Ferdinan-do II di far sviluppare e fiorire il primo arsenale del Mediterraneo.

Il governo si preoccupava poi di incoraggiare le nuove invenzioni e i nuovi perfezionamenti, apportati nei vari settori industriali, e furono concessi premi a varie ditte per invenzioni e perfezionamenti di macchine a vapore, telegrafi elettrici, armi da fuoco, strumenti in ferro fuso, macchine agrarie, strumenti geodetici, macchine pneuma-tiche, telescopi, pianoforti, orologi ecc, premiando inol­tre fabbricanti di mobili, tappezzerie, guanti, cuoi, tes­suti, carta, cappelli, profumi, saponi, terraglie ecc.

Industrie varie — Presso Sora a Isola del Liri, utiliz­zando le acque del Liri e del Fibreno e manipolando vec­chi stracci, si produceva carta ottima ed una speciale carta detta « interminabile » che si esportava in Europa, in Egitto e nell'America meridionale. Innumerevoli con­cerie funzionavano a Napoli, Castellammare di Stabia, in Calabria e in Abruzzo e tanto era ben apprezzata la loro produzione che dall'estero vi venivano spediti cuoi per ricevervi l'ultima finitura.

La manifattura dai guanti, conseguenza dell'ottima produzione conciaria, era un'industria fiorentissima e i guanti napoletani erano i piÙ famosi d'Europa e si e-sportavano in Inghilterra, in Germania, Polonia, Russia e Stati Uniti d'America.

Si fabbricavano vetri che non avevano niente da invi­diare a quelli di Boemia e di Venezia; lastre di vetro per i bisogni locali e per l'esportazione a Tunisi, ad Al­geri, a Malta e perfino in America.

A Capodimonte fioriva la celeberrima industria della porcellana e fiorente in Napoli e dintorni, era pure la lavorazione del corallo e della tartaruga ancora in auge fino ai primi anni di questo secolo.

CosÃŒ pure il regno era indipendente per molti prodot­ti chimici come acido muriatico, cloridrico, solforico, colori ecc.

Tutto quanto esposto sta a sfatare la leggenda volu-tamente diffusa di meridionali torpidi e inetti e di un governo retrogrado.

Riguardo a quest'ultima la critica storica ha ormai ben chiarito che molte leggende sorsero artificialmente create da quegli stessi liberali cospiratori che per i loro fini politici tendevano ad esagerare. La famosa « protesta del popolo delle Due Sicilie » compilata dal Settembrini, con la collaborazione di altri cospiratori, ha avuto una fama esagerata ed era un'opera piena di pettegolezzi e di maldicenze, come del resto se ne raccontano anche ai giorni nostri a carico di qualsiasi governo di qualsiasi continente. E inoltre tale protesta, che non fece nessuna impressione all'interno, fu confes-fata come esagerata e non rispondente alla veritÀ, dagli stessi ex cospiratori, una volta caduta la dinastia bor­bonica. Nel 1860 al secondo posto delle industrie esportatrici di tutta la penisola italiana stava quella dello zolfo in Sicilia che impiegava circa diecimila operai e solo dal 1900 ebbe a subire la concorrenza della produzione a-mericana.

La famiglia Orlando in Sicilia fabbricava nell'isola macchine industriali; i fratelli Orlando ebbero parte at­tiva politica anche aiutando Garibaldi. Trasferitisi a Ge­nova, l'impresa Orlando divenne la principale fabbrica italiana di armi e di locomotive.

E quando la miseria e la fame prodotte dall'incauta politica economica, messa in atto dopo il 1860, indusse i meridionali ad emigrare a milioni, si videro molti di

questi affermarsi in quei nuovi paesi e raggiungere nel­l'industria, nell'agricoltura e nelle banche, posizioni eco-nomiche di primissimo ordine. Il primo piroscafo che solcÃ’ le acque di tutto il Me­diterraneo fu fabbricato e varato a Castellammare nel 1818 e portava il nome di « ferdinando »; e la prima ferrovia italiana fu, come È noto, quella di Napoli-Portici.

Nel 1857 si costituÃŒ a Napoli una societÀ per l'eserci­zio della ferrovia Napoli-Salerno e nell'aprile 1860 Fran­cesco II ordinÃ’ che si costruisse il prolungamento della ferrovia Napoli-Cassino, fino ai confini dello Stato Pon­tificio oltre ad una linea Napoli-Foggia-Brindisi-Lecce; un'altra per la Basilicata e Reggio e un'altra per l'Abruz­zo sino al Tronto. In Sicilia erano previste tre linee: una da Palermo a Catania, un'altra da Palermo a Messina e l'altra ancora da Palermo a Girgenti a Terranova. Ma ai primi di maggio Garibaldi sbarcÃ’ a Marsala.

Verso il 1830 cominciarono a crearsi e sviluppare nel regno, oltre alle societÀ di assicurazioni, anche quelle anonime con scopi industriali e commerciali (vedi « So­cietÀ enologica », « SocietÀ industriale partenopea », « Compagnia promotrice delle industrie nazionali », « So­cietÀ per i servizi pubblici ferroviari », « SocietÀ per l'illuminazione a gas », « SocietÀ per la navigazione a vapore » ecc).

L'agricoltura — L'economia meridionale era in preva­lenza agricola.

Nell'Abruzzo e nelle Puglie aveva una notevole im­portanza economica l'allevamento delle pecore. Gli ar­menti di pecore erano in prevalenza di razza cosidetta «spagnola» ossia «merinos». Il tipo «merinos» era una razza originaria della Spagna, di un pelo setoso e lucido nella parte vicina alla pelle. Gli arieti di tale razza, non potevano venire esportati dalla Spagna ed esistevano

pene severissime per coloro che avessero esportati clan­destinamente tali animali dal loro paese di origine. Na­turalmente la lana e i tessuti prodotti con tale lana ave­vano un alto valore. Gli armenti svernavano nelle Pu­glie e ai primi giorni dell'estate risalivano verso gli alti pascoli sulle montagne d'Abruzzo su strade tracciate lungo le valli e su per i monti, dal secolare passaggio degli armenti e dei loro pastori, e da secoli erano sotto­poste a precise norme risalenti ai sistemi feudali intorno al 1300. Quegli armenti di qualitÀ cosÃŒ pregiata avevano avuto la loro origine da arieti di pura razza «merinos», donati da alcuni viceré spagnoli, e rappresentavano una grande ricchezza per quelle popolazioni e davano la possibilitÀ di ottenere tessuti di lana di alto valore. Oltre che nelle Puglie e negli Abruzzi l'allevamento ovino, transumante dal piano al monte e viceversa, aveva largo sviluppo anche in Lucania e nelle Calabrie, unitamente all'allevamento delle capre. Le pecore oltre a fornire il materiale per produrre tessuti e lana da materassi, fornivano, unita­mente alle capre, il materiale per produrre numerosi manufatti di cuoio e soprattutto la materia prima per l'industria prettamente napoletana dei guanti, esportati in tutto il mondo.

Si trattava quindi di un ciclo completo. Oltre a que­sto, da tali allevamenti derivava una grande produzione casearia. Vedremo in seguito a quali disastri condusse nella pastorizia meridionale la ignoranza in tale materia, di chi introdusse le nuove direttive economiche, e le nuove norme doganali dopo il 1860. Ma il Mezzogiorno, contrariamente alle favole che lo dichiaravano un paradiso abitato da fannulloni, era, come lo È tuttora, un terreno per la maggior parte impervio, montuoso, soggetto a disastri alluvionali e in genere poco ricco di corsi d'acqua che non siano a regime torrentizio,

povero di acqua potabile e povero di humus. Le Puglie, piÙ fertili, soffrivano, come soffrono, della siccitÀ. L'unica parte veramente fertile È quella attorno al Vesuvio ossia la cosidetta dai latini «Campania felix». Il lavoro agricolo nell'Italia meridionale È sempre stato ed È tuttora, fati­coso e poco redditizio per le difficoltÀ naturali del suolo.

Quando l'attonito viaggiatore guarda ammirato i co-sidetti « giardini » ossia le coltivazioni di aranci e li­moni in Calabria e specialmente in Sicilia, deve riflettere che tali « giardini crescono spesso su terreno lavico spez­zato, frantumato con secoli e secoli di lavoro, senza acqua sorgiva, ma che bisogna andare a reperire anche a cento e piÙ metri di profonditÀ e gli agrumi hanno bisogno di acqua. Quando il viaggiatore in automobile, percorre in Pu­glia, attonito ed ammirato, decine e decine di chilometri attraverso viali di piante secolari di ulivi di alto fusto, come lo sono anche in Calabria, (di fronte ai quali gli ulivi della Riviera Ligure e quelli stessi della Toscana diventano piccoli alberelli), deve pensare che tali alberi cosÃŒ ordinati, cosÃŒ ben tenuti, anche esteticamente, fu­rono piantati quando i re borbonici incoraggiavano tali piantagioni; e deve anche pensare come sia invece cosa facile e largamente redditizia coltivare terreni in pianura bene irrigata e ricchi di acqua potabile dove È possibile allevare mandrie di bestiame che a loro volta producono il materiale per fertilizzare la terra, come avviene nelle pianure della Valle Padana.

Uno dei prodotti agricoli che venivano esportati dal­l'Italia meridionale era l'olio, e dal porto di Gallipoli partiva olio per l'Inghilterra e l'Olanda; da quello di Bari e di Monopoli partiva quello per l'Alta Italia e la Germania attraverso Trieste; da Taranto partiva l'olio diretto a Marsiglia per la Francia.

Il vino era poco esportato ad eccezione dei vini tipici

siciliani. Altro materiale da esportare era il legname pro­dotto sui monti calabresi (Sila) e serviva per le costru­zioni navali, sia mercantili che da guerra. Oggi dopo la ultima guerra, i boschi della Sila non sono piÙ quelli di una volta e le accette inglesi che abbatterono disor­dinatamente larga parte di quei boschi, ne hanno la colpa. Una coltivazione specialissima delle Puglie, della Ca­labria e della Sicilia, era quella delle mandorle, che si vendevano e si vendono nel Nord Europa attraverso il porto di Trieste; e in quei lontani anni l'esportazione degli agrumi e delle mandorle era un vero monopolio ita­liano in tutta la zona mediterranea. Tutto quanto si È detto circa l'agricoltura meridionale dimostra ampia­mente che quei lavoratori della terra, per raggiungere modesti risultati dovessero lavorare duramente e in con­dizioni disagiate percorrendo decine di chilometri al giorno dato che i paesi risiedevano sempre sulle alture per difendere gli abitanti sia dalla malaria che dalle scor­rerie saracene che per lunghi secoli fecero vivere nel ter­rore quelle popolazioni; mentre l'agricoltura nelle Mar­che, in Toscana e in tutta l'Italia del Nord era piÙ facile e soprattutto piÙ redditizia. E se deplorevole, come si È soliti dire, era lo stato di miseria dei contadini meri­dionali, ancora piÙ deplorevole era l'indigenza dei con­tadini della fertile Valle Padana dove per tutto il secolo passato e nei primissimi anni di questo secolo, infieriva la tremenda malattia della pelle detta « pellagra », do­vuta all'alimentazione quasi esclusiva di granoturco, spesso avariato; mentre i poderi producevano latte, for­maggi, burro, carni e frutta in enormi quantitÀ. E solo con le agitazioni socialiste della fine dell'ottocento e dei primi del novecento, fu richiamata l'attenzione dei go­verni per i provvedimenti del caso e la pellagra della Val Padana sparÃŒ.



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