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La nostra comprensione dei meccanismi di trasferimento esaminati nei capitoli precedenti è ancora molto superficiale. Tuttavia di una cosa siamo certi: essi sono ampiamente sufficienti a giustificare la presenza di corpi minori nella zona dei pianeti interni.
E’ giunto dunque il momento di fare una conoscenza più dettagliata con questi oggetti. Per distinguerli dagli altri corpi minori del sistema solare (asteroidi di fascia principale, Troiani, Centauri, comete, transnettuniani) sono state proposte negli anni varie nomenclature. Collettivamente, però, sono chiamati NEO, dalle iniziali delle parole inglesi Near-Earth Objects, oggetti vicini alla Terra. Sappiamo già che alcuni NEO sono asteroidi, o loro frammenti, provenienti dalla fascia asteroidale, mentre altri sono comete di corto periodo. A seconda della loro orbita, i NEO asteroidali ricevono anche altri nomi: Amor (dall’asteroide 1221 Amor, il primo scoperto di questo tipo) se la distanza perieliaca della loro orbita al momento della scoperta è compresa tra 1.0 e 1.3 UA; Apollo (da 1862 Apollo) se essa è minore di 1.0 UA, il semiasse essendo maggiore di 1.0 UA; Aten (da 2062 Aten) se il semiasse è minore di 1.0 UA e la distanza afeliaca maggiore. Gli oggetti Amor possono in linea di principio passare vicino alla Terra quando questa si trova all’afelio (in estate), avendo un’orbita che può essere tangente nel suo perielio a quella terrestre. Gli Aten e gli Apollo, al contrario, hanno orbite secanti: essi potrebbero incontrare la Terra praticamente in ogni momento dell’anno . Non vengono considerati NEO, anche se “vicini” alla Terra, quei corpi minori che – almeno attualmente – non hanno la possibilità dinamica di passare così vicino da rappresentare un rischio. Così molte comete di corto periodo, pur avendo distanze perieliache minori della distanza di Marte, non giungono alla soglia di 1.3 UA e non sono considerate NEO.
Questa definizione di NEO, un oggetto cioè che può urtare con la Terra, è da prendere con una certa cautela. Alcuni oggetti non hanno ora un’orbita da NEO, ma possono averla avuta nel passato, o potranno averla in avvenire. E’ quindi di estrema importanza che noi si possa calcolare l’evoluzione dinamica dell’orbita di un oggetto sospetto, così da determinare se esso ha o no la possibilità di divenire un NEO.
Anche se l’orbita di un NEO (come ad esempio un Apollo) interseca quella della Terra, non è detto che l’oggetto possa “fisicamente” incontrare il nostro pianeta. L’orbita, ad esempio, potrebbe essere notevolmente inclinata, cosicché essa passi “sopra” o “sotto” quella terrestre. Oppure l’orbita del NEO potrebbe essere almeno temporaneamente in risonanza con quella terrestre, e i due oggetti potrebbero non trovarsi per molto tempo nello stesso posto allo stesso istante (è questa, alla fine, la definizione di urto).
Ma, come si è detto più volte, un’orbita varia nel tempo a causa delle perturbazioni indotte dai pianeti più prossimi. Una perturbazione tipica porta alla rotazione dell’orbita, attorno al suo fuoco, nel suo piano orbitale (precessione del perielio), mentre l’intero piano orbitale ruota attorno al Sole mantenendo stabile l’inclinazione (retrogradazione del nodo). A causa di questi due movimenti l’orbita di un NEO può variare al punto da produrre prima o poi una vera intersezione con quella della Terra. Le due orbite potrebbero allora passare così vicine l’una all’altra che i punti di massimo avvicinamento distino tra loro poco più di un raggio terrestre, nel qual caso una collisione diverrebbe possibile.
La luminosità di un oggetto celeste, che permette la sua identificazione, dipende dalla quantità di luce solare che esso riflette (o dalla luce che emette, se si tratta di una stella o di una galassia) e può variare in un intervallo molto ampio. Essa è detta comunemente magnitudine (dal latino magnitudo: grandezza). Naturalmente lo stesso oggetto se visto a diverse distanze ha magnitudine diversa, così come una candela accesa vista da vicino o da lontano. E’ bene quindi distinguere tra la magnitudine apparente (quella che viene effettivamente osservata e misurata) e la magnitudine assoluta (la luminosità intrinseca dell’oggetto). Quest’ultima viene definita dalla quantità di luce solare rilevata a terra e riflessa da un oggetto che si trovi ad 1 UA di distanza dalla Terra (ma come se fosse vista dal Sole). La scala delle magnitudini è logaritmica, e i loro valori decrescono al crescere della luminosità di un oggetto: il Sole, ad esempio, ha magnitudine assoluta -26,7 mentre la magnitudine limite per l’occhio umano è 6. I più moderni telescopi giungono fino a magnitudine 26-28.
Logicamente, se osserviamo un oggetto “di lato” rispetto al Sole, come ad esempio la Luna quando è al primo o ultimo quarto, riceveremo da esso meno luce che se lo guardassimo “di fronte”: l’angolo tra le congiungenti Terra-oggetto e oggetto-Sole si chiama l’angolo di fase e gioca un ruolo importante nella possibilità di scoperta. Infatti più quest’angolo è prossimo a 0° più luce noi riceviamo; pur essendo costante la magnitudine assoluta, piccoli angoli di fase fanno aumentare quella apparente. Il caso ideale per un’osservazione è quando l’angolo di fase è proprio nullo. La Terra allora si trova tra il Sole e l’oggetto (come quando la Luna è piena) e riceve il massimo di luce riflessa; questa configurazione spaziale si chiama opposizione
La natura fisica e la composizione dei NEO riflette naturalmente la loro origine; se provengono dalla fascia asteroidale saranno prevalentemente rocciosi o metallici, se sono comete saranno formati in gran parte di ghiaccio. Tuttavia lo studio delle proprietà fisiche dei NEO è ancora agli inizi; gran parte del lavoro d’osservazione è stato condotto sugli asteroidi della fascia principale, in genere più grandi e quindi più luminosi, anche se più lontani. Ancor meno si sa sulle comete.
Due NEO studiati con il radar di Arecibo (Porto Rico) in
occasione di un loro passaggio vicino alla Terra[2]
sono mostrati nelle figure 10.1 e 10.2. Essi sono: 4769 Castalia, osservato il
22 agosto 1989 (un Apollo, vedi figura 10.1) e 4179 Toutatis (ancora un Apollo,
vedi figura 10.2), osservato nell’autunno 1992. Come si vede dalle due figure,
ambedue gli oggetti forniscono echi radar che fanno pensare a corpi “doppi”.
Trattandosi di membri di una popolazione collisionalmente evoluta[3], e non operando i meccanismi di immissione nessuna vera selezione basata sulle dimensioni (a parte per il materiale più fine), le caratteristiche della distribuzione in grandezza dei NEO devono seguire da vicino quelle della popolazione di partenza. In sostanza, ci dobbiamo aspettare che vi siano molti più oggetti piccoli che grandi.
Sono stati fino ad ora elaborati due modi per costruire la curva cumulativa delle grandezze dei NEO. Il primo consiste nel misurare i diametri degli oggetti scoperti fino ad oggi. Tuttavia, non è facile determinare la loro dimensione: un oggetto così piccolo non viene visto al telescopio che come un puntino luminoso. Si cerca allora di ricavare la grandezza effettiva dalla luminosità dell’oggetto nell’ipotesi, peraltro ragionevole, che un corpo più grande brilli più di uno più piccolo. Questo procedimento però presuppone che tutti i NEO riflettano la luce solare nello stesso modo cosicché la loro magnitudine assoluta, a parità di angolo di fase, sarebbe direttamente proporzionale alla sezione lungo la linea di vista e quindi al quadrato del diametro del corpo. Questo purtroppo non è vero; anzi, il potere riflettente di un oggetto (la sua albedo) varia notevolmente in dipendenza dal tipo di materiale di cui è costituita la superficie. I nuclei cometari, ad esempio, hanno un’albedo molto piccola, dell’ordine del 2-5%. Si potrebbe allora stimare la dimensione di un NEO considerando un’albedo “media”, ma è un procedimento che dà certamente origine ad un errore, difficilmente valutabile.
Il secondo metodo per determinare le dimensioni dei NEO consiste nell’analizzare le distribuzioni di crateri sulle superfici dei pianeti senza atmosfera. Dai diametri dei crateri, infatti, si può risalire direttamente a quelli dei proiettili, cosicché l’una distribuzione riproduce fedelmente l’altra. Il conteggio dei crateri, uno studio estremamente noioso e non privo di trappole, è in realtà l’unico metodo che possediamo per “datare” una superficie planetaria rispetto ad un’altra; o meglio, per capire da quanto tempo una superficie è esposta al bombardamento cosmico. Se un’analisi di tal fatta viene condotta sulla superficie della Luna, siamo ragionevolmente sicuri di ottenere una distribuzione molto simile a quella degli oggetti che possono cadere sulla Terra, quando si siano tenuti presenti alcuni aspetti non marginali di questa “somiglianza”.
Non tutta la superficie della Luna è ugualmente utile, perché alcune regioni (gli “altopiani”) sono state esposte agli impatti per molto più tempo di altre (i “mari”, che sono più recenti) e quindi forniscono una distribuzione diversa, che serba memoria della fase di bombardamento finale.
Anche esaminando solo le distribuzioni di crateri sui mari lunari stiamo pur sempre accettando implicitamente l’ipotesi che il flusso di impatti sulla Luna (e quindi sulla Terra) non sia variato in modo significativo negli ultimi tre miliardi di anni. Questa ipotesi è ragionevole, in base a prove indirette indipendenti, ma non è sicura.
Il campo di gravità lunare è circa un ottantesimo di quello terrestre (a parità di distanza), e il diametro lunare è circa un quarto di quello della Terra. Ne deriva che il numero di corpi che ha colpito la Luna è certamente minore di quello che ha colpito (e può colpire) la Terra. E’ relativamente semplice, tuttavia, tener conto di questa differenza. Meno semplice è determinare il numero esatto di crateri di ogni classe di dimensione poiché, oltre un certo livello di craterizzazione, i crateri successivi cancellano quelli precedenti[4]. Nel passaggio dalla Luna alla Terra e da una distribuzione “storica”, come quella lunare, ad una “istantanea” bisogna anche tener conto di questi fattori.
Dal diametro del cratere possiamo in realtà dedurre l’energia cinetica del proiettile e non il suo diametro. Per di più la dimensione di un cratere è legata all’energia cinetica del proiettile attraverso una “legge di scala” non propriamente semplice e presumibilmente diversa per ogni pianeta e per ogni terreno.
Malgrado questi “caveat” lo studio dei crateri lunari è forse il metodo migliore che possediamo; un’analisi simile condotta sui crateri terrestri (che costituirebbe la procedura più sicura) non è altrettanto affidabile, poiché sono pochi i crateri terrestri non cancellati dall’erosione e dall’azione degli esseri viventi, e sono tutti piuttosto recenti a causa del continuo ringiovanimento della crosta terrestre operato dalle forze tettoniche.
La miglior stima che sia stata fatta finora dell’abbondanza dei NEO è riportata in figura 10.3. Essa è basata su ambedue i criteri menzionati precedentemente: la statistica degli oggetti scoperti e la craterizzazione lunare[5]. Vi sono due osservazioni importanti da fare a proposito di questa figura.
Intanto la “curva” è effettivamente tale e molto lontana da una retta. Questa diversità riflette le differenti “regole di produzione” a diversi livelli di grandezza; la frammentazione di oggetti grandi produce un maggior numero di oggetti delle classi inferiori rispetto a corpi inizialmente più piccoli, per cui la curva ha una pendenza maggiore verso le grandi dimensioni. In pratica, gli oggetti grandi sono pochi, ma quando si rompono producono una miriade di oggetti piccoli.
In secondo luogo l’incertezza della curva cresce al decrescere del diametro. Ad esempio si stima che vi siano circa 1.000 oggetti delle dimensioni di un chilometro o più, ma questo valore è incerto almeno per un fattore 0.2: gli oggetti potrebbero benissimo essere 800 o 1.200. L’esistenza di questa incertezza è uno dei motivi fondamentali che stanno spingendo verso approfondite campagne d’osservazione.
Si è accennato poc’anzi all’assunzione, implicita nel basare le valutazioni sul numero di crateri della Luna, che il flusso di oggetti nelle vicinanze della Terra sia rimasto pressoché invariato negli ultimi tre miliardi di anni. Se questa ipotesi è vera, come sembra probabile, essa implica che anche la distribuzione media dei NEO è più o meno costante nel tempo, malgrado vi siano un certo numero di processi che portano alla loro scomparsa. Essi infatti cadono sul Sole e sui pianeti e quindi escono definitivamente dalla distribuzione. Per mantenere questa costante è allora necessario che altrettanti oggetti vengano immessi - con la stessa frequenza - nel sistema solare interno dai serbatoi cui si è accennato nei capitoli precedenti, soprattutto la fascia asteroidale.
Per quanto riguarda le comete di corto periodo, che come abbiamo detto sono di meno e più piccole di quelle di lungo periodo, va tenuto presente che esse - oltre a cadere sui pianeti - vanno incontro ad un’altra possibile fine: la scomparsa per consunzione. Una tipica cometa SP, infatti, ad ogni passaggio vicino al Sole perde una frazione non piccola della propria massa; si calcola che la sua magnitudine assoluta, a seguito di questa perdita, cresca di qualche centesimo di magnitudine per rivoluzione. Valutazioni della dinamica delle comete di corto periodo (che, non dimentichiamo, possono sempre essere ritrasferite nelle zone esterne del sistema a seguito di un incontro ravvicinato con Giove), della loro attività fisica e della possibilità di rottura fanno concludere che esse possano compiere tra le 200 e le 800 rivoluzioni attorno al Sole prima di scomparire. Poiché una cometa SP media ha un periodo di sette anni, queste stime si traducono in tempi di vita (come oggetti attivi) tra i 1.000 e i 10.000 anni: un tempo brevissimo su scala cosmica.
I nuclei cometari inoltre si rompono con facilità, generando frammenti che conservano in genere l’aspetto di comete (almeno il frammento più grande). Dopo parecchie scissioni, però, la cometa come tale scompare; il caso più noto di questo genere di “finale” è dato dalla frantumazione e definitiva sparizione dalla scena della cometa P/Biela. Scoperta nel 1772 e riosservata quattro volte fino al 1832, la cometa apparve come un oggetto doppio nel 1846 e nel 1852, dopo di che sparì per sempre. E’ da notare, però, che nel 1872 e 1885 si ebbero due piogge meteoriche (le Bielidi/Andromedidi) con la più alta concentrazione di particelle mai osservata. E’ naturale concluderne che P/Biela si sia completamente disintegrata, o che il suo frammento maggiore abbia perduto tutto il suo gas e sia ormai invisibile.
Vi è infatti un’altro finale possibile: un nucleo cometario può essere privato della componente volatile al punto da non essere più in grado di sviluppare un’atmosfera transiente (cioè una coda e una chioma). In tal caso si parla spesso di “nuclei inattivi” o di “comete morte”. Questa possibilità, in realtà, non produce variazioni nella distribuzione dei NEO, trattandosi sostanzialmente della trasformazione di una cometa in un asteroide (o, meglio, nel suo cambiamento d’aspetto da cometario ad asteroidale).
Abbiamo visto che il numero di NEO nei dintorni della Terra è molto elevato, anche per dimensioni attorno al chilometro (circa 1.000 oggetti). Questo può dare quindi l’impressione che anche il numero di impatti sia molto elevato; e infatti - almeno in parte - è così. Tuttavia la maggioranza di questi impatti passa completamente inosservata. In fin dei conti anche le meteore che periodicamente solcano i nostri cieli sono “impatti”.
Se è complicato determinare la distribuzione dei NEO (e abbiamo visto da quante incertezze sia viziata la sua elaborazione) è ancor più difficile giungere a determinare la probabilità di una collisione. Infatti non è sufficiente affermare ogni quanto tempo un NEO cade sulla Terra, ma è essenziale arrivare a stabilire la frequenza con cui un NEO di una certa dimensione assegnata finisce per urtare con il nostro pianeta. In altre parole, è necessario trasformare la curva cumulativa di grandezza di figura 10.3 in una curva cumulativa di frequenza, che ci dica quanto tempo passa tra la collisione di due oggetti di pari dimensioni. Questa informazione è fornita dalla scala di destra della figura.
Anche in questo caso possiamo procedere in due modi distinti; da un lato calcolare teoricamente (o con l’ausilio di simulazioni al calcolatore) la frequenza di collisione, dall’altro desumere questa dalle distribuzioni di crateri sulla superficie della Luna e di altri corpi planetari. In realtà i due metodi sono strettamente collegati, come un serpente che si mangia la coda, perché le stime teoriche si devono basare, per non essere assolutamente fantasiose, sull’assunzione di uno specifico flusso di oggetti, che a sua volta non può che fondarsi sulla determinazione delle distribuzioni di crateri osservate sui pianeti.
Un concetto centrale nella dinamica dell’urto tra due corpi è quello di sezione d’urto. E’ certamente molto più semplice colpire una palla da tennis con l’apposita racchetta piuttosto che, per esempio, con una mazza da baseball; questo dipende dalla maggiore “sezione d’urto” della racchetta rispetto alla mazza. Così, a parte le considerazioni che fra poco faremo sul campo gravitazionale, è più probabile - a parità di altre condizioni - che un NEO colpisca la Terra piuttosto che la Luna, avendo la prima una sezione d’urto maggiore.
Le dimensioni della Terra definiscono la sua sezione d’urto “geometrica”. Immaginiamo un fascio di luce del diametro di un metro; immaginiamo anche che questo fascio colpisca un dischetto del diametro di dieci centimetri. La domanda è: quanti fotoni del fascio colpiranno il dischetto? La risposta è molto semplice; la sezione d’urto del dischetto è un centesimo dell’area del fascio, quindi ci si può ragionevolmente aspettare che l’1% dei fotoni del fascio cada sul dischetto. Se noi conoscessimo il “flusso” di oggetti nelle vicinanze della Terra, dunque, potremmo calcolare la frazione di questi che cade sulla Terra.
Vi sono varie considerazioni da fare a questo proposito. Primo, i NEO, come qualunque oggetto celeste, non si muovono in linea retta rispetto alla Terra, come invece fanno i fotoni del fascio rispetto al dischetto. La presenza di moti non lineari, come quelli orbitali, cambia di molto la situazione. Secondo, quand’anche conoscessimo le orbite di tutti i NEO, sappiamo che esse variano nel tempo, talvolta in maniera non prevedibile; è difficile calcolare il flusso d’oggetti tenendo conto dei singoli NEO scoperti.
Una terza considerazione ha a che fare con il campo gravitazionale terrestre, che distorce le traiettorie degli oggetti che le passano vicino. In pratica il risultato dell’azione del campo gravitazionale terrestre è di “focalizzare” le traiettorie dei NEO verso il centro della Terra, cosicché oggetti che - dal punto di vista geometrico - non avrebbero colpito il pianeta, limitandosi a sfiorarlo, sono forzati ad urtare grazie all’azione gravitazionale. Il risultato è lo stesso che si otterrebbe se la Terra avesse dimensioni maggiori ma non generasse un campo gravitazionale; per questo motivo nei calcoli sulla probabilità di collisione non si usa la sezione d’urto geometrica, ma la sezione d’urto gravitazionale, calcolata in modo da tener conto di questo fenomeno.
Detto ciò, vediamo quali sono le frequenze di urti con la Terra. Per calcolarle ci si basa in genere sulla teoria elaborata da Ernst Öpik che abbiamo in parte visto nel Capitolo 3. Calcolando le probabilità d’urto per tutti i NEO di una certa dimensione, e prendendone la media, si giunge a valutare il “flusso medio d’impatti” per chilometro quadrato per anno. Da questa quantità è facile giungere alle frequenze: basta moltiplicare per l’area della superficie terrestre e avremo il numero di impatti di una certa dimensione all’anno, su tutta la Terra. L’inverso di questo numero è la frequenza cercata.
Le stime correnti dei flussi medi d’impatto si basano sui lavori di Eugene M. Shoemaker. Egli ha elaborato le sue valutazioni sia partendo dagli oggetti osservati sia dal conteggio di crateri sulla Luna. I due metodi danno risultati comparabili, dell’ordine di 0.7 x 10-14 impatti per chilometro quadrato per anno. Questo valore si riferisce a impatti che potrebbero produrre sulla Terra un cratere di diametro superiore a 10 km. Poiché la superficie terrestre ha un’area di 5 x 108 km2, si avrebbero circa 3 x 10-6 impatti all’anno, cioè uno ogni 300.000 anni. Questa è la frequenza d’urto di oggetti di dimensioni dell’ordine del chilometro o più grandi; l’incertezza di questi valori è di circa un fattore due. Questi calcoli possono essere ripetuti per ogni classe di grandezze, fornendo alla fine la curva cumulativa di frequenze che cercavamo.
Come si vede, la curva fornisce un valore di qualche impatto all’anno per oggetti di qualche metro e di un impatto ogni 2.000 anni circa per oggetti di cento metri. A valori molto grandi delle dimensioni, superiori al chilometro, si ha un impatto ogni qualche centinaio di migliaia di anni, come già detto. Una curva di tal genere può essere ulteriormente elaborata, per dare informazioni sulla frequenza con cui può aver luogo un evento di una determinata capacità distruttiva, che in fin dei conti è la cosa che più ci interessa. Prima però è necessario fare qualche commento sull’energia che si libera durante un impatto.
L’energia sviluppata in un impatto proviene quasi tutta dall’energia cinetica del corpo impattante. La potenza dell’evento viene espressa, nel caso che ci interessa, in “milioni di tonnellate equivalenti” di tritolo, che rappresenta l’energia sviluppata dall’esplosione di questa quantità di trinitrotoluene. Questa unità di misura, il megaton (o MT), è tristemente famosa per essere utilizzata come indicatore dell’energia liberata dall’esplosione di un ordigno nucleare. Per fissare subito una scala di questa grandezza, ricordiamo che la bomba di Hiroshima era una carica da 13 kiloton, mentre le più potenti bombe esistenti oggi negli arsenali nucleari arrivano ad alcune decine di MT. Possiamo allora inserire un’altra scala nella figura 10.3 (quella in alto) che ci fornisce un’indicazione, anche se molto imprecisa, dell’energia sviluppata in un impatto in base ad una composizione media (e quindi una massa media) e ad una velocità relativa media degli oggetti.
Da essa possiamo vedere che l”evento annuale”, cioè quello che avviene almeno una volta all’anno, ha un’energia tipica di 20 kiloton (circa il doppio della bomba di Hiroshima), mentre eventi da 10 megaton si verificano ogni secolo circa. Tuttavia, ogni qualche milione di anni si avrebbero impatti che svilupperebbero da 100.000 a un milione di megaton, un’energia spaventosa. Sono questi ultimi, come vedremo subito, gli eventi più pericolosi per la vita sulla Terra.
A che livelli di energia gli oggetti che cadono sulla Terra cominciano ad essere veramente pericolosi? L’argomento è stato molto dibattuto negli ultimi anni e - anche se non si è raggiunto un accordo completo - si è pervenuti a stabilire una scala di gravità, in base all’ampiezza degli effetti causati da un impatto. Tra un “grado” e l’altro della scala non vi sono solo differenze quantitative (quanti morti, quanti miliardi di danni materiali), ma soprattutto qualitative; probabilmente è difficile sostenere che un evento in cui periscano un milione di persone sia qualitativamente diverso da uno in cui ne muoiano “solo” centomila, ma la differenza è netta se i morti sono dovuti ad effetti generalizzati, come carestie o malattie, piuttosto che derivanti direttamente dall’impatto su una zona densamente popolata.
La scala di gravità ha quattro gradi.
Disintegrazioni ad alta quota (il caso più comune, nessun danno)
Disintegrazione a bassa quota. Effetti locali dovuti all’esplosione
Effetti globali: degrado ambientale generalizzato su tutta la superficie terrestre
Catastrofi planetarie. In una catastrofe ambientale a scala planetaria si verificano senz’altro forti perturbazioni del clima, che possono portare ad estinzioni di massa delle specie viventi
Esamineremo ora uno per uno questi gradi cercando di individuare - da un punto di vista energetico - quali sono i “pioli” che li separano o, in termini un poco più corretti, se esistano dei valori di soglia oltre i quali si possa dire di essere saliti sul gradino successivo. Cercheremo inoltre di collegare ogni livello con una “dimensione tipica” dell’oggetto che può provocarlo e quindi - per quanto detto nel capitolo precedente - con la probabilità che questo evento abbia luogo.
La Terra è continuamente sottoposta al bombardamento di numerosissimi meteoroidi. Come abbiamo già visto però le dimensioni di questi oggetti sono in genere molto ridotte e quindi l’energia che essi sviluppano entrando e bruciando attraverso l’atmosfera terrestre è pure molto limitata. Questa affermazione tuttavia non deve trarre in inganno; l’energia dell’esplosione di un oggetto compatto di dieci metri, alla velocità d’urto tipica di 20 km/s, è di circa 1 MT. Diciamo che si libera un’energia “piccola”, pur essendo equivalente a 100 bombe di Hiroshima, perché l’atmosfera è uno scudo pressoché impenetrabile per oggetti con quell’energia cinetica. Essi bruciano e si disintegrano ben prima di arrivare al suolo e l’energia viene dispersa nell’aria sotto forma di calore e onda d’urto meccanica. L’energia delle normali stelle cadenti (ben più piccole di dieci metri) è quasi sempre sotto il kiloton.
Un’altra differenza sostanziale tra queste esplosioni e quelle delle bombe atomiche risiede nell’assenza di radiazioni. La radioattività di una bomba è dovuta alla fissione o fusione dei nuclei atomici che danno origine - direttamente o indirettamente - a materiali radioattivi. Nell’esplosione di un bolide nell’atmosfera non si generano nuclei radioattivi e quindi non c’è radioattività.
Così come faremo nei paragrafi successivi, cerchiamo di suddividere gli eventi collegati con questo primo livello in fenomeni nell’atmosfera e fenomeni al suolo, indicando gli effetti diretti, locali e globali, e quelli indiretti.
L’atmosfera terrestre, pur non essendo particolarmente densa in paragone a quella di altri pianeti, costituisce uno scudo molto efficiente contro le collisioni. Già ad un’altezza di più di un centinaio di chilometri l’attrito dell’aria su un corpo in caduta è in grado di riscaldarne la superficie fino a fonderla[6]. Dal corpo si staccheranno allora minutissime goccioline di materiale fuso, non più grandi di qualche millesimo di millimetro. Questo processo, l’ablazione, è in grado di consumare completamente i corpi più piccoli, quelli cioè con dimensioni minori di un metro.
Gli oggetti più grandi possono frammentarsi. Questo avviene perché la resistenza opposta dall’aria alla penetrazione dell’oggetto provoca una forte pressione sulla sua faccia anteriore, mentre lo stesso movimento del corpo attraverso l’aria dà origine ad una notevole depressione sulla faccia posteriore. Se lo sforzo a cui il corpo è così sottoposto diviene maggiore della resistenza del materiale di cui è composto, esso si frantuma in numerosi pezzi.
Naturalmente oggetti di diverso materiale si comporteranno in maniera diversa. Qui come nel seguito prenderemo in considerazione tre tipi di materiale: le “palle di sabbia” (cioè comete private del ghiaccio), la “roccia” (sul tipo del materiale di cui sono composte le meteoriti condritiche, o gran parte degli asteroidi), il “ferro” (alcuni frammenti di asteroidi, specialmente quelli di tipo M). I termini saranno tra virgolette, perché non si confondano con quelli usati comunemente. Un oggetto di “ferro” non va certamente inteso come un blocco di ferro, ma piuttosto come una matrice ad alto contenuto di metalli, come il ferro e il nichel.
Questi materiali hanno proprietà di coesione molto diverse e pertanto si frantumano ad altezze diverse. Possiamo affermare che una “palla di sabbia” comincia a frammentarsi tra i 50 e i 40 km d’altezza (in dipendenza dalla velocità e dall’angolo d’ingresso), un oggetto “roccioso” tra i 30 e i 10 km, un corpo “ferroso” sotto gli 8.000 metri. In quest’ultimo caso se la velocità d’ingresso nell’atmosfera è minore di circa 12 km/s l’oggetto non si frantuma, ma giunge al suolo pressoché intatto.
La frammentazione di un corpo aumenta la superficie che esso offre all’attrito dell’aria. Ogni pezzo allora si frammenterà a sua volta e il processo continuerà finché i pezzi non avranno decelerato al punto tale che lo sforzo esercitato dall’aria non sarà più sufficiente a romperli ulteriormente.
Durante il processo di decelerazione e frantumazione il proiettile perde energia cinetica, che viene trasmessa in parte all’aria circostante (sotto forma di onda d’urto meccanica e di calore) e in parte irraggiata (sotto forma di luce). In pochi secondi gli oggetti più grandi (intorno ai dieci metri) divengono così luminosi da essere visibili in pieno giorno, se la visibilità atmosferica lo consente. Di notte anche oggetti più minuti possono provocare - come ben sappiamo - una lunga scia luminosa.
A parte gli oggetti “ferrosi” a bassa velocità, tutti i corpi sotto i dieci metri di dimensione si consumano nell’atmosfera, senza raggiungere il suolo. Per le “palle di sabbia” la dimensione limite per la quale questo avviene si aggira attorno ai venti metri. Ad ogni modo gli oggetti di questa classe che raggiungono il suolo non provocano mai danni gravi: sono le normali meteoriti.
Non possediamo alcuna notizia certa di morti causate da una meteorite, ma abbiamo una sia pur scarna documentazione di eventi di lieve entità che hanno causato danni a cose. Nel 1954 una meteorite colpì al fegato una signora americana, per fortuna senza danni rilevanti. Il 9 ottobre del 1992 un’altra meteorite colpì un’automobile a Peekskill, sempre negli Stati Uniti: pare che la proprietaria abbia ricavato molto più del valore dell’auto (peraltro scarso) semplicemente dalla pubblicità che questo evento le ha regalato. Nel maggio 1987 alcuni frammenti “rocciosi” piovvero su Torino: i più grandi tra quelli recuperati (qualche centinaio di grammi) caddero - per ironia della sorte - davanti ai cancelli dell’allora Aeritalia, Gruppo sistemi Spaziali, dove era in corso di montaggio il satellite Hipparcos. Essi formarono un paio di crateri di qualche decina di centimetri di diametro nell’asfalto del parcheggio; altri frammenti caddero sulle case vicine, senza alcun danno. Delle 16 meteoriti note, cadute negli Stati Uniti tra il 1965 e il 1985, sette provocarono danni a cose, una colpì una casa (senza danni) e un’altra una cassetta della posta.
Come per altri eventi di natura astronomica, sono le registrazioni cinesi del passato a fornirci un po’ di materiale con cui poter costruire delle statistiche. Va tuttavia ribadito che non si hanno conferme né documentazioni certe di questi eventi. Durante gli ultimi 600 anni si sarebbero avuti in Cina quattro casi di morte e 13 di danni a cose dovuti a caduta di meteoriti. Estrapolando alla popolazione dell’intera Terra all’epoca attuale, si avrebbe un morto ogni 30-60 anni. E’ certamente una causa di mortalità ben poco preoccupante!
A parte la luce della meteora e talvolta il “bang” sonico provocato dall’onda d’urto, a questo livello di gravità non sono associati effetti collaterali, se si eccettua la possibile raccolta e il conseguente studio dei frammenti. Per nostra fortuna è questo l’evento normale, nel senso che avviene con una certa frequenza ogni anno. In base ai dati raccolti dai satelliti spia americani, che cominciano a circolare con una discreta libertà, tra il 1975 e il 1992 si sono avuti 136 impatti con la Terra di oggetti di dimensioni inferiori ai 30 metri, nessuno dei quali ha raggiunto la superficie terrestre. D’altra parte, quei satelliti sono attrezzati per individuare missili balistici ed esplosioni nucleari, non meteoriti; i dati da essi forniti rappresentano un limite inferiore per eventi di potenza attorno al megaton, che devono essere quindi parecchi di più.
In conclusione possiamo dire che il primo grado della scala non presenta praticamente alcun pericolo per l’ecosistema terrestre né per la popolazione umana, se si escludono casi statisticamente irrilevanti; è più probabile che una persona sia danneggiata dal classico vaso di fiori in testa! Le energie sviluppate vanno da zero a circa 10 MT, a cui corrispondono oggetti di dimensioni variabili tra un millesimo di millimetro e 10-50 metri, in dipendenza dal materiale e dalla velocità da cui sono animati. Si verifica un numero molto grande di eventi di questo tipo ogni anno; i più rilevanti avvengono con una frequenza di circa 10-15 all'anno.
Possiamo ritenere che oggetti di 50 metri, ad una velocità di 20 km/s, rappresentino il limite superiore per gli eventi di primo grado, e quindi il limite inferiore per quelli di secondo grado. Va detto però che questi numeri devono essere ritenuti assolutamente indicativi; il tipo di materiale, l’angolo di incidenza e la velocità d’ingresso nell’atmosfera variano notevolmente da caso a caso ed è praticamente impossibile fornire valori di soglia netti. Vedremo che questo è ancor più vero ai confini dei livelli di gravità superiori.
La vera differenza qualitativa tra i primi due livelli risiede nella possibilità, per oggetti di dimensioni maggiori, di esplodere nella bassa atmosfera o di cadere infine sulla superficie terrestre. La frammentazione, se il corpo ha dimensioni notevoli, procede in maniera sempre più rapida man mano che l’oggetto penetra negli strati più densi dell’atmosfera, finché l’intero corpo si disintegra in un’unica esplosione di vaste dimensioni. A seconda dei materiali costituenti questo può avvenire ad altezze diverse sul suolo, o non avvenire affatto (e quindi il corpo può colpire la superficie) se il tempo richiesto dalla frammentazione è maggiore di quello necessario ad attraversare l’atmosfera. In quest’ultimo caso, e siamo ormai verso la soglia superiore di questo grado, semplicemente il proiettile non “vede” l’atmosfera.
La dinamica di un’esplosione a bassa quota è abbastanza complicata e gli studi che si stanno effettuando si basano non tanto sui pochi casi noti, quanto piuttosto sui risultati dei test nucleari nell’atmosfera che le grandi potenze effettuarono nei primi decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Attorno al momento e all’altezza dell’esplosione la produzione di energia è molto alta; si calcola che un tipico bolide “roccioso” di 50-100 metri esploda attorno ai 15 km d’altezza rilasciando, negli ultimi istanti, 20-30 MT di potenza esplosiva per ogni chilometro percorso. Siamo quindi proprio ai valori di energia e di altezza tipici di molti ordigni nucleari.
Le dimensioni medie di oggetti come quelli che stiamo esaminando sono di qualche centinaio di metri, con una variabilità piuttosto ampia (dai 10 metri per un corpo “ferroso” ai 1.000 metri per una cometa). Questi oggetti possono giungere al suolo, anche se non intatti, ma depositano nell’atmosfera la maggior parte della loro energia. L’esempio più famoso e più studiato di un evento di questo grado della scala è l’esplosione avvenuta a Tunguska, in Siberia, nel 1908.
Il 30 giugno di quell’anno un’esplosione molto forte fu sentita in una zona assai ampia, con centro nella regione di Tunguska, a una latitudine di circa 60° nord (più o meno l’attuale S. Pietroburgo) e longitudine tra il Kazakistan e la Mongolia. L’esplosione pare abbia generato una luce fortissima, più intensa di quella del Sole, anche se in una zona piuttosto ristretta. Vi sono stati pochissimi e inattendibili testimoni oculari, essendo la zona fortunatamente quasi spopolata.
Nel 1927-39 due spedizioni russe, guidate da L.A. Kulik, effettuarono un’ampia ricognizione, trovando un impressionante spettacolo di devastazione (figura 10.4): 2.000 km2 di foresta erano stati completamente rasi al suolo (un’area più grande di Roma) ma non fu trovato nessun cratere. Per questo motivo si è ritenuto a lungo che il proiettile fosse un frammento di cometa, esploso in aria per la sua natura ghiacciata. Gli studi più recenti mostrano invece che l’evento fu causato con tutta probabilità da un piccolo asteroide “roccioso” di circa 60 metri di diametro, esploso ad una quota di 8-10 km. La potenza dell’esplosione deve essere stata, nel punto terminale, tra i 10 e i 20 MT, circa mille volte la potenza della bomba di Hiroshima.
Secondo la ricostruzione dell’evento, pubblicata nel 1993 da Chyba, Thomas e Zahnle, l’oggetto avrebbe cominciato a frammentarsi attorno ai 20 km d’altezza; la frammentazione sarebbe progredita rapidamente, schiacciando il proiettile come una frittella e aumentando le sue dimensioni orizzontali di 5-10 volte; l’onda d’urto generata dall’esplosione ha abbattuto circa 40.000 alberi, lasciando una traccia al suolo a forma di farfalla, tipica di questi eventi se l’angolo di incidenza è attorno ai 35-50 gradi (si veda la figura 10.5). Lungo il fronte di shock, davanti all’oggetto, il gas atmosferico si deve essere riscaldato ad una temperatura di 20.000-30.000 °C, circa quattro volte la temperatura della superficie del Sole.
Dopo l’esplosione, in molte regioni d’Europa sono state osservate “luci notturne”. Questo fenomeno può essere spiegato con l’immissione ad alta quota (circa 40 km) di una gran quantità di vapor d’acqua. Il processo è molto simile a quello di formazione del classico “fungo” atomico, in cui la palla di fuoco dell’esplosione sale velocemente nell’aria per espandersi alla sommità. L’altezza raggiunta nel caso di Tunguska è pari a quella che si sarebbe ottenuta con un’esplosione da 40 MT alla superficie, con immissione nella stratosfera di materiale a sufficienza per produrre i fenomeni luminosi osservati.
Come si è detto, l’esplosione di Tunguska non ha prodotto un cratere, essendosi verificata ad un’altezza di circa 10 km, ma ha ugualmente devastato un’area molto ampia. E’ abbastanza impressionante pensare che se l’evento avesse avuto luogo poche ore dopo l’esplosione avrebbe investito in pieno S. Pietroburgo. Il calore prodotto dall’attrito con l’atmosfera (che - abbiamo detto - ha generato una temperatura di circa 30.000 gradi) è stato più che sufficiente ad incendiare gli alberi, ma l’onda d’urto successiva, quella che li ha abbattuti, ha probabilmente anche spento gli incendi.
Tunguska non è l’unico evento riconosciuto di questo secondo grado, anche se è il meglio documentato in epoca storica[7]. Circa 40.000 anni fa un bolide di potenza stimata attorno ai 15 MT colpì l’Arizona, generando il famoso Meteor Crater, o Cratere Barringer (figura 10.6). In questo caso, tuttavia, l’esplosione deve essere avvenuta alla superficie, indicando così un oggetto probabilmente “ferroso”. Il Meteor Crater ha un diametro di circa 1.0 km e una profondità di 200 metri: si calcola che il proiettile avesse circa 40 metri di diametro.
A nord di Rio Cuarto, in Argentina, sono state identificate una decina di depressioni molto allungate, con un rapporto 4:1 tra le due dimensioni orizzontali. La loro origine va probabilmente imputata all’impatto di un oggetto, frantumatosi nell’atmosfera, che viaggiava con un angolo d’incidenza molto piccolo, sotto i 10°. Si sa ben poco sulla natura dell’oggetto, ma stime attendibili, basate sull’analisi di particelle vetrose trovate nei crateri, indicano una composizione “rocciosa”. Sulla base di questi studi si stima che l’oggetto avesse dimensioni originarie di 150-300 metri, con una energia di 350 MT. L’età di questo evento è sicuramente inferiore ai 10.000 anni.
Certamente un’esplosione come quelle esaminate produce una notevole devastazione nella regione in cui ha luogo. Questa devastazione, tuttavia, è limitata alla zona di caduta e non interessa che in minima parte le regioni circostanti. Nei casi di Tunguska, Amazzonia e Sikhote-Alin non vi sono state vittime umane accertate; va però detto che se un evento di secondo grado si verificasse su una zona densamente popolata (praticamente ovunque in Europa) o peggio su un’area urbana, le perdite umane potrebbero essere molto gravi, paragonabili a quelle che si hanno in molti altri disastri naturali come inondazioni o terremoti. Il rischio è tuttavia abbastanza limitato, sia per la piccola frequenza dell’evento (uno ogni 200-300 anni) sia perché la maggior parte della superficie terrestre non è abitata.
Un fenomeno che si presenta già a questa classe di eventi - e che potrebbe rivelarsi molto pericoloso - è tuttavia rappresentato da un impatto negli oceani, che ricoprono due terzi della superficie terrestre. Un impatto nell’oceano non darebbe origine ad alcun cratere, ma ad un’onda “anomala” molto alta che viaggerebbe a parecchie centinaia di chilometri all’ora in tutte le direzioni. Avvicinandosi alle coste, dove la profondità del mare diminuisce, l’onda rallenterebbe la sua andatura, ma crescerebbe in altezza; al momento di frangersi sulla riva si sarebbe trasformata in un’altissima muraglia d’acqua, fortemente distruttiva. Questi fenomeni avvengono con una certa regolarità nell’Oceano Pacifico, originati in genere da terremoti; dal loro nome giapponese vengono detti tsunami (il Giappone è particolarmente colpito da queste calamità).
Si calcola che l’altezza alla riva di un’onda di tsunami media sia circa 40 volte la sua altezza in mare aperto. Così un’onda di un metro si può trasformare in una muraglia alta quanto un palazzo di dieci piani; tuttavia sono stati registrati tsunami con una moltiplicazione d’altezza di circa 120 volte.
La dinamica di uno tsunami generato da un impatto segue tre fasi. Dapprima, al momento dell’urto, si forma un “cratere” nell’acqua; la propagazione del suo bordo esterno e il riflusso dell’acqua al suo interno formano una serie di onde che si allontanano velocemente dal centro. Nella fase successiva l’onda si propaga a grande distanza senza rallentare e la sua altezza diminuisce lentamente in maniera inversamente proporzionale alla distanza, ma senza dissipare energia in modo significativo. Nella terza fase l’altezza dell’onda cresce, man mano che questa si avvicina alle coste, e l’onda comincia a perdere energia per l’attrito con il fondo del mare.
Nel maggio 1960 un terremoto in Cile provocò uno tsunami nel Pacifico. A Hilo, nelle isole Hawaii (10.600 km di distanza), l’onda era alta da 10 a 15 metri: morirono 61 persone. A 17.000 km di distanza dall’epicentro del terremoto, in Giappone, l’onda era ancora alta da 1 a 5 metri: essa provocò 114 morti e 90 dispersi.
L’impatto di un oggetto di 200 metri sviluppa un’energia di 5.000 MT. Questo si traduce in onde alte in mare profondo circa 3,5 metri, che raggiungerebbero i 100 metri d’altezza sulle coste. Una tale onda, su una costa pianeggiante, si spingerebbe all’interno per circa 20 km, distruggendo al suo passaggio molte delle strutture costruite dall’uomo. Va tenuto presente, a questo riguardo, che una frazione consistente degli insediamenti umani giace lungo le coste marine.
Possiamo fare alcune considerazioni su quanto detto. Ironicamente, quanto maggiore è la velocità del proiettile tanto minore è la sua pericolosità, perché esso ha buone probabilità di frantumarsi completamente a grande altezza nell’atmosfera (stiamo parlando di oggetti “rocciosi”, i più comuni, di 100-200 metri). Oggetti più lenti se esplodono a bassa quota devastano un’area più estesa che se urtassero la superficie. Quest’ultimo caso è però particolarmente pericoloso se l’impatto avviene sul mare, a causa dei potenti tsunami che possono essere provocati.
Come ultima osservazione su questi fenomeni marini ricordiamo il caso che si verificò nel 1883 con l’esplosione del vulcano Krakatoa, nell’isola omonima tra Giava e Sumatra. Si tratta dell’esplosione vulcanica più violenta del periodo storico (con l’eccezione, forse, dell’esplosione di Thera, vicino a Creta, nel 1400-1500 a.C.). L’esplosione di Krakatoa sviluppò una potenza di circa 10.000-100.000 MT, ponendosi così decisamente al limite superiore del secondo grado della nostra scala. Le conseguenze furono devastanti in tutto l’arcipelago malese e gli effetti lontani dello tsunami furono avvertibili fino in Europa. Per un paio d’anni, poi, in tutto il mondo si osservarono incredibili tramonti dovuti alla presenza di una gran quantità di polvere nell’atmosfera.
Tuttavia tutti questi eventi, incluso il Krakatoa come controesempio terrestre, anche se altamente distruttivi sono pur sempre locali e i loro effetti si fanno sentire su una porzione molto ridotta della superficie terrestre. I turbamenti che essi provocano al clima e alla biosfera sono minimi, se osservati a scala planetaria, e vengono riassorbiti in poco tempo.
In chiusura del paragrafo precedente si è detto che l’esplosione del Krakatoa (104-105 MT) è stata la più violenta della storia umana, tranne forse quella di Thera. Sembrano esserci motivi validi per ritenere che quei valori di energia rappresentino il massimo potenziale che un disastro causato da agenti terrestri possa raggiungere (le valutazioni a questo proposito sono però molto incerte). La cosa più impressionante delle catastrofi cosmiche, viceversa, è che esse non hanno virtualmente un limite superiore, se non dato dall’estrema rarità degli eventi.
Se era difficile identificare una soglia tra il primo e il secondo grado della scala di gravità degli eventi, ancor più difficile è stabilire dove cominci il terzo grado. Convenzionalmente, e con uno scarto possibile di un fattore 10 in più o in meno, questa soglia viene posta ad una potenza di 106 MT, che corrisponde ad un oggetto di composizione “rocciosa” di circa 2 km di diametro. Non siamo ancora ai livelli catastrofici - tipici del quarto ed ultimo grado - che sembrano ben documentati nel passato geologico e paleontologico terrestre, ma tra il secondo e il terzo livello vi è una differenza qualitativa e quantitativa notevole.
Mentre gli eventi del secondo grado, pur essendo potenzialmente devastanti, interessano sempre un’area limitata della superficie terrestre, quelli di terzo grado hanno conseguenze globali che possono incidere profondamente sugli organismi viventi e sulla stessa civiltà umana in ogni parte del globo.
Gli “impatti globali” producono effetti diretti molto rilevanti, ma sono probabilmente quelli indiretti a provocare i maggiori danni. E’ sempre pericoloso dare definizioni rigide di eventi del genere e, per maggior comodità, nel seguito ci atterremo alla definizione data da D. Morrison e C.R. Chapman. Chiameremo quindi impatto globale un evento che produca:
la distruzione della maggior parte dei raccolti mondiali per un anno, e/o
la morte, diretta o per malattia o per fame, di più del 25% della popolazione mondiale, e/o
effetti climatici simili a quelli ipotizzati per l’inverno nucleare, e/o
un serio pericolo per la stabilità e il futuro della civiltà nella sua forma attuale.
Seguendo lo schema adottato nei paragrafi precedenti analizzeremo separatamente gli effetti prodotti nell’atmosfera e quelli prodotti al suolo con l’avvertenza, però, che a questi livelli di disastro è l’intero ecosistema terrestre ad essere profondamente turbato.
Un accenno va fatto allo studio, condotto all’inizio degli anni ‘80, sulle conseguenze di una guerra nucleare in cui si avesse l’esplosione simultanea della maggioranza delle bombe nucleari contenute negli arsenali militari di tutto il mondo. Quello studio condusse a parlare di inverno nucleare (nuclear winter), poiché la conseguenza più vistosa delle esplosioni, a medio termine, sarebbe stata l’iniezione di enormi quantità di polvere nella stratosfera, capaci di bloccare la luce solare e quindi di ridurre la temperatura alla superficie terrestre.
Per avere un’idea di questo fenomeno basti pensare che l’eruzione del vulcano Tambora, nel 1816, provocò, per l’immissione di polvere nella stratosfera, il cosiddetto “anno senza estate”, cioè con temperature molto più basse del normale nei mesi estivi. Un impatto come quelli di cui stiamo parlando solleverebbe da 10 a 100 volte più polveri, con particelle di dimensioni inferiori al millesimo di millimetro.
Un primo effetto sarebbe lo sparpagliamento di questa polvere su tutto il globo e il crollo delle temperature superficiali di circa 10 °C, con conseguenti gelate occasionali in piena estate. Questo shock ambientale avrebbe immediate e drammatiche conseguenze, come la scomparsa di almeno una stagione di raccolti e la forte diminuzione di quelle successive. Poiché lo stoccaggio di cibo per un intero anno è una pratica che poche nazioni al mondo si possono permettere, specie tra le più povere e popolate, questa perdita causerebbe certamente carestie di proporzioni bibliche che, a loro volta, potrebbero portare a gravissime epidemie e al crollo di molte strutture politiche e sociali.
L’immissione di polvere nell’atmosfera potrebbe essere accompagnata e aggravata dalla produzione di una immensa quantità di fuliggine a causa degli incendi. Data l’altissima temperatura raggiunta dal proiettile e dall’aria circostante, incendi di proporzioni assai vaste potrebbero essere facilmente accesi per irraggiamento a molte decine o centinaia di chilometri dal punto dell’esplosione. Le particelle di fuliggine sono molto più efficienti della polvere nel bloccare la luce solare, per cui l’effetto di oscuramento potrebbe essere fortemente aggravato dagli incendi. Verso il limite superiore di questo terzo grado anche un impatto nel mezzo dell’oceano avrebbe potenza sufficiente ad accendere incendi a più di 1.000 km di distanza[8].
Il primo effetto sulla superficie è dunque l’abbassamento repentino della temperatura e della quantità di luce. Se una temperatura molto rigida nella stagione calda può causare estese perdite di raccolti, nell’emisfero invernale tale eventualità non avrebbe poi conseguenze estremamente drammatiche, sempre che si disponga di un efficiente sistema di riscaldamento. L’abbassamento del livello di illuminazione, al contrario, avrebbe effetti seri ovunque, specialmente nello strato superiore dell’oceano dove vivono organismi basati sulla fotosintesi, anelli molto importanti delle catene alimentari marine.
Un secondo, micidiale effetto del sollevamento di polvere e cenere nell’atmosfera è identificabile con la possibilità che si verifichino abbondanti piogge acide su aree molto estese. Queste contribuirebbero in larga misura all’avvelenamento del suolo e delle falde acquifere e potrebbero, alla lunga, rivelarsi l’effetto più dannoso.
Gli effetti diretti al suolo di un impatto di grandi proporzioni consisterebbero naturalmente nella distruzione pressoché totale di un’area molto ampia. A parte il cratere vero e proprio, di dimensioni valutabili in varie decine di chilometri (un’intera città come Parigi sarebbe completamente cancellata in pochi secondi), i materiali risultanti dalla sua escavazione verrebbero a ricoprire un’area molto più estesa e l’onda d’urto atmosferica raggiungerebbe un’area ancor più ampia.
Un evento da 1.000 MT (quindi di secondo grado nella nostra scala) produrrebbe un cratere di 5 km, ma devasterebbe completamente un’area di un milione di ettari (circa 100 km di raggio: pressappoco una regione come l’Umbria). Un impatto con potenza 100 volte più grande colpirebbe un’area circa 20 volte maggiore: stiamo parlando di una cosa come l’intera Italia.
Gli impatti al suolo producono altri effetti distruttivi; l’area direttamente colpita subirebbe infatti un terremoto di vaste proporzioni. Si calcola che un impatto da 10.000 MT, alla soglia inferiore del terzo grado, possa provocare un terremoto di intensità 8.8 nella scala Richter, un terremoto molto più disastroso di quello di Messina nel 1908. Se poi l’impatto avvenisse nell’oceano - come abbiamo visto - l’onda di tsunami prodotta “ripulirebbe” le coste per parecchi chilometri di profondità.
Si è detto che alcuni degli effetti di un impatto di un asteroide o cometa tra i due e i cinque chilometri di diametro assomigliano a quelli previsti per una guerra nucleare totale. Senza voler spingere troppo oltre l’analogia (ad esempio mancherebbero tutte le gravissime conseguenze a lungo termine associate alla radioattività) possiamo però affermare che le devastazioni causate da un simile impatto sarebbero certamente molto maggiori di quelle causate dalle due guerre mondiali nel ‘900, ma molto minori della distruzione generale associata ad eventi del quarto grado. Per quel che riguarda più da vicino l’umanità, le prospettive potrebbero essere drammatiche, ma è necessario fare alcune considerazioni che possono portare a ridimensionarle un poco.
Innanzitutto, contrariamente a quanto avverrebbe in una guerra di vaste proporzioni, non vi sarebbe una particolare “scelta” degli obiettivi; molte strutture industriali, commerciali, per la produzione di energia e per i trasporti si salverebbero dalle distruzioni anche relativamente vicino alla zona dell’impatto, permettendo forse di cominciare una ricostruzione. Inoltre l’attitudine delle popolazioni e dei loro governi verso una cooperazione mondiale per il soccorso dei popoli più colpiti sarebbe probabilmente più positiva, come è mostrato dallo slancio con cui spesso si è venuto in aiuto di popolazioni colpite da calamità naturali. Infine l’emisfero che in quel momento si trovasse in inverno subirebbe danni all’agricoltura molto minori dell’altro e potrebbe così supplire - almeno parzialmente - alla mancanza di cibo.
Naturalmente l’umanità uscirebbe molto provata dall’esperienza, sia per le carestie e le malattie che per l’estesa mortalità e il probabile crollo di molte strutture politiche e socio-sanitarie, ma un evento del genere non costituirebbe probabilmente la fine dell’uomo: piuttosto la fine di un certo tipo di cultura e di civiltà. Gli estesi danni ambientali potrebbero essere risanati in un periodo di tempo non lunghissimo; la natura ha possibilità di recupero notevoli e sarebbe certamente in grado di rimarginare le ferite.
Eventi di questa gravità non sono quasi certamente mai avvenuti in epoca storica o protostorica (diciamo negli ultimi 6.000 anni) ed è molto dubbia l’associazione che alcuni hanno proposto tra impatti e glaciazioni. Nondimeno, se le nostre valutazioni sulle probabilità sono corrette, impatti di terzo grado si verificano certamente almeno una volta ogni 105-106 anni e quindi devono essere già avvenuti durante il lungo cammino dell’evoluzione dell’uomo. Il fatto che non se ne trovino le tracce geologiche o paleontologiche (o almeno non se ne siano ancora trovate, a parte i crateri) mostra che - pur nella sua gravità - un evento di terzo grado è abbastanza ben tollerato dal pianeta e dalla vita che esso ospita.
La teoria delle catastrofi si propone di studiare quei fenomeni - per loro natura caotici - che in seguito ad un piccolo stimolo producono conseguenze sia qualitative che quantitative di grande rilevanza.
Abbiamo già parlato delle posizioni di equilibrio di un pendolo. Pensiamo ora a una barra orizzontale infissa in un muro ad un estremo. Possiamo caricare la barra all’altro estremo ed essa, man mano che aumentiamo il carico, si fletterà sempre di più; oltre un determinato carico però - come ben sanno gli ingegneri - la barra non si fletterà oltre, ma si romperà. Al valore limite (il carico di rottura) basta un piccolissimo peso aggiuntivo per superare il “valore di soglia” per la rottura. Se la flessione era un comportamento ordinato e graduale, la rottura rappresenta la “catastrofe”.
Altrettanto “catastrofica” può essere pensata la crisi economica del ‘29; essa non si limitò - come succede normalmente - ad alti e bassi dei listini di borsa, ma un intero sistema economico collassò sotto le proprie inefficienze e la paura della gente. O si può pensare ad una valanga come la conseguenza catastrofica di piccoli spostamenti di masse di neve; e si potrebbe continuare con numerosi altri esempi.
Nella nostra analisi degli effetti dell’impatto di un NEO con la Terra ci troviamo in una situazione analoga; gli eventi di terzo grado - pur avendo conseguenze globali e drammatiche - non sono catastrofici, nel senso riportato prima a proposito della rottura della barra. L’equilibrio del pianeta ne verrebbe certo fortemente perturbato, ma non stravolto; è proprio questa differenza che segna, nella nostra scala, il passaggio al quarto ed ultimo “gradino”, quello delle catastrofi.
Negli anni recenti si è parlato spesso dell’origine della Luna e dell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al piano orbitale (23°) come effetti di un gigantesco impatto con la Terra di un oggetto che poteva avere le dimensioni del pianeta Marte. Un evento di questo tipo sarebbe avvenuto all’inizio della storia del nostro pianeta quando, secondo la teoria dell’accumulazione planetaria, la Terra era in competizione per l’accrescimento con altri embrioni di dimensioni comparabili. L’impatto avrebbe formato un “grumo” di materiale, proveniente soprattutto dal mantello dell’embrione urtante, che avrebbe dato origine alla Luna, mentre l’intera crosta terrestre sarebbe stata fusa dall’impatto e rimescolata con materiale del mantello e del nucleo dell’“incursore”.
Noi non parliamo di eventi così rilevanti e che ormai non possono più aver luogo per scarsità di proiettili, ma di eventi “possibili”, in cui le dimensioni dell’oggetto che urta sono superiori ai 5-8 km. A queste dimensioni corrisponde una potenza dell’ordine delle centinaia di milioni o dei miliardi di megaton; sono quindi eventi di un’entità difficilmente immaginabile ma per fortuna estremamente rari: all’incirca uno ogni 100 milioni di anni.
Per illustrare nel modo possibilmente più veridico quanto potrebbe accadere (e certamente è accaduto) quando si hanno impatti da un miliardo di megaton, possiamo far ricorso all’evento meglio documentato della storia geologica terrestre: l’evento che portò, tra gli altri, alla scomparsa definitiva dei dinosauri.
L’immagine mentale che ciascuno può cercare di formarsi per quegli attimi fatali, circa 65 milioni di anni fa, sarà probabilmente popolata di dinosauri che fuggono, incendi che divampano un po’ dovunque, immense ondate di tsunami che si abbattono sulle rive: c’è di che far gongolare un certo tipo di produttori e registi cinematografici, come di fatto è avvenuto.
L’evento accaduto 65 milioni di anni fa non è stato eccezionale nella storia della Terra. Com’è noto, la cronologia geologica del nostro pianeta comprende quattro ere geologiche, ognuna organizzata in periodi. E, come avviene per la storia umana, il passaggio tra un’era e un’altra, o tra un periodo e il successivo, si fa coincidere con qualche avvenimento di una certa importanza. Il passaggio tra l’Evo Antico e il Medio Evo è marcato, ad esempio, dalla caduta dell’impero romano, un fatto gravido di conseguenze per i secoli successivi. Il passaggio tra il periodo Cretaceo (l’ultimo dell’era secondaria) e il Paleocene (il primo dell’era terziaria) è contraddistinto da un avvenimento raro, ma non unico: la scomparsa in un tempo brevissimo della maggior parte delle specie viventi, quella cioè che normalmente viene chiamata un’estinzione di massa.
Quando si parla di “scomparsa” di una specie, in senso paleontologico, si intende dire che negli strati rocciosi oltre una certa epoca non si trovano più fossili di quella specie. Questo non significa che la specie sia sparita da un giorno all’altro, ma che il periodo in cui è declinata - e si è poi estinta - è più piccolo di quanto siamo in grado di riconoscere con metodi accurati di datazione[9]. Spesso uno strato geologico di qualche centimetro rappresenta un periodo di centinaia di migliaia o milioni di anni, e con tutta la migliore buona volontà non è possibile determinare con accuratezza intervalli di tempo inferiori alle centinaia o migliaia di anni. E’ questo che intendo dire quando parlo di “tempo brevissimo”.
Non possiamo dire di avere la totale certezza sulla causa di uno sconvolgimento così ampio della biosfera; tuttavia, l’ipotesi catastrofista che è stata proposta è ormai così estesamente suffragata da prove di tutti i generi che difficilmente potrà essere dimostrata falsa[10]. D’altro canto, che molte specie fossili del Cretaceo scompaiano improvvisamente dalle rocce al passaggio del limite tra terreni del Cretaceo e terreni del Paleocene è un fatto oramai certo, non più questionabile. Seguendo la terminologia comunemente usata, d’ora in poi si parlerà di quanto avvenne in quell’occasione come dell’evento K/T e si indicherà l’epoca del passaggio come il limite K/T.
Che cosa accadde dunque in quel lontano giorno del Cretaceo? La ricostruzione che sta emergendo come più probabile (ma che naturalmente, essendo stata elaborata molto di recente e risultando notevolmente complessa, sarà suscettibile di modifiche anche rilevanti nel futuro) comincia con la caduta sulla Terra di un asteroide roccioso tra i 10 e i 12 chilometri di diametro. Un oggetto di tali dimensioni lanciato a 20 km/s - come abbiamo già detto precedentemente - non “vede” l’atmosfera, o meglio l’azione frenante dell’atmosfera è per esso assolutamente irrilevante.
Tuttavia la superficie dell’asteroide nella direzione del moto si deve essere riscaldata a temperature di decine di migliaia di gradi, emettendo una luce talmente intensa da incendiare le foreste anche a grande distanza. Simultaneamente alla caduta dell’oggetto al suolo questo “lampo di luce”, trasmesso dalle particelle scavate dall’esplosione, deve aver incendiato interi continenti.
Un oggetto di dieci chilometri genera, attraversando l’atmosfera in pochi secondi, un “tubo vuoto” di parecchi chilometri di diametro. Quando il gas riempie lo spazio vuoto si genera una fortissima turbolenza e un “tuono” assordante, nel vero senso del termine. Questo fenomeno, accompagnato all’onda d’urto sul fronte della meteora, deve aver causato venti di notevole violenza, con alte capacità distruttive: basta pensare agli alberi abbattuti a Tunguska, in un caso di potenza infinitamente minore.
L’oggetto responsabile dell’evento K/T è quindi giunto al suolo pochi secondi dopo il suo ingresso nell’atmosfera. Non sappiamo bene dove, ma cominciano ad emerge prove convincenti che esso sia piombato sul Golfo del Messico, nell’attuale penisola dello Yucatán. Vicino alla costa nord della penisola è stata individuata un’ampia struttura circolare, sepolta e semisommersa, ricoperta da depositi posteriori, nota come Chicxulub. Si tratta in realtà di un cratere d’impatto, il più grande trovato finora sulla Terra, con un diametro di almeno 180 km (vedi la figura 10.7).
Nella zona vi sono stati numerosi rinvenimenti di “campi” di sferule vetrose, di tectiti e microtectiti[11] ad Haiti e ad Arroyo el Mimbral, nel Messico del nord-est. Sempre nel golfo del Messico sono poi stati rinvenuti depositi di struttura assimilabile a quella che può essere ottenuta con un’onda di tsunami di proporzioni gigantesche. Alcuni ricercatori sono tuttavia dubbiosi circa l’associazione del cratere di Chicxulub (che ha un’età di 64,98 0,05 milioni di anni) con l’evento K/T. Altri ritengono che l’evento non possa essere riconducibile alla caduta di un singolo oggetto e propongono in alternativa una “pioggia”, anche non contemporanea, di frammenti.
Qualunque sia l’interpretazione corretta dei dati, l’urto deve avere avuto effetti spaventosi. Si calcola che qualcosa come 1016 kg di polvere siano stati immessi nella stratosfera in pochi secondi[12]. La polvere, prevalentemente calcarea se proveniente da Chicxulub, doveva essere costituita da particelle con dimensioni minori del millesimo di millimetro. Ad essa va aggiunta la quantità enorme di fuliggine proveniente dagli incendi; l’analisi di campioni a Stevns Klint (Danimarca), Caravaca (Spagna) e Woodside Creek (Nuova Zelanda) mostrano la presenza di carbonio in eccesso al limite K/T rispetto agli strati adiacenti, riconducibile al carbone originato dalle fiamme. Il flusso di particelle di carbonio al limite K/T deve essere stato 10.000 volte maggiore dell’attuale, con un’abbondanza superficiale di 0,021 g/cm3 pari al 10% della biomassa attuale della Terra (e al 4% di quella presente prima dell’età moderna con le sue estese deforestazioni).
La polvere e la fuliggine immessi nella stratosfera devono aver coperto rapidamente l’intero pianeta[13], con almeno tre conseguenze rilevanti:
assorbimento della luce, particolarmente efficiente da parte della fuliggine;
generazione di pirotossine; solo il contenuto di monossido di carbonio nell’atmosfera sarebbe salito a 50 parti per milione - un livello tossico - per non parlare delle piogge acide;
rapido raffreddamento della superficie terrestre, provocato dall’assorbimento della luce e valutabile in un abbassamento della temperatura di almeno 10-25 gradi centigradi.
Questa situazione estremamente critica si deve essere protratta per un periodo di tempo valutabile in circa un anno: quanti organismi fotosintetici sono sopravvissuti ad un esteso periodo di buio pressoché totale? e quanti esseri viventi hanno potuto adattarsi?
Nei primi 200 metri di profondità del mare vivono organismi planctonici che operano la fotosintesi (il fitoplancton) e che costituiscono un anello chiave delle catene alimentari marine. Se questo anello viene spezzato si può innescare una “catastrofe”, nel senso che abbiamo specificato poc’anzi, in cui buona parte della fauna marina perisce. Questo è senz’altro accaduto alle ammoniti, alle belemniti e a molti generi di foraminiferi in seguito all’evento K/T.
La prima prova evidente che qualcosa di straordinario doveva essere successo 65 milioni di anni fa si ebbe grazie alle ricerche degli Alvarez (padre e figlio) sul finire degli anni ‘70, quando furono rinvenuti strati rocciosi con un anomalo contenuto di iridio, prima a Gubbio e in seguito in diverse altre località del globo. Questo elemento è molto raro nella crosta terrestre, essendo precipitato nel mantello e nel nucleo all’atto della formazione del pianeta. Esso, viceversa, è più abbondante nelle meteoriti e - in genere - nei materiali cosmici che si ritiene non abbiano subito alterazioni. Un’abbondanza di iridio, quindi, è indice dell’apporto di materiale cosmico dall’esterno dell’ambiente terrestre. L’anomalia dell’iridio è molto pronunciata e ormai è dimostrato che essa è presente in tutto il mondo. Essa coincide perfettamente con il limite K/T e la sua datazione è sempre attorno ai 65 milioni di anni. Non v’è nessun ragionevole dubbio che un oggetto asteroidale, con alto contenuto relativo di iridio, sia stato “sparpagliato” sulla superficie terrestre.
Ma torniamo alle estinzioni. Oltre al mare, anche la terra emersa è stata pesantemente colpita. Da numerose indagini sul campo (specialmente in Montana, USA) risulta ormai accertato che le specie di dinosauri del tardo Cretaceo sopravvissero, praticamente senza variazioni notevoli, fino al limite K/T: poi sparirono improvvisamente[15]. Al contrario i mammiferi, che nel Cretaceo erano di piccole dimensioni e rappresentati da poche specie, subirono, dopo l’evento K/T, un’esplosione adattativa. Questo fatto viene comunemente interpretato come segno della “soggezione” cui i mammiferi erano sottoposti nell’era dei dinosauri. I grandi rettili occupavano praticamente tutte le possibili nicchie ecologiche, cui erano perfettamente adattati; la loro scomparsa lasciò vuote queste nicchie, che furono rapidamente riempite da un nugolo di nuove specie di mammiferi, praticamente senza rivali . Il limite K/T è accompagnato anche dalla scomparsa, negli strati rocciosi, di molti generi di pollini: anche il mondo vegetale deve essere stato praticamente spopolato. I calcoli fatti a tutt’oggi sembrano mostrare che circa il 50% dei generi e il 70% delle specie, sia animali che vegetali, sia marine che terrestri, sia perita in quell’olocausto.
Naturalmente le specie che si estinsero non perirono in pochi secondi. Il processo di estinzione deve essere stato piuttosto graduale, con un picco iniziale correlato con l’impatto, ma l’estinzione finale può aver richiesto dai mille ai 15.000 anni, o anche più. Tra l’altro, all’iniziale “inverno nucleare” causato dalla polvere e dalla fuliggine, che avrebbe causato un periodo di gelo di parecchi mesi, deve essere seguito un lungo periodo “tropicale”. La gran quantità di carbonio nell’aria, infatti, deve aver fatto aumentare notevolmente il contenuto di anidride carbonica, che è un efficientissimo gas-serra. Quando l’aria tornò limpida, la temperatura dei primi 200-500 metri degli oceani deve essere rapidamente salita di almeno dieci gradi, e tale rimasta per almeno mille anni, completando l’opera di sterminio iniziata con l’impatto.
Ne deriva un quadro dell’evoluzione che differisce notevolmente da quanto si pensava anche solo venti anni fa. L’evoluzione delle specie non sembra più essere proceduta con darwiniana continuità, con una specie che soppiantava l’altra in un processo graduale, ma piuttosto “a salti”[17]; di tanto in tanto una gran parte dei generi viventi si è estinta “improvvisamente” e nuovi generi hanno cominciato una inarrestabile espansione. Questo deve essere avvenuto almeno cinque volte negli ultimi 570 milioni di anni: la nostra ipotesi è che in ognuna di quelle occasioni si sarebbe verificato un impatto al quarto grado di gravità.
L’evento K/T non è stato l’unico e probabilmente neppure il più grave della storia della vita terrestre. Il livello delle estinzioni di massa alla fine del Permiano (l’ultimo periodo dell’era Paleozoica) sembra essere stato molto maggiore di quello documentato al limite K/T. Questo ci fa chiedere allora cosa sia avvenuto ancora prima; quante volte la vita abbia cominciato la sua avventura sulla Terra e l’abbia dovuta interrompere a causa di un evento di grande entità.
Possiamo provare a collocare l’“origine della vita” sulla Terra nel periodo in cui il tempo intercorso tra un impatto catastrofico e l’altro è divenuto maggiore del tempo necessario alla nascita e allo sviluppo di organismi autoreplicanti. Probabilmente in determinati ambienti, come le sorgenti idrotermali sottomarine e le lagune, la vita appena nata è riuscita a sopravvivere ad alcuni di quegli eventi; il suo enorme sviluppo ha poi praticamente interessato tutta la Terra, diminuendo le probabilità che un impatto la spazzasse via. Possiamo allora porre dei limiti superiori alle dimensioni degli oggetti caduti sulla Terra negli ultimi 3.5 miliardi di anni, da quando cioè abbiamo le prime testimonianze fossili. Un oggetto di 65 chilometri produrrebbe un cratere di circa 270 km, riscaldando la superficie terrestre e l’atmosfera fino a circa 100 °C. Se l’oggetto avesse un diametro di 250 chilometri (circa le dimensioni di 2060 Chiron) il cratere raggiungerebbe le dimensioni ragguardevoli di 850 km, come il Mare Imbrium sulla Luna. Un evento del genere sterilizzerebbe l’intero pianeta, forse con l’eccezione dei batteri termofili. La vita è stata probabilmente sradicata varie volte, per rievolversi partendo praticamente da zero, o si è irradiata da poche zone risparmiate dalle devastazioni. Sembra difficile che organismi fotosintetici possano essersi evoluti prima di 3.7-3.8 miliardi di anni fa, a causa delle frequenti perturbazioni climatiche, compreso il black-out luminoso.
Poiché noi siamo qui a parlarne, eventi estremamente gravi non sono certamente più avvenuti da più di tre miliardi di anni. E siamo ragionevolmente sicuri che oggetti di 100 km non passeranno nei dintorni della Terra almeno per i prossimi 100.000 anni (con un non trascurabile dubbio a proposito di comete di lungo periodo).
In fin dei conti la morale che si trae da quanto detto è che probabilmente noi dobbiamo la nostra esistenza ad un evento altamente distruttivo, che ha seriamente messo in pericolo tutta la vita terrestre ma ha permesso l’enorme sviluppo dei mammiferi. E quell’evento ha anche fornito alla vita terrestre la possibilità, attraverso l’intelligenza, di prendere coscienza del pericolo e cercare i mezzi per farvi fronte. O almeno speriamo che sia così.
Per simmetria vi dovrebbe essere una quarta classe di oggetti: quelli con distanza afeliaca minore di 1.0 UA (simmetrici degli Amor) che potrebbero incontrare la Terra al suo perielio. L’esistenza di tali oggetti (denominati IEO, Interior to Earth’s Orbit) è stata postulata varie volte ed è suffragata da numerose simulazioni al calcolatore. Il primo e per ora unico IEO scoperto è 2003 CP20.
Le osservazioni radar di asteroidi sono molte di più: le due citate sono quelle che hanno permesso di 'fotografare' gli oggetti analizzando le onde radar riflesse.
Ricordo che con questo termine si intende dire che nessun asteroide (tranne forse 1 Ceres) è rimasto immutato com’era all’inizio; tutti gli asteroidi che vediamo oggi sono frammenti di qualche progenitore. Questo è probabilmente altrettanto vero per le comete.
In tal caso si dice che la superficie in esame è “satura”.
Sarà opportuno notare a questo punto che esiste un terzo metodo per valutare il numero di oggetti maggiori di una data dimensione. Esso si basa sulla statistica di incontri ravvicinati con la Terra. Ultimamente sono state effettuate varie stime basate su questo metodo, stime che mostrerebbero l’esistenza di un numero di oggetti lievemente inferiore a quello indicato nella figura 10.3.
E’ questo il motivo per cui il rientro di razzi, sonde e satelliti artificiali nell’atmosfera non desta quasi mai preoccupazione. Tuttavia l’ONU mantiene, in collaborazione con l’Air Force americana, un catalogo di tutti i “detriti spaziali” che ritornano al suolo. Questo controllo è necessario per assicurarsi che il rientro di oggetti spaziali non provochi danni a cose e persone.
In realtà, nel 1930 un evento solo leggermente meno violento avvenne nella foresta amazzonica. L’evento fu documentato da un missionario italiano e pubblicato sull’Osservatore Romano. Nel 1947, un altro bolide cadde nella zona di Sikhote-Alin, sempre in Siberia. Si trattava probabilmente di un oggetto più piccolo, che si è frantumato abbastanza vicino al suolo da formare un certo numero di piccoli crateri.
Gli incendi a migliaia di chilometri di distanza non sarebbero accesi, in questo caso, per diretto irraggiamento, a causa della curvatura della superficie terrestre. Tuttavia il materiale verrebbe espulso dall'urto su orbita balistica e verrebbe distribuito in poco tempo su un'area molto vasta. Rientrando nell’atmosfera raggiungerebbe temperature tali da provocare l’ignizione.
Se, ad esempio, non siamo in grado di distinguere due strati rocciosi che differiscano in età per 200.000 anni, e la specie in esame si è estinta in un periodo più breve, per noi essa sarà sparita “improvvisamente”.
Ricordiamo che una teoria scientifica non può mai essere provata “vera”, nel senso in cui sono ad esempio “veri” i teoremi di matematica, ma può essere dimostrata “falsa”, anche con un solo esperimento (esperimento cruciale). Se questo non è il caso, allora la teoria deve essere accettata, almeno temporaneamente.
Le tectiti sono curiose formazioni vetrose che hanno origine per fusione durante un impatto. La loro espulsione dal luogo di formazione su traiettorie molto veloci conferisce loro delle forme caratteristiche.
1016 è un numero che per molti non ha senso. Per renderlo un po’ più comprensibile basterà pensare che una tale quantità di polvere corrisponde al “materiale di risulta” che si otterrebbe asportando uno strato di 20 metri di profondità dalla superficie dell’intera Italia.
Oltre che attraverso il trasporto orizzontale dovuto alle correnti in quota, molte particelle devono aver raggiunto la faccia opposta del pianeta su traiettorie balistiche, che le hanno fatte prima uscire e poi rientrare nell'atmosfera terrestre.
L'iridio è un metallo del gruppo del platino, assieme al platino stesso, all'osmio e al rodio.
Bisogna notare, a questo punto, che molte specie di dinosauri si erano già estinte da molto tempo. E’ incorretto pensare che tutti i dinosauri siano periti nell'evento K/T.
E’ questo un esempio notevole di come un “sistema complesso”, come è l’ecosistema terrestre, si autoorganizzi in seguito ad una perturbazione di notevole entità.
Questa è un’altra freccia all’arco dei fautori degli “equilibri punteggiati”, secondo la denominazione di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge. Una tale visione dell’evoluzione non contraddice la teoria di Darwin, ma riconosce che i meccanismi evolutivi possono agire in maniera “discreta” piuttosto che “continua”.
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