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Pier Paolo Pasolini - Scritti corsari

letteratura



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DOCUMENTE SIMILARE

Pier Paolo Pasolini



1. 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione

2. 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensitÀ del mondo contadino

3. Notizie sull’autore

Scritti corsari

Nel 1975, pochi mesi prima della morte, Pier Paolo Pasolini raccolse nel volume “Scritti corsari” (edito da Garzanti) una cinquantina di articoli pubblicati su vari giornali e riviste, in prevalenza sul Corriere della Sera, nei due anni precedenti.

Nei due articoli che seguono, egli sviluppa un tema sul quale È ritornato insistentemente e con la  massima energia: a partire dagli anni del boom economico (fine anni ’50) si È verificata in Italia una trasformazione antropologica, che ha annullato le differenze di stile di vita, di mentalitÀ, di comportamenti, rendendo tutti uguali e appiattiti su esigenze consumistiche.

9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione[1]

Molti lamentano (in questo frangente dell'austeri­ty[2]) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro «cattivo» nelle periferie «buone» (viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza piÙ reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciÃ’ di cui nelle pe­riferie si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe co­munque organizzato dal Centro . Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferi­che dalle quali - appunto fino a pochi anni fa - era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, an­che alle periferie piÙ povere e addirittura miserabili.

Nessun centralismo fascista È riuscito a fare ciÃ’ che ha fatto il centralismo della civiltÀ dei consumi. Il fa­scismo proponeva un modello, reazionario e monumen­tale, che perÃ’ restava lettera morta. Le varie culture par­ticolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuava­no imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli impo­sti dal Centro, È totale e incondizionata. I modelli cul­turali reali sono rinnegati. L'abiura È compiuta. Si puÃ’ dunque affermare che la «tolleranza”della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, È la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si È potuta eserci­tare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, inter­ne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle in­frastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai stretta­mente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distan­za materiale. Ma la rivoluzione del sistema d'informa­zioni È stata ancora piÙ radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l'intero pae­se, che era cosÃŒ storicamente differenziato e ricco di cul­ture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticitÀ e concretezza. Ha impo­sto cioÈ - come dicevo - i suoi modelli: che sono i mo­delli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta piÙ di un «uomo che consuma», ma pre­tende che non siano concepibili altre ideologie che quel­la del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente di­mentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che « omo­logava» gli italiani. Ora esso È diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che È l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo po­tere giÀ da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c'È infatti niente di religioso nel modello del Gio­vane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'inten­de, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuo­vo modello che la televisione impone loro secondo le nor­me della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, di­ventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura cosÃŒ minima da diventarne vittime. Fru­strazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d'animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergogna-vano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del pro­prio modello popolare di analfabeti in possesso perÃ’ del mistero della realtÀ. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i «figli di papÀ», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche piÙ, l'hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l'analfabetismo e la roz­zezza. I ragazzi sottoproletari - umiliati - cancellano nella loro carta d'identitÀ il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Natural­mente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno sÙbito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell'adeguarsi al modello «televisivo» – che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli È sostanzialmente naturale - diviene stranamÈnte rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghe­si si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi produco­no, essendo di carattere tecnologico e strettamente prag­matico, impedisce al vecchio « uomo» che È ancora in loro di svilupparsi. Da ciÃ’ deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltÀ intellettuali e morali.

La responsabilitÀ della televisione, in tutto questo, È enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non È soltanto un luogo attraverso cui passano i messag­gi, ma È un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalitÀ che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della te­levisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuo­vo potere.

Non c'È dubbio (lo si vede dai risultati) che la televi­sione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non È stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano: il nuo­vo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre

8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensitÀ del mondo contadino[4]

Caro Calvino,

Maurizio Ferrara[5] dice che io rimpiango un'«etÀ dell'oro», tu dici che rimpiango l'«Italietta» : tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpian­to un valore negativo e quindi un facile bersaglio.

CiÃ’ che io rimpiango (se si puÃ’ parlare di rimpianto) l'ho detto chiaramente, sia pure in versi («Paese Sera» , 5-1-1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non ca­pire È naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l'«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di CalderÃ’n , non hai let­to una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciÃ’ che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l'Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.

L'«Italietta» È piccolo-borghese, fascista, democristiana; È provinciale e ai margini della storia; la sua cul­tura È un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta È stata un paese di gen­darmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tor­mentato, linciato per quasi due decenni . Questo un gio­vane puÃ’ non saperlo. Ma tu no. PuÃ’ darsi che io abbia avuto quel minimo di dignitÀ che mi ha permesso di na­scondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e ave­va terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi perÃ’ di­menticarlo tu

() Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, È anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e bor­ghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un'altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e inno­centi) di classe. Sfondare le pareti dell'Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadi­no, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L'or­dine in cui elenco questi mondi riguarda l'importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo pre­borghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell'Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalitÀ, tale mondo non coincideva affatto con l'Italia. L'univérso contadino (cui apparten­gono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie - ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel '17, È un universo transnazionale: che addirittura non rico­nosce le nazioni. Esso È l'avanzo di una civiltÀ prece­dente (o di un cumulo di civiltÀ precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano - penso a De Marti­no - la nazione a lui estranea, È stato prima il Re­gno Borbonico, poi l'Italia piemontese, poi l'Italia fascista, poi l'Italia attuale: senza soluzione di conti­nuitÀ).

È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il piÙ a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso soprav­vive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch'esso en­trando nell'orbita del cosiddetto Sviluppo).

Gli uomini di questo universo non vivevano un'etÀ dell'oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l'Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chia­mato l'etÀ del pane. Erano cioÈ consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che ren­deva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre È chiaro che i beni superflui rendono super­flua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).

Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. CiÃ’ non mi impe­disce affatto di esercitare sul mondo attuale cosÃŒ com'È la mia critica: anzi, tanto piÙ lucidamente quanto piÙ ne sono staccato, e quanto piÙ accetto solo stoicamente di viverci.

Ho detto, e lo ripeto, che l'acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mon­do, cui le culture contadine italiane sono profonda­mente analoghe): il modello culturale offerto agli ita­liani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) È unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell'esistenziale: e quindi nel corpo e nel com­portamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltÀ dei consumi, cioÈ del nuovo e del piÙ repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell'espressivitÀ. I dia­letti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli son costretti a non parlarli piÙ per­ché vivono a Torino, a Milano o in Germania. LÀ dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni lo­ro potenzialitÀ inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe piÙ in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l'annesso glossario come un buon borghese del Nord!

Naturalmente questa mia «visione» della nuova real­tÀ culturale italiana È radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue re­sistenze, le sue sopravvivenze.

Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l'edonismo consumistico) un giovane fascista non puÃ’ piÙ essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benis­simo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora piÙ infelici di noi: e quindi probabilmente anche migliori. ()

Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all'altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sÃŒ, gli uomini sono sempre stati conformisti e il piÙ possibile uguali l'uno all'altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all'interno di tale di­stinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui ca­de la «mutazione» antropologica) gli uomini sono con­formisti e tutti uguali uno all'altro secondo un codice interciassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente nel­l'ansiosa volontÀ di uniformarsi.

Infine, caro Calvino, vorrei farti notare urla cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata rispo­sta alle mie tesi, sul «Messaggero» (18 giugno 1974) ti È scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta del­la frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spe­ro di non aver occasione di conoscerli.» Ma: 1) certa­mente non avrai mai tale occasione, anche perché se nel­lo scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei gio­vani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non in­contrare mai dei giovani fascisti È una bestemmia, per­ché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per indi­viduarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e prede­stinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissÀ quali ra­gioni e necessitÀ – ha posto loro razzisticamente il mar­chio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e ne­vrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.

Pier Paolo Pasolini

(Bologna 1922 – Roma 1975) Il forte legame con la madre, friulana di origine contadina, e la permanenza a Casarsa del Friuli durante la guerra, produssero l’interesse di Pasolini per la letteratura dialettale; le sue prime produzioni sono infatti versi in dialetto friulano. Nel ’47 si iscrisse al partito comunista, iniziando un’attivitÀ di militante. Divenuto insegnante in una scuola media, nel ’49 venne accusato di corruzione di minorenni, sospeso dall’insegnamento ed espulso dal partito. Trasferitosi a Roma con la madre, visse in condizioni di estrema indigenza; ma conobbe il vitalismo del sottoproletariato delle borgate e ne restÃ’ affascinato. In questo mondo sono ambientati i due romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), che lo posero al centro dell’attenzione del mondo intellettuale, ma gli valsero anche un processo per pornografia.



Articolo apparso sul Corriere della sera col titolo “Sfida ai dirigenti della televisione”.

Alla fine del 1973, era stato chiamato austerity un insieme di provvedimenti che miravano a ridurre il consumo di energia: divieto assoluto di circolazione di veicoli a motore privati la domenica, fine delle trasmissioni televisive alle ore 23, riduzione dell’illuminazione stradale, ecc. Le misure di “austeritÀ” (attuate, con diverse modalitÀ, in molti paesi industrializzati) erano la conseguenza di un improvviso raddoppiamento del prezzo del petrolio, provocato dalla guerra scoppiata nell’ottobre di quello stesso anno tra Israele e alcuni stati arabi (guerra del Kippur).

Il Centro a cui allude Pasolini È l’inafferrabile entitÀ che detiene tutti i poteri, l’insieme strettamente connesso dei poteri economici, tecnologici e decisionali che preside a tutte le scelte politiche e culturali e influisce in maniera decisiva anche sulle scelte individuali.

Articolo apparso su Paese Sera col titolo “Lettera aperta a Italo Calvino: Pasolini: quello che rimpiango”.

All’epoca redattore dell’UnitÀ, quotidiano del PCI.

La definizione di Italietta si attribuisce spregiativamente all’Italia dei primi del ‘900, considerata povera e provinciale.

Quotidiano romano, schierato su posizioni di sinistra.

Rispettivamente, una raccolta di poesie e un’opera teatrale di Pasolini.

Pasolini subÌ ripetutamente attacchi polemici, censure e cause giudiziarie a motivo della dichiarata omosessualitÀ e per i temi e il linguaggio dei suoi libri e dei suoi film.

Ernesto De Martino (Napoli 1908 – Roma 1965) È stato uno dei piÙ importanti studiosi italiani della cultura popolare.



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