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Vorrei cominciare questi capitoli sugli asteroidi con due citazioni. La prima è tratta da un articolo del 1971 di Tom Gehrels, uno dei massimi studiosi di asteroidi degli ultimi 30 anni: “Siamo ora alla soglia di un’epoca nuova nello studio degli asteroidi”. La seconda frase è contenuta nella prefazione dell’ultima “summa” sugli asteroidi, il libro Asteroids III (2002): “Le cose grandi hanno un inizio piccolo”. Esse illustrano molto bene sia il tumultuoso sviluppo della scienza dei corpi minori, il cui inizio può veramente essere posto nel 1971, sia l’importanza che oggi si dà a questo studio come premessa indispensabile per comprendere la storia dei corpi maggiori del sistema solare.
Per molti anni si è ritenuto che gli asteroidi fossero oggetti confinati nella regione tra Marte e Giove, di composizione sostanzialmente rocciosa e, tutto sommato, poco interessanti nell’economia generale dello studio del sistema solare (e ancor meno in quello dell’astrofisica). Solo dopo il 1970, e in particolare dopo il convegno Physical Studies of Minor Planets del 1971 (che produsse il volume da cui è stata tratta la citazione di Gehrels), ci si è resi conto che gli asteroidi si trovano un po’ dovunque nel sistema, che sono diversissimi per composizione, dimensioni, stato rotazionale, caratteristiche superficiali, storia passata, e che rappresentano una vera e propria miniera di informazioni sulla storia del sistema. Un po’ più recentemente, dopo il 1980, si è anche dimostrato che l’esistenza degli asteroidi non è indifferente per la nostra stessa esistenza: è ormai assodato che l’evoluzione della vita terrestre è stata in alcuni casi influenzata anche pesantemente da questi minuscoli oggetti.
Abbiamo quindi vari motivi per pensare che lo studio degli asteroidi sia non solo affascinante per la varietà di problemi fisici (e non solo) che presenta, ma anche per la sua importanza fondamentale per la comprensione della storia del sistema solare, e infine per la sua rilevanza sociale.
Gli “asteroidi” sono classificati in base al fatto che non sono pianeti né loro satelliti e che non presentano cenni di attività (gas e polveri) e quindi non sono classificabili come “comete” secondo la terminologia in uso. Questo però non vuol dire, come già accennato, né che gli asteroidi siano tutti uguali, né che si trovino nella stessa regione di spazio, né infine che abbiano la stessa origine. Conviene quindi dare un rapido panorama di quali oggetti siano attualmente classificati in questo grande e variegato insieme di corpi minori.
La maggior parte degli asteroidi attualmente catalogati sono quelli della fascia principale (main belt), situata tra l’orbita di Marte e quella di Giove. Sono storicamente gli oggetti scoperti per primi, per il semplice motivo che sono più vicini a noi. Già nel 1977, però, fu individuato un oggetto che orbitava tra Giove e Saturno, 2060 Chiron. Non avendo attività evidente, esso fu considerato il primo di una nuova classe di oggetti al di là di Giove e, in accordo con il nome del primo oggetto scoperto, ai successivi fu dato sempre il nome di un centauro della mitologia greca. Per questo motivo sono ora collettivamente chiamati Centauri, come abbiamo detto.
I Centauri non hanno orbita stabile, come scoperto immediatamente, e dopo pochi anni dalla sua scoperta si è visto che 2060 Chiron aveva un’attività di tipo cometario. Tuttavia, per evitare di confondere la già complicata maniera di classificazione fu deciso che 2060 Chiron avrebbe continuato ad essere considerato un “asteroide”, anche se era evidente che assomigliava di più alle comete. Il punto è che non si erano mai osservati oggetti “di transizione” tra asteroidi e comete, e si supponeva che 2060 Chiron avesse comunque avuto origine ben all’interno della regione planetaria.
Non passarono molti anni e un’altra scoperta portò di nuovo a sconvolgere il mondo dei corpi minori. Fu infatti osservato un oggetto, 1992 QB1, con orbita esterna a Nettuno, appena al di fuori della regione planetaria (Plutone è un caso molto complicato di classificazione). Questo nuovo oggetto era anch’esso il primo di una nuova classe di corpi minori, che sono ora collettivamente chiamati transnettuniani, come abbiamo già detto, o con le sigle KBO (Kuiper Belt Object) e TNO (Trans-Neptunian Object)[1]. Possiamo fin d’ora accennare ad un’altra anomalia nella classificazione: non vi è dubbio che i transnettuniani siano comete; anzi, la sorgente delle comete di corpo periodo e degli stessi Centauri. Non hanno però attività fisica evidente, perché sono troppo lontani dal Sole, e perciò sono classificati come asteroidi. C’è davvero bisogno di mettere un po’ d’ordine.
La scoperta di 1 Ceres nel 1801 fu salutata dagli astronomi come una liberazione: da tempo essi avevano notato una curiosa regolarità nella posizione dei pianeti, nota come “legge di Titius-Bode”: una semplice formula empirica[2] forniva le posizioni dei pianeti utilizzando una successione di numeri interi. La regola prediceva con discreta approssimazione le posizioni di Mercurio, Venere, Terra e Marte; poi c’era un posto vuoto, a cui non corrispondeva nessun pianeta (a una distanza dal Sole di 2.8 UA). Quindi la successione ricominciava a predire correttamente le posizioni di Giove, Saturno e Urano (Nettuno e Plutone non erano stati ancora scoperti). Orbene, risultò che 1 Ceres si trovava proprio nel posto vuoto, alla distanza di 2.8 UA.
Ben presto altri asteroidi si aggiunsero alla lista: 2 Pallas, 3 Juno, 4 Vesta, solo per citare i primi. Alla fine dell’800 erano state scoperte alcune centinaia di asteroidi: il migliaio fu superato nei primi decenni del ‘900, il quinto migliaio nel 1987; si arrivò a 10.000 nel 1999 e a 50.000 nel 2002. All’inizio di marzo 2004 sono noti più di 160.000 asteroidi, poco più di metà dei quali è in attesa di numerazione. Basta questo a dimostrare la tremenda accelerazione recente nella scoperta di asteroidi.
Non sappiamo bene quanti siano i membri di questa popolazione; per gli oggetti più grandi (di dimensioni maggiori di un chilometro) c’è chi parla di un milione o più. Di certo sappiamo solo che la maggior parte degli asteroidi noti oggi si trova, come 1 Ceres, tra Marte e Giove, a formare la fascia asteroidale principale (si veda la figura 5.1). La maggior parte, tuttavia, non vuol dire tutti; un certo numero di oggetti (e si parla di un “grande” numero di oggetti) si trova esattamente lungo l’orbita di Giove. Sono i cosiddetti asteroidi Troiani, per un motivo che vedremo tra breve.
Altri, invece, si trovano all’interno dell’orbita di Marte o – più esattamente – intersecano l’orbita di Marte e spesso anche quelle della Terra, di Venere e di Mercurio. Vedremo in un prossimo capitolo le caratteristiche di questi ultimi oggetti; per ora limitiamoci alla fascia principale e ai Troiani.
La prima osservazione da fare riguarda la distribuzione degli asteroidi secondo la loro distanza media dal Sole. Nella figura 5.2 è indicata la distribuzione dei semiassi delle orbite degli asteroidi numerati (79084 alla data del 16 marzo 2004, ma non tutti entrano nella figura) nella zona di spazio che si estende da 1.5 UA (il semiasse dell’orbita di Marte è di 1.53 UA) a 5.5 UA (il semiasse dell’orbita di Giove è di 5.2 UA).
Come si può vedere nella figura, vi sono pochi asteroidi all’interno delle 2 UA. Quindi il numero cresce improvvisamente: la fascia principale comincia proprio a 2 UA e si estende fino a 3.3 UA. A quella distanza il numero di asteroidi decresce bruscamente, ma non si annulla: vi sono delle piccole concentrazioni ancora a 3.4, 4.0 e 4.3 UA (quest’ultima non visibile alla scala della figura). Dopo una zona pressoché vuota, infine, si può notare ancora una cospicua concentrazione a 5.2 UA, in corrispondenza del semiasse dell’orbita di Giove.
La fascia principale, tuttavia, non è uniformemente riempita; vi sono delle distanze dal Sole a cui corrisponde un piccolo numero di oggetti (o addirittura nessuno), mentre ad altre distanze la distribuzione presenta dei picchi piuttosto pronunciati. Bisogna tuttavia notare che le distanze riportate in figura 5.2 corrispondono ai semiassi delle orbite, non alle posizioni degli asteroidi[3]. In un dato istante questi oggetti saranno distribuiti in maniera casuale in tutta la fascia, come è mostrato in figura 5.1.
A cosa sono dovuti i “vuoti” di figura 5.2? La risposta risiede in un fenomeno dinamico abbastanza comune nel sistema solare: le risonanze orbitali. Supponiamo che un asteroide abbia un’orbita tale che il suo periodo (cioè il suo “anno”) sia di 6 anni terrestri. Poiché il periodo di Giove è di circa 12 anni, il rapporto tra i due periodi sarà 1:2. Questo vuol dire che nel tempo impiegato da Giove a compiere un giro lungo la sua orbita l’asteroide avrà fatto due giri attorno al Sole: alla fine la disposizione spaziale del Sole, di Giove e dell’asteroide sarà uguale a quella che si aveva all’inizio. Si dice che due orbite sono in “risonanza” quando il rapporto tra i rispettivi periodi è esprimibile come una frazione di numeri interi piccoli, come ad esempio 1:2 o 1:3. Il termine risonanza viene dalla musica: una nota e la sua ottava superiore sono in risonanza (cioè due corde accordate su di esse, ad esempio in un pianoforte, “suonano insieme”), perchè la frequenza di quella più bassa è la metà di quella più alta (risonanza 1:2).
Una risonanza orbitale provoca una situazione singolare; poiché la disposizione geometrica degli oggetti si ripete ciclicamente, anche le “perturbazioni” dei due corpi tra di loro si ripetono con la stessa frequenza. In pratica, essendo un asteroide notevolmente più piccolo di Giove, è il suo moto ad essere perturbato mentre quello del pianeta non ne risente affatto. Le perturbazioni provocano un graduale aumento del semiasse, e quindi del periodo (per la terza legge di Kepler, vedi figura 5.3). Dopo qualche rivoluzione, quindi, l’asteroide sarà “uscito” dalla risonanza, essendo il suo semiasse per esempio aumentato fino a 6.1 anni. Ora i due oggetti si presentano leggermente sfasati al loro incontro e il semiasse dell’asteroide comincerà gradualmente a diminuire. Esso “attraverserà” di nuovo la risonanza e decrescerà, per esempio, fino a 5.9 anni. Il lettore avrà già capito che questo processo si ripeterà di nuovo e di nuovo, facendo in modo che il semiasse dell’asteroide oscilli attorno al valore esatto della risonanza, come un pendolo attorno al suo asse.
Questa oscillazione prende il nome di librazione. Ad un periodo di 6 anni corrisponde un semiasse di 3.2 UA. Orbene, come si vede dalla figura 5.2 proprio a quella distanza corrisponde uno dei “vuoti” della fascia principale (le cosiddette lacune di Kirkwood). Un semplice calcolo mostra che le altre lacune principali corrispondono a periodi nelle risonanze 1:3, 2:5, 3:7, 4:9. Il bordo interno della fascia corrisponde alla risonanza 1:4 e quello esterno proprio alla 1:2.
Tralascio, per il momento, di cercare una spiegazione al perché non vi siano quasi oggetti in corrispondenza delle risonanze con Giove: il discorso verrà ripreso e ampliato in un prossimo capitolo. Vorrei però far notare di nuovo che, contrariamente a quanto avviene nella fascia principale, proprio al di là delle 3.2 UA vi sono due concentrazioni: quella a 4.0 UA corrisponde alla risonanza 2:3, quella a 4.3 UA alla risonanza 3:4.
Veniamo infine al gruppo di asteroidi che si trovano quasi esattamente alla distanza di Giove (5.2 UA, si veda la figura 5.4). Come abbiamo detto prima essi prendono il nome collettivo di Troiani. C’è un motivo storico per questo; il primo asteroide di questa classe (588 Achilles) fu scoperto da M. Wolf nel 1906. Ci si accorse subito che l’asteroide in questione si trovava in un punto speciale del sistema solare: lungo l’orbita di Giove, ma 60° avanti a questo. Si era già dimostrato che questa posizione – così come quella simmetrica, 60° dietro Giove – sarebbe stata particolarmente stabile, cioè gli oggetti che vi si trovassero sarebbero stati perturbati molto poco dal pianeta.
I due punti avanti e dietro Giove (ma questo è vero per qualunque sistema con due corpi maggiori) si dicono punti lagrangiani (dallo scopritore, il torinese Lagrange) L4 e L5.
Dopo 588 Achilles sono stati scoperti moltissimi altri asteroidi, sia nel punto L4 che nel punto L5. Si è allora deciso di continuare a dare a quelli in L4 un nome preso dall’Iliade e riguardante la parte troiana e a quelli in L5 il nome di un combattente greco (si noti che 588 Achilles si trova nel “campo” sbagliato). I Troiani (e i Greci) sono tutti nella risonanza 1:1 con Giove, cioè hanno lo stesso semiasse e quindi lo stesso periodo del pianeta.
Nel primo paragrafo si è detto che gli asteroidi possono essere ritenuti pezzi di un pianeta mai nato. E’ giunto il momento di giustificare questa affermazione.
Ritorniamo per un momento all’epoca in cui i planetesimi si stavano accrescendo per formare i pianeti. Nell’attuale fascia asteroidale, come del resto anche in altre parti del disco, vi doveva essere un notevole numero di planetesimi che si stavano pian piano accrescendo. Vi doveva essere, dunque, anche un certo numero di embrioni con dimensioni di circa 1.000 km. Ora, perché due oggetti urtandosi restino uniti è necessario che la velocità relativa al momento dell’urto sia molto piccola, dell’ordine delle decine o al massimo centinaia di metri al secondo. Se i due corpi hanno una velocità relativa maggiore di 1 km/sec, l’accrescimento non avviene, ma piuttosto i due oggetti si frantumano in molti altri oggetti più piccoli.
Cerchiamo dunque di immaginare la situazione. Intorno a 1.5 UA si sta accrescendo Marte: possiamo ritenere che l’embrione del pianeta abbia già raggiunto una dimensione notevole. A 5.2 UA si sta accrescendo Giove, con una massa molto maggiore di quella di Marte (e di quella degli embrioni presenti nella fascia principale). Durante l’accumulazione di quest’ultimo pianeta, molti planetesimi gioviani furono deviati, attraverso incontri ravvicinati, verso l’interno del sistema. Questi “intrusi” scompigliarono la distribuzione di oggetti nella fascia, aumentando – attraverso urti – le velocità relative tra i progenitori degli asteroidi. Queste velocità vennero ulteriormente aumentate dalle perturbazioni dirette di Giove attraverso il meccanismo delle librazioni. Le collisioni tra asteroidi cominciarono allora ad essere distruttive anziché costruttive, interrompendo il processo di accrescimento. Solo gli embrioni più grandi sopravvissero alla frammentazione collisionale: sono gli attuali “giganti” della fascia, come 1 Ceres.
In base a questa teoria l’evoluzione susseguente della fascia asteroidale è stata dominata da urti tra oggetti a velocità piuttosto elevate (circa 5 km/sec). Ad ogni urto si sono originati altri “asteroidi”, nel senso che i frammenti dei corpi collidenti hanno cominciato a muoversi indipendentemente.
E’ tuttavia naturale pensare che, per un certo periodo di tempo dopo un urto distruttivo, i “pezzi” abbiano mantenuto orbite simili. Se dunque la teoria è sensata, e se le collisioni avvengono ancora oggi, noi dovremmo trovare qui e là delle concentrazioni di asteroidi con orbite simili. Questo è precisamente quello che si osserva. Fu il giapponese Hirayama, nel 1918, ad osservare per primo che, riportando in grafico il semiasse e l’eccentricità o l’inclinazione delle orbite degli asteroidi, si potevano notare almeno tre grosse concentrazioni che, dal nome degli oggetti più grandi, furono chiamate Koronis, Eos e Themis (si veda la figura 5.5).
L’opinione più diffusa attualmente è appunto che le concentrazioni di asteroidi, in base ai loro parametri orbitali, siano dovute a frammentazione di oggetti in seguito ad un violento urto. Per questo motivo esse sono chiamate famiglie di asteroidi: ne riparleremo nel prossimo capitolo.
Da poco più di trent’anni l’interesse per gli asteroidi è
dunque cresciuto enormemente nella comunità di studiosi di scienze planetarie.
Questo è dovuto in parte alla consapevolezza acquisita che lo studio di questi
oggetti fa luce sulle fasi di accumulazione dei pianeti, fasi che non possono
essere indagate studiando direttamente i pianeti. Questi, infatti, nei miliardi
di anni della loro vita hanno certamente subito tali e tanti cambiamenti da non
serbare quasi memoria di quegli eventi iniziali. Gli asteroidi, al contrario,
sono rimasti (a parte la frammentazione) come erano all’inizio, senza
evoluzione ulteriore.
Come si è detto precedentemente, non sappiamo con esattezza di cosa siano composti gli asteroidi. E’ però opinione diffusa che questi oggetti presentino un vasto spettro di composizioni: sarà necessario esaminarne da vicino un buon numero prima di avere un’idea chiara della loro natura. Non è tuttavia impossibile effettuare qualche studio da terra. Una tecnica molto usata è la spettrofotometria. Si tratta in sostanza di esaminare la luce solare riflessa da un asteroide a varie lunghezze d’onda, costruendo una “curva” che è caratteristica dell’asteroide esaminato (vedi figura 5.6). Utilizzando questi dati, è possibile classificare gli asteroidi in base alla loro risposta spettrofotometrica, e tentare così una sorta di tassonomia, un po’ come si fa con le specie viventi in base alle loro caratteristiche fisiche.
Negli ultimi anni sono stati fatti numerosi tentativi, che hanno portato a dividere la maggioranza degli asteroidi in “classi tassonomiche” (si veda la tabella 1). Si è anche tentato, con un discreto successo, di legare queste classi ai tipi di meteoriti che si trovano nei nostri musei; si può supporre che se una classe tassonomica ha una curva spettrofotometrica che assomiglia a quella di un dato tipo di meteorite, gli asteroidi che ne fanno parte avranno anche, più o meno, la composizione media di quel tipo di meteorite.
Questo procedimento ha almeno due difetti: parte dal presupposto che le meteoriti siano frammenti di asteroidi (cosa abbastanza probabile) e che le misure spettrofotometriche siano rappresentative della composizione “media” dell’oggetto (cosa più dubbia).
La maggioranza degli asteroidi si divide in poche grandi classi, basate sulla quantità di luce solare che essi riflettono, detta l’albedo, e sulla forma del loro spettro. Gli asteroidi “S” (S sta per silicaceo) sembrano fatti sostanzialmente di rocce silicatiche, molto simili a quelle terrestri. Gli asteroidi “C” (C sta per carbonaceo), invece, mostrano un alto contenuto di rocce carbonatiche: questi materiali sono meno frequenti nella crosta terrestre. Vi sono poi gli asteroidi “M” (metallici) e un certo numero di classi meno popolate.
I tipi asteroidali non sono tutti presenti in ugual misura in tutta la fascia principale. Partendo dall’interno della fascia, a 2 UA, predominano dapprima gli asteroidi di tipo “E”, seguiti da quelli di tipo “S”. La parte centrale e quella esterna della fascia hanno invece una predominanza di tipi “M” e “C”, mentre oltre il limite esterno si trovano in maggioranza oggetti di tipo “P”. Tra i Troiani, infine, abbonda il tipo “D”. Questa differente disposizione riflette con tutta probabilità differenze originarie di composizione della nebulosa solare, ma non possiamo certamente trascurare gli effetti dovuti ad una evoluzione successiva della fascia asteroidale.
Dobbiamo poi ricordare che in genere gli asteroidi, tranne i più grandi, non hanno subito il processo di differenziazione, cioè che il materiale di cui sono composti non è mai stato rielaborato per effetto della temperatura e della pressione, come invece è avvenuto ai materiali di cui è composto un pianeta. Essi quindi conterranno minerali poco frequenti nella crosta terrestre, e tracce di elementi che da noi sono molto rari[4].
Le classi tassonomiche sono state utilizzate per tentare di studiare la frammentazione degli asteroidi. Si ritiene, ad esempio, che 4 Vesta sia il nucleo di un corpo più grande, “scortecciato” da numerose collisioni. 4 Vesta (obiettivo della futura missione DAWN della NASA) è uno degli asteroidi maggiori, uno dei pochi che hanno raggiunto dimensioni tali (e quindi temperature e pressioni interne tali) da iniziare la differenziazione del materiale al suo interno. 4 Vesta presenta un aspetto basaltico: se esso è il nucleo di un embrione più grande, questo è abbastanza plausibile (durante la differenziazione i materiali più pesanti, come il ferro, “sedimentano” al centro del corpo). Si può allora affermare che gli asteroidi “V” che vediamo siano frammenti di 4 Vesta? Probabilmente sì, proprio perché non sono molti gli asteroidi grandi e differenziati, e questo è l’unico con caratteristiche basaltiche.
In altri casi la ricerca di “parentele” è molto più complessa e più dubbia. Partendo dall’ipotesi che le famiglie derivino dalla frammentazione di un unico oggetto “genitore” (parent body in inglese), lo studio della composizione dei membri di una famiglia può fornire informazioni sulla struttura e composizione del corpo genitore. Gli studi in questo campo danno però risposte piuttosto vaghe: abbiamo veramente bisogno di esaminare questi oggetti più da vicino, magari raccogliendo dei campioni e riportandoli a terra. Missioni asteroidali di questo tipo sono state studiate un po’ da tutte le agenzie spaziali, compresa quella italiana. Sono però missioni complesse e costose e finora è mancata una motivazione forte per effettuarle. Ritengo tuttavia che l’interesse per gli oggetti primitivi, compresi gli asteroidi, stia crescendo rapidamente, sia nella comunità scientifica che negli ambienti “spaziali”.
Esistono anche nomi più fantasiosi. Abbiamo visto che gli oggetti che, come Plutone, si trovano nella risonanza 3:2 con Nettuno sono talvolta chiamati plutini. Similmente, gli oggetti come 1992 QB1 sono anche denominati, con orribile termine, qubiuani.
La formula è D = 0.4 + 0.6 x 2n, dove D è la distanza dal Sole in unità astronomiche e n è uguale a - per Mercurio, -1 per Venere, 0 per la Terra, 1 per Marte, e così via. Essa predice risultati del tutto errati per Nettuno (n = 6: 39 contro 30) e per Plutone (n = 7: 77 contro 39). Non è affatto chiaro se sotto questa presunta regolarità si celi un qualche motivo fisico.
Per un'orbita ellittica la distanza dal Sole varia tra a(1-e) ed a(1+e), come abbiamo visto. Quindi le posizioni, cioè le distanze effettive dal Sole, sono uguali ad a solo in due punti dell'orbita.
Vedremo oltre che questa circostanza è la prova più diretta dell’origine asteroidale di un evento d’impatto sulla Terra.
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