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Giove e Saturno sono in gran parte gassosi, e probabilmente una parte considerevole della loro massa si è accresciuta dalla nebulosa solare primitiva quando il gas era ancora abbondante.
Inoltre, la teoria della instabilità nucleata permette di descrivere la formazione dei satelliti in modo molto semplice, come effetto collaterale della formazione del corpo centrale.
Per la formazione dei pianeti giganti vengono solitamente proposti due scenari: nel primo scenario si assume che i nuclei si formano per primi, per accumulazione, con un meccanismo simile a quello generalmente accettato per la formazione dei pianeti terrestri (Safronov, 1969; Safronov e Ruskol, 1982). Man mano che il nucleo aumenta di dimensioni, sempre più gas nebulare viene catturato nella sua sfera d’influenza, fino ad arivare alla formazione di un grande e massiccio inviluppo. A questo punto ha inizio una fase di accrescimento rapido. Il secondo scenario assume che i pianeti giganti si formano per instabilità gravitazionale in una nebulosa solare massiccia (Cameron, 1978; Bodenheimer et al. , 1980; Mayer et al., 2002), con composizione chimica di tipo solare e massa probabilmente maggiore delle masse attuali dei pianeti giganti. Il nucleo solido si forma per sedimentazione di materiale solido/evaporato nel centro della struttura, o anche per cattura di planetesimi solidi (Pollack, 1979; Pollack et al. , 1986, 1996). Protopianeti gassosi giganti si possono formare quando l’instabilita’ si sviluppa in un aggregato. De Campli e Cameron (1979), Bodenheimer (1985), Boss (1997, 1998) hanno costruito modelli di dischi instabili e hanno ottenuto un aumento della densità massima di un fattore 20 rispetto al background, dando luogo ai cosiddetti “clumps”. Questi aggregati possono diventare protopianeti giganti attraverso uno stadio intermedio in cui la loro densità rimane costante. Un punto chiave è quindi la formazione a posteriori di un nucleo. Boss (1989) sottolinea come un nucleo corrispondente al materiale ad alto peso molecolare con composizione solare (sei e due masse terrestri per la masse di Giove e Saturno rispettivamente) può essersi formato per differenziazione dei “clumps”. Bisogna notare che, benché i modelli dell’interno di Saturno non escludano la possibilità che il pianeta abbia un piccolo nucleo, questa non è la situazione considerata più probabile (Wuchterl et al. 2000). Inoltre, questo tipo di modelli sembrerebbe prevedere l’esistenza in Giove di un nucleo maggiore di quello di Saturno, il che e’ solo in parte consistente con gli attuali modelli di interno (Wuchterl et al., 2000).
Un altro problema del modello di instabilità gassosa è che spiega con difficoltà la grande quantità di elementi pesanti presenti in Giove e Saturno, in accordo con i recenti modelli di interno (Guillot 1999). In ogni caso, un contributo notevole alla quantità di elementi pesanti dovrebbe essere fornito dall’accrescimento di planetesimi nelle fasi finali del processo. Wuchterl et al. (2000) affermano anche che la sopravvivenza dei pianeti giganti necessita della presenza di una pressione di confinamento come quella esercitata dalla nebulosa solare. Questo pone anche dei vincoli sul tempo di vita della nebulosa, che secondo Bodenheimer (1985) dovrebbe essere inferiore al milione di anni. Il passo successivo è verificare se i protopianeti giganti sono convettivamente stabili durante questo periodo, affinché la crescita non turbolenta del nucleo possa avere luogo. De Campli e Cameron (1979) ottengono nei loro modelli protopianeti giganti largamente convettivi.
Nonostante i molti punti deboli delle teorie di formazione dei pianeti giganti, la scoperta di vari massicci pianeti extrasolari sta spingendo i teorici ad adottare la teoria della formazione rapida di pianeti giganti per instabilità diretta del gas. Inoltre, si può affermare che, anche nel caso in cui si formano grandi nuclei solidi planetari, questi possono essere spostati verso la stella, a causa dell’interazione con il disco circostante (Lin e Papaloizou, 1986); tuttavia, questi modelli si applicano a condizioni molto diverse da quelle presenti nel Sistema Solare, dove la nebulosa solare era molto probabilmente otticamente sottile e fredda. Massicci protopianeti giganti non possono probabilmente sopravvivere alle instabilità mareali e rotazionali, e la formazione di un nucleo solido da un gas con composizione di tipo solare richiederebbe assunzioni ad hoc e tempi scala molto lunghi (Wuchterl et al. 2000).
Per tutti questi motivi, l’approccio della teoria dell’instabilità nucletata è da preferire. I primi lavori sull’ipotesi dell’instabilità nucleata, in cui si assumeva che questi nuclei solidi innescavano la formazione di pianeti giganti, erano motivati dall’idea che il nucleo, raggiunta una certa massa critica, non poteva sostenere un’atmosfera e quindi aveva luogo un accrescimento isotermo shock-free (Bond e Hoyle 1944, Bondi 1952). Da allora, la complessità dei modelli di instabilità nucleata è aumentata: Safronov e Ruskol (1978) hanno fatto notare che, anche dopo la fase di instabilità della massa critica, la velocità di accrescimento del gas e’ determinata non dalla rapidità di trasferimento di massa al pianeta come nella teoria dell’accrescimento di Bondi, ma dalla perdita di energia dell’inviluppo in fase di contrazione. Tuttavia, il modello di instabilità nucleata ha ancora alcuni punti deboli, a partire dal lungo tempo richiesto per la costruzione di un nucleo solido, prima della dissipazione del gas nebulare. Questo problema può essere mitigato se si prendono in considerazione vari effetti combinati che portano ad un accrescimento più veloce, come l’assunzione di una nebulosa più massiccia o l’accrescimento per mezzo di “superganymedean puffball” (Safronov e Ruskol 1982, Lissauer 1987, Stevenson 1984, 1988) o ancora l’effetto sull’accrescimento delle interazioni a tre corpi. (Greenzweigh e Lissauer 1990).
Un altro problema riguarda lo sviluppo stesso dell’instabilità nel nucleo. I primi modelli di formazione dei pianeti giganti per cattura di materiale a basso numero atomico dalla nebulosa circostante (Mizuno et al., 1978; Mizuno, 1980) mostravano che è possibile costruire serie di modelli di equilibrio di nuclei circondati da inviluppi gassosi. Wuchterl (1991) ha tentato di ottenere modelli consistenti di strutture di equilibrio di pianeti giganti ma ha incontrato varie difficoltà, in particolare il fatto che una gran parte dell’inviluppo era localizzato in regioni di instabilità vibrazionale. Tuttavia, l’esistenza di un nucleo solido nei pianeti giganti è un argomento decisivo nella scelta tra i due modelli possibili. I recenti dati ottenuti dalla sonda Galileo sembrano indicare che la massa del nucleo necessaria a spiegare il campo gravitazionale osservato dovrebbe essere circa 12 masse terrestri invece di 30-45 masse terrestri (vedere per es. Guillot et al. 1997). Nel caso di Saturno il nucleo più grande, secondo i nuovi dati e i modelli, dovrebbe essere di 15 masse terrestri (Guillot 1998). Questi nuovi valori sembrano accordarsi meglio con i recenti calcoli idrodinamici che suggeriscono la formazione diretta di pianeti giganti per instabilità gravitazionale di un disco protoplanetario (Boss 1998, Mayer et al. 2002), tuttavia nessuno di questi calcoli ha potuto mostrare come sia possibile la formazione del nucleo.
I risultati ottenuti dal modello di formazione dei pianeti giganti indicano che l’instabilità nucleata è un meccanismo che permette di spiegare molte delle caratteristiche attuali dei pianeti giganti. Per una Nebulosa Solare di piccola massa, l’accrescimento del corpo centrale dura alcune decine di migliaia di anni, e tale processo sarebbe anche più veloce assumendo valori maggiori e più realistici per la massa della Nebulosa Solare; per spiegare le masse dei pianeti giganti del nostro Sistema Solare è dunque necessario chiamare in causa un meccanismo di impoverimento.
Il processo di accrescimento planetario genera in effetti nel gas nebulare delle strutture ove il gas è più denso e delle zone di rarefazione, ma tali zone non sono sufficientemente estese da determinare l’arresto del processo di accrescimento. D’altro canto, l’evidenza fornita dalla composizione chimica dei pianeti giganti sembra indicare che il gas nebulare, ed in particolare l’idrogeno, dovrebbe essere stato dissipato nel tempo scala dell’accrescimento di Giove: infatti l’idrogeno nei pianeti giganti risulta essere progressivamente meno abbondante muovendosi verso l’esterno del Sistema Solare.
È necessario quindi chiamare in causa processi di tipo dissipativo, il cui effetto combinato sarebbe responsabile delle attuali caratteristiche del Sistema Solare. Il primo di tali processi potrebbe essere la formazione di un gap stabile dovuto alla interazione tra il pianeta centrale e la nebulosa circostante che, qualora i vincoli termodinamici siano soddisfatti e la turbolenza del gas non sia troppo elevata, permetterebbe la formazione di una regione a forma anulare molto impoverita in gas che conterrebbe al suo interno i pianeti in formazione; in questo modo sarebbe possibile ottenere tempi finali di accrescimento molto più lunghi. Tale meccanismo potrebbe essere accoppiato ad altri processi dissipativi, quali un forte vento solare associato alla fase T-Tauri primordiale del Sole, ed al trasporto turbolento di materia e momento angolare, che nel corso del processo di formazione dei pianeti avrebbero trasformato la Nebulosa Solare dalle condizioni iniziali di massa minima ad una nebulosa di massa piccola e otticamente trasparente.
Alla fine del processo di accrescimento, il pianeta è circondato da un’atmosfera che si estende fino ad alcune centinaia di raggi gioviani e che si fonde con il disco circostante di materiale catturato. La fase finale dell’accrescimento è lenta: il pianeta si contrae per azione del raffreddamento termico su tempi scala dell’ordine di quelli di Kelvin-Helmoltz. Il momento angolare è molto vicino al valore attuale del momento angolare di Giove, ed il trasferimento di momento angolare ai satelliti è trascurabile, a differenza di quanto avviene nel caso del Sole e del disco protoplanetario.
Quando il raggio del protopianeta è sufficientemente piccolo emerge gradualmente dall’atmosfera in contrazione un disco protosatellitario di materiale catturato: tale disco è in rotazione prograda ed è continuamente rifornito di materiale dalla nebulosa. Le condizioni di questo disco sono tali che in esso può avere luogo la formazione dei satelliti .
La comprensione dei pianeti gioviani ha subito un incredibile sviluppo grazie alla sonda Galileo. Ci aspettiamo una analoga serie di risultati dalla analisi dati della sonda Cassini che raggiungerà Saturno il 1 Luglio 2004.
Il Sole trasferisce energia all’eliosfera sotto forma di radiazione sia elettromagnetica sia corpuscolare. La radiazione elettromagnetica nel visibile e vicino infrarosso è assorbita e ridistribuita attraverso complesse interazioni con l’atmosfera, gli oceani e le terre emerse. Per quanto riguarda la radiazione solare corpuscolare, il trasferimento di energia avviene attraverso il vento solare ed emissioni sporadiche di particelle di alta energia. Il vento solare interagisce con i corpi del sistema solare. Il diverso peso svolto in questa interazione da campi magnetici, atmosfere e superfici è fonte di una grande varietà di fenomeni. Nel caso specifico di un pianeta magnetizzato, come la Terra, si ha la formazione di una cavità magnetica (magnetosfera) che protegge il pianeta dal vento solare. La magnetosfera è dominata dal campo geomagnetico ed è separata dalla regione del vento solare da una superficie detta magnetopausa. È una regione complessa, costituita a sua volta da varie regioni separate da strati di corrente, aventi proprietà e ruoli diversi. Il comportamento dinamico della magnetosfera è in gran parte guidato dall’energia estratta dal vento solare attraverso l’interazione del campo magnetico di quest’ultimo con il campo geomagnetico.
Sia la radiazione elettromagnetica che corpuscolare sono caratterizzate da fenomeni transienti che seguono l’andamento ciclico undecennale dell’attività solare. Gli effetti transienti, legati all’insorgere di coronal mass ejections e flares solari, generano perturbazioni del vento solare e delle condizioni fisiche dell’eliosfera, di grande rilevanza per i loro effetti magnetosferici. Un processo importante, che si verifica per particolari condizioni del vento solare, è la riconnessione magnetica della magnetopausa, ossia la riconfigurazione del campo magnetico, a seguito della quale si generano tubi di flusso magnetici che attraversano le due regioni inizialmente separate, consentendo al plasma di fluire da una regione all’altra. Si avrà allora trasferimento di massa, energia e quantità di moto dal vento solare alla magnetosfera, con conseguenze importanti per la dinamica di tutta la magnetosfera. La scienza che studia questi fenomeni e come essi alterano le condizioni del sistema Sole-Terra è indicata come Space Weather.
I fenomeni solari all’origine dello Space Weather sono dunque fenomeni sporadici legati all’attività solare, che rilasciano una grande quantità di energia su scale temporali molto brevi. Questi fenomeni, localizzati in regioni piccole (su scala solare) della corona e delle regioni sottostanti (cromosfera e fotosfera), producono flussi esplosivi di particelle di alta energia e/o grandi eruzioni di plasma e campo magnetico, le Coronal Mass Ejections (CME).
Emissioni di particelle di alta energia sono associate ai brillamenti solari più importanti. I loro effetti sono di grande rilevanza, sia sui satelliti artificiali, sia sulla magnetosfera e la Terra stessa, se si trovano all'interno del cono di emissione. Sulla magnetosfera, ad esempio, danno luogo ad una complicata catena di fenomeni, non ancora completamente compresi.
L’emissione particellare è in genere, ma non esclusivamente, interpretata come risultato di fenomeni di riconnessione magnetica nella corona solare interna. Il fenomeno di riconnessione è anche caratteristico della magnetosfera terrestre dove può essere osservato da strumenti che permettono una misura diretta dei parametri fisici, come discusso in seguito.
I modelli relativi alla riconnessione magnetica nell’atmosfera solare, sviluppati nell’arco di tre decadi, sono molti e molto complessi. Per la loro verifica è essenziale giungere ad un’altissima risoluzione spaziale, compatibile con la scala su cui avviene il processo fisico, come previsto attraverso missioni come Solar B e SDO.
Per esemplificare come l’attività solare influenzi il sistema Sole-Terra, e quale salto di qualità si possa raggiungere nell’interpretazione di tali fenomeni con il programma che proponiamo, tra brillamenti solari e CMEs scegliamo di discutere in dettaglio il fenomeno delle coronal mass ejections, che è quello la cui comprensione è più progredita negli anni recenti con l’avvento di SOHO.
Per quanto possiamo avanzare nelle conoscenze sulla formazione del nostro sistema solare e delle sue relazioni con la stella Sole, le domande generali fondamentali che ci facciamo non possono trovare tutte le risposte mediante l’esplorazione dell’unico sistema di cui facciamo parte. Come si formano i sistemi planetari in generale, quale sia la loro relazione con la stella centrale, se esistano altri pianeti ‘abitabili’ (secondo la definizione che sarà data in seguito) sono domande a cui si sta cominciando a rispondere da pochi anni tramite l’osservazione sistematica delle stelle vicine per scoprire la presenza di proto-pianeti, pianeti, o altri sistemi planetari. Dal punto di vista degli “altri Soli”, lo studio delle stelle ha risposto già da tempo a gran parte delle domande fondamentali sulla loro struttura ed evoluzione, ma solo in modo indiretto, per mezzo della scienza dell’ evoluzione stellare, che ha un ruolo centrale per buona parte dell’astrofisica. Misure ‘dirette’ di ciò che avviene dentro le stelle sono per il momento limitate alle osservazioni dei neutrini solari e delle oscillazioni acustiche del Sole. L’estensione della tecnica di osservazione delle oscillazioni (sismologia stellare) a centinaia di stelle permetterà di eliminare le ambiguità di interpretazione sulla struttura ed età delle stelle, intrinseca nei metodi basati sull’evoluzione stellare. Esaminiamo quindi più in dettaglio i problemi generali, sia delle stelle che dei sistemi planetari, per capire come la missione ESA Eddington possa offrire un mezzo di indagine di grande impatto su entrambe i problemi.
La questione dell’esistenza di ‘altri mondi’ è stata nelle menti degli uomini per millenni, dall’antica Grecia in poi. Solo nel 1995 è stato scoperto il primo pianeta extrasolare gigante (circa mezza massa di Giove), intorno ad una stella ‘normale’, la stella G2V 51 Peg. Un centinaio di pianeti sono stati scoperti finora intorno a stelle di sequenza (vedi https://www.obspm.fr/planets), ma nessun piccolo pianeta di tipo terrestre, ad eccezione di quelli intorno alle pulsar, a causa delle tecniche di osservazione adottate. L’argomento dell’esistenza di vita su pianeti extrasolari è quindi diventato più importante che mai: la ricerca di una risposta a questo quesito costituirà uno dei maggiori campi scientifici del 21mo secolo. Un passo preliminare è quello di rilevare pianeti rocciosi nella cosiddetta ‘zona abitabile’, seguito da una sequenza di ‘esperimenti’ allo scopo di rilevare vita in altri posti della Galassia. Una volta che si siano rivelati simili pianeti ‘abitabili’ sarà possibile investigare le loro proprietà con future osservazioni spettroscopiche a bassa risoluzione, come programmato dalle missioni ESA IRSI e Darwin e dalla missione NASA Terrestrial Planet Finder.
Il set di esopianeti scoperto finora ha aperto molti nuovi problemi: per esempio, i pianeti scoperti sono molto più vicini (fino a un fattore 100) alle loro stelle di quanto ci si aspettasse dall’unico esempio del nostro sistema solare. Lo scenario per la formazione dei pianeti giganti, che si basa sulla formazione preliminare di un core di ghiaccio, richiede che essi non si possano formare più vicini di 4 AU dalla stella madre, cioè dove la temperatura è sotto i 200K. La teoria della migrazione, nella quale le interazioni mareali tra il protopianeta e il disco risulta in uno scambio di momento angolare tra pianeta e disco, sembra in grado di spiegare i valori estremi di vicinanza osservati. Ma questo dà origine ad un’altra domanda: perché la migrazione è stata così diversa, nel caso del sistema solare, da quella dei sistemi rivelati finora? Quindi un problema chiave è se esistano veri analoghi del sistema solare, e se essi siano comuni. I sistemi esoplanetari noti finora sono molto diversi dal nostro, per cui è d’obbligo chiedersi se il sistema solare sia un caso speciale o se esista una vasta varietà di sistemi planetari. Mentre pianeti più vicini di 2.5 AU e più massicci di 70 M sono stati rivelati in 5% del campione di stelle monitorate con sistematicità, pianeti meno massicci di 70 M o più lontani di 2.5 AU (Giove ha M = 320 M ed è a 5 AU dal Sole) non si possono rivelare con le tecniche di variazione delle velocità radiali, quindi gli analoghi del sistema solare non si sarebbero potuti rivelare con questo metodo. Quindi i programmi di grande successo per la ricerca di pianeti da terra lasciano molte questioni irrisolte, in primo luogo se altre stelle abbiano pianeti abitabili e con quale frequenza questi siano presenti. Tecniche osservative diverse (prima fra tutte quella dei transiti che sarà adottata da Eddington) sono necessarie per rispondere a questi problemi.
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