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Siamo consci di non saperne abbastanza sui NEO, sulla loro dinamica, sulle loro proprietà fisico-strutturali, sui fenomeni che accompagnano la loro caduta sul nostro pianeta. Dunque il primo passo da compiere per una efficacie prevenzione è di approfondire il più possibile le nostre conoscenze. Questo lavoro d’indagine può essere effettuato su tre fronti contemporaneamente. Il primo consiste nella scoperta pura e semplice; dobbiamo scandagliare il cielo alla caccia dei NEO, in modo da individuare almeno tutti gli oggetti relativi al terzo e quarto grado della scala di gravità, quelli cioè che pongono rischi globali. Solo allora potremo essere tranquilli che nessuno di essi - come è probabile - entrerà in collisione con la Terra nel prossimo futuro.
Tuttavia la scoperta non basta. Come si è tante volte verificato nel passato, un oggetto osservato malamente o per un periodo di tempo troppo breve viene perso rapidamente. Alla scoperta devono seguire continue osservazioni, volte a calcolare sempre meglio l’orbita degli oggetti appena scoperti. E questo va fatto per due motivi: per poterli ritrovare in futuro (e quindi tenerli sotto sorveglianza) e per poter indagare con sufficiente accuratezza il loro cammino per qualche centinaio di anni nel futuro.
Ma anche questo studio - eminentemente teorico o computazionale - non è sufficiente. La previsione degli effetti di una caduta e l’approntamento delle eventuali contromisure richiedono infatti che noi si conosca molto meglio di ora le proprietà fisiche degli oggetti scoperti: grandezza, massa, composizione, periodo di rotazione, resistenza dei materiali, possibilità che i corpi siano doppi o multipli, loro grado di coesione. Questi studi possono in parte essere effettuati da terra, ma sono condotti al meglio da sonde spaziali automatiche. Dobbiamo al più presto raggiungere oggetti “tipici” e fare misure sul posto, possibilmente raccogliendo e riportando a terra campioni di materiali sia superficiali che profondi.
Il primo asteroide NEO, 433 Eros (un Amor), fu scoperto nel 1893 da Wolf ad Heidelberg (Germania). Solo pochi NEO vennero scoperti nei decenni successivi, finché non ebbero inizio regolari campagne osservative negli anni ‘70. Anche allora però l’osservazione sistematica dei NEO non era ritenuta un campo d’indagine particolarmente avvincente e chi vi si è dedicato ha sempre dovuto accontentarsi dei ritagli di tempo lasciati per l’uso dei grandi telescopi, normalmente dedicati a ricerche più “dignitose” come lo studio delle galassie lontane, oppure ricorrere a strumenti di bassa potenza, meno usati.
Il tipo di lavoro astronomico necessario per la scoperta di NEO si basa sulle tecniche usuali per determinare la posizione di oggetti sulla volta celeste (astrometria). Tuttavia la scoperta di NEO – contrariamente a quella di galassie e ammassi stellari – presenta due ostacoli importanti che richiedono una strategia opportuna d’osservazione e la realizzazione di appositi strumenti, sia astronomici (telescopi e sensori) che computazionali (programmi per l’identificazione di oggetti).
Infatti i NEO, come tutti gli oggetti del sistema solare, si muovono di moto abbastanza veloce rispetto alla Terra e sono sufficientemente vicini (su scala astronomica) da rendere spesso rilevante l’effetto della parallasse. Da un lato questo implica che le immagini prese per individuare nuovi oggetti devono avere piccoli tempi d’esposizione per evitare la formazione di tracce che possono rendere difficile la misura della posizione ad un dato istante; d’altro canto le posizioni geocentriche misurate devono essere corrette per la posizione dell’osservatore sulla superficie terrestre. Inoltre, il requisito più importante per un programma di scoperta è di osservare ripetutamente quanto più cielo è possibile in modo da minimizzare la probabilità di “mancare” un oggetto. Vi sono numerose strategie elaborate negli ultimi anni a questo proposito; il loro comune carattere è la disponibilità di strumenti di grande campo (anche se non di grande apertura) e l’uso di sofisticati programmi d’analisi delle immagini. Una volta che un’immagine – o meglio una sequenza di immagini – sia stata presa e la posizione dell’oggetto misurata, è necessario identificare l’oggetto trovato. Una tipica ricerca infatti individua oggetti di ogni tipo, specialmente asteroidi della fascia principale. In molti casi questi oggetti sono stati già scoperti e osservati in passato; è quindi necessario controllare se gli oggetti fotografati sono veramente “nuovi” o se si tratta invece di riscoperte.
Negli anni ‘70 Eleanor F. Helin e Eugene M. Shoemaker dettero il via ad un programma di osservazioni regolari, utilizzando un piccolo telescopio di tipo Schmidt dell’osservatorio di Monte Palomar; questi strumenti sono molto usati per la “caccia” ad asteroidi e comete unendo un ampio campo di vista ad una buona luminosità. Helin e Shoemaker hanno sempre usato pellicole fotografiche (i sensori digitali non erano ancora comuni). La tecnica d’osservazione era piuttosto semplice: scelto un campo della volta celeste si effettuava una lunga posa, sperando di catturare un oggetto in moto veloce. Questi erano riconoscibili, una volta sviluppato il film, perché lasciavano sulla fotografia una traccia più o meno lunga. I telescopi infatti sono dotati di motori che compensano la rotazione terrestre, così da rimanere puntati verso lo stesso punto del cielo per un tempo abbastanza lungo (anche ore). Tutte le stelle impressionano la pellicola come punti luminosi ma se nel campo di vista si trova un oggetto che si muove velocemente rispetto alla Terra (e tutti i NEO sono così) esso traccia un percorso direttamente proporzionale alla sua velocità[1] e inversamente proporzionale alla sua distanza. Questo è il motivo per cui i telescopi Schmidt sono particolarmente indicati per questo tipo di indagini; infatti, uno dei problemi principali nell’osservazione di oggetti vicini alla Terra è che questi si muovono, sullo sfondo delle stelle, con una notevole velocità. Se il telescopio usato ha un campo di vista troppo piccolo c’è il rischio che la traccia lasciata dell’oggetto lo attraversi completamente, cosicché non se ne può vedere l’inizio o la fine. In mancanza di uno di questi punti di riferimento è impossibile calcolare l’orbita dell’oggetto. I telescopi Schmidt hanno un campo di vista che può raggiungere i 3-5 gradi di lato.
La pellicola fotografica impressionata veniva quindi analizzata e, se un oggetto veniva trovato, si effettuavano altre pose nelle notti successive. Per poter determinare una prima orbita servono almeno tre osservazioni ad una certa distanza l’una dall’altra.
La ricerca di Helin e Shoemaker è durata fino al 1980. In quell’anno i due ricercatori si sono “separati” continuando ognuno la sua personale ricerca. Quella della Helin venne denominata PCAS (Planet-Crossing Asteroid Survey) e quella di Shoemaker e sua moglie Carolyn PACS (Palomar Asteroid and Comet Survey). Il loro successo, trattandosi alla fine di pochissimi ricercatori, è stato notevole. La maggioranza dei NEO scoperti fino alla fine degli anni ‘80 fanno parte del loro carniere. Le ricerche PACS e PCAS sono state chiuse alla metà degli anni ’90.
Una terza campagna dedicata ai NEO è stata iniziata negli anni ‘80 da Tom Gehrels (lo scopritore di P/Gehrels 3) e collaboratori, dell’Università dell’Arizona a Tucson. Essi hanno realizzato un sistema d’osservazione del tutto nuovo per allora, che non faceva uso di pellicole fotografiche ma delle cosiddette CCD (Charge-Coupled Devices: dispositivi a scorrimento di carica). Questi chip elettronici, ormai molto diffusi nelle telecamere personali, consistono di una “matrice” di sensori sensibili alla luce, i pixel; nelle telecamere l’immagine viene ricostruita, molte volte al secondo, “leggendo” per ogni pixel la quantità di luce che l’ha colpito. Si può leggere l’immagine contenuta in una CCD facendo scorrere le “righe” dall’alto verso il basso: la riga inferiore viene memorizzata in un calcolatore, quindi la successiva prende il suo posto e viene memorizzata, e così via. L’operazione di lettura è velocissima, e può essere ripetuta appunto molte volte al secondo.
La tecnica usata dal gruppo di Gehrels (programma Spacewatch) consiste nel muovere il telescopio alla stessa velocità con cui le righe della CCD vengono fatte scorrere dall’alto al basso nella direzione perpendicolare ad esse, e nel leggere in continuazione la riga che esce dal chip[2]. Man mano che il tempo passa le stelle riprese dalla CCD si muovono - tutte insieme - scorrendo da una riga all’altra; le letture delle righe della CCD vengono quindi memorizzate su nastro magnetico. Questa operazione viene ripetuta tre volte in successione per ogni zona di cielo. Quindi un calcolatore esamina tutte le letture, comparando quelle relative alle tre “spazzate”, e individua tutti gli oggetti che non si muovono nella stessa direzione e alla stessa velocità degli altri. Il sistema è molto efficiente, essendo le CCD degli strumenti molto sensibili. Il gruppo di Spacewatch detiene infatti il record di scoperta di oggetti deboli, attorno alla magnitudine 20-22. Il telescopio usato da Spacewatch (vedi la figura 11.1) è un normale riflettore newtoniano, con specchio di 91 centimetri, posto nell’Osservatorio di Kitt Peak in Arizona. In questo caso non è fondamentale un ampio campo di vista, poiché la tecnica usata non richiede l’analisi di tracce ma individua automaticamente gli oggetti in moto veloce.
Una quarta ricerca dedicata è stata attiva per la prima metà degli anni ‘90 in Australia, all’Osservatorio Anglo-Australiano. Essa è stata condotta da Duncan I. Steel e Kenneth S. Russell, con uno Schmidt e pellicole fotografiche. I due astronomi hanno al loro attivo parecchie scoperte e un certo numero di “riscoperte”; queste ultime consistono nel ritrovamento di oggetti persi o nell’individuazione, in lastre o pellicole fotografiche prese negli anni passati per tutt’altro scopo, di oggetti mai notati prima. La ricerca di Steel e Russell, detta AANEAS (Anglo-Australian Near-Earth Asteroid Survey) è terminata nel 1996 perché il governo australiano, nonostante vigorose proteste da parte di tutti noi, l’ha ritenuta “poco interessante”.
Delle quattro campagne nominate finora Spacewatch è l’unica ancora operante con continuità e dedicata esclusivamente ai NEO. Nel loro svolgimento, naturalmente, si sono effettuate anche scoperte di oggetti non NEO, cioè asteroidi della fascia principale, Troiani, transnettuniani e comete di tutti i tipi.
Malgrado questo apparente insuccesso, però, la situazione è oggi molto migliore di qualche anno fa. Infatti negli ultimi anni hanno preso il via altri sei progetti esclusivamente dedicati alla scoperta di NEO (cinque ancora attivi): NEAT, LINEAR, LONEOS, Catalina Sky Survey, Bisei e CINEOS. I primi quattro sono americani, il quinto giapponese e l’ultimo italiano.
Il progetto NEAT (Near-Earth Asteroid Tracking) fu iniziato dalla Helin nel dicembre 1995. Il suo gruppo ha avuto il permesso di utilizzare parte del tempo osservativo di un telescopio della US Air Force a Maui (Hawaii). Questo strumento fa parte della rete americana GEODSS (Ground Electro-Optical Devices for Satellite Survey) un tempo usata per la sorveglianza di satelliti-spia russi e ora impiegata soprattutto per il controllo di “detriti spaziali” in orbita. Il programma NEAT è rimasto attivo per circa quattro anni, dopo di che è stato sostanzialmente chiuso dall’Air Force. Il team di NEAT ha ora ripreso le osservazioni, sia alle Hawaii sia all’osservatorio del Monte Palomar, utilizzando però un telescopio più potente del piccolo Schmidt (il “grande” Schmidt Oschin) e i sensori sviluppati per lo strumento delle Hawaii.
Un grosso balzo in avanti fu realizzato nel 1998, quando il progetto LINEAR (LIncoln Near-Earth Asteroid Research) divenne pienamente operativo. LINEAR è un progetto del Lincoln Laboratory del Massachusetts Institute of Technology (USA). Questo laboratorio, fortemente impegnato nello sviluppo di tecnologie militari, mantiene un sito sperimentale a White Sands, nel New Mexico, dove si trovano altri strumenti della rete GEODSS; il telescopio usato da LINEAR non è però operativo, esso viene utilizzato per le prove di nuova strumentazione.
Il progetto utilizza una CCD di moderna concezione (non
disponibile sul mercato in quanto coperta da segreto militare), la cui
principale caratteristica consiste in una elevatissima velocità di lettura.
Anche se il campo di vista dello strumento di LINEAR non è particolarmente
grande, le proprietà di questa CCD consentono al gruppo di effettuare numerose
osservazioni in un tempo brevissimo.
Dopo un periodo iniziale di prova, LINEAR ha cominciato osservazioni regolari nel marzo 1998; esso ha dimostrato subito le sue potenzialità inviando al Minor Planet Center (il centro internazionale di raccolta, vedi oltre) 151.000 osservazioni di asteroidi solo nel primo mese, contenenti l’individuazione di 13 nuovi NEO. All’inizio LINEAR osservava solo verso l’opposizione, come Spacewatch e NEAT; in seguito però ha esteso le sue ricerche in un’area più vasta (si veda la figura 11.2).
LONEOS (LOwell Near-Earth Object Survey) è un progetto
Il Catalina Sky Survey utilizza un telescopio Schmidt di 46 cm e una CCD di grandi dimensioni. Il sistema è stato provato a lungo e ha cominciato osservazioni più o meno regolari alla fine del 1999. Le sue potenzialità, dimostrate del resto dai primi risultati, sono molto buone. Dopo uno stop di qualche anno il programma è ora attivo anche nell’emisfero sud, in Australia
Il programma giapponese della Japan Spaceguard Association con sede a Bisei è, al momento, l’unico programma di scoperta in funzione in Asia; tuttavia vi sono grossi problemi tecnici ai telescopi e il programma al momento non produce un granché.
Il programma CINEOS (Campo Imperatore NEO Survey) è entrato in funzione nel 2000. Esso utilizza il telescopio Schmidt della stazione di Campo Imperatore dell’Osservatorio di Roma e promette, almeno sulla carta, di divenire un elemento importante della rete mondiale di scoperta.
Una frazione piccola delle scoperte di NEO viene anche effettuata da singoli ricercatori, sparsi un po’ in tutto il mondo. E’ da notare a questo proposito il contributo delle comunità di astronomi amatoriali (i cosiddetti “astrofili”, quelle persone cioè che, facendo nella vita tutt’altro lavoro, dedicano per passione il loro tempo libero all’osservazione astronomica), soprattutto le comunità giapponesi e italiane. Il loro lavoro, condotto spesso con competenza almeno pari a quella dei professionisti, è già prezioso e lo diventerà sempre più in futuro. E’ motivo di orgoglio per l’Italia che i nostri astrofili siano considerati tra i più bravi ed affidabili del mondo.
Nel 1990 la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti incaricò la NASA di formare due gruppi di lavoro per lo studio del pericolo dovuto ad impatti di comete e asteroidi e delle possibili contromisure da adottare. In risposta a questo incarico 24 scienziati discussero il problema della scoperta di oggetti (dell’altro gruppo di lavoro si dirà in un prossimo paragrafo), giungendo alla proposta di creare una struttura internazionale dedicata alla scoperta e inseguimento di NEO. Questa struttura è stata denominata Spaceguard System e la ricerca è stata battezzata Spaceguard Survey, traendone il nome dal romanzo Incontro con Rama di Arthur C. Clarke. Il gruppo era guidato da Dave Morrison dell’AMES Research Center della NASA e ha prodotto un rapporto finale detto appunto rapporto Morrison (1992).
L’idea portante della definizione di Spaceguard è che il rischio maggiore viene presentato da impatti al terzo e quarto livello di gravità, cioè da oggetti con dimensioni maggiori di un chilometro. Questa è stata una chiara scelta di campo, peraltro notevolmente contestata; cercherò di indicare brevemente le ragioni dei due schieramenti.
L’idea, maturata in ambiente scientifico, si basava sulla differenza qualitativa tra eventi di secondo e di terzo grado. Questi ultimi hanno conseguenze globali, che possono mettere in pericolo la società umana nel suo insieme, mentre i primi – pur nella loro terribile gravità – sono pur sempre eventi con conseguenze limitate. Un sistema di allerta per oggetti di 50-100 metri sarebbe stato – si disse – proibitivamente costoso in rapporto alla frequenza degli eventi. E’ stata dunque una valutazione del bilancio costi/benefici che ha portato a questa scelta. Vi è però anche una considerazione statistica che ha guidato la decisione: se calcoliamo il numero potenziale di morti dovuti ad eventi del terzo o quarto grado, e lo distribuiamo sul periodo di tempo che passa tra impatti di quel tipo, scopriamo che la probabilità che chiunque di noi ha di perire in un “incidente” del genere è comparabile con quella che si ha di morire in un disastro aereo. Non è una probabilità piccola, anche se resta da dimostrare che eventi così diversi nelle loro modalità possano essere davvero confrontati. Gli oppositori di questa linea infatti sostenevano – non a torto – che anche gli eventi di secondo grado, almeno vicino alla soglia superiore, avrebbero la capacità di provocare la morte di centinaia di migliaia se non milioni di persone e di destabilizzare la società, una prospettiva talmente grave da richiedere uno sforzo superiore al normale per la salvaguardia, soprattutto contando che la frequenza di questi eventi è “solo” di uno ogni 10.000-100.000 anni, contro uno ogni 1-10 milioni. Nel 2003 comunque, anche grazie ad un’iniziativa dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), ci si è decisamente incamminati per estendere la Spaceguard Survey ad oggetti fino a 150 metri di diametro.
Come ebbe a dire Brian G. Marsden, direttore del Minor Planet Center, in un suo recente articolo, “le scoperte non inseguite non contano nulla”. Il termine inglese che ho qui tradotto con “inseguire” è follow-up, di non immediata traducibilità: esso indica le osservazioni susseguenti ad una scoperta, necessarie a raffinare il calcolo dell’orbita. Tradurrò questo termine anche con “controllo” o “osservazioni successive”, o non lo tradurrò affatto a seconda del contesto.
Infatti la catena di eventi che riguardano lo studio dei NEO ha un andamento come quello indicato nella figura 11.3. Alla scoperta iniziale segue il calcolo di un’orbita preliminare, cui segue un periodo di osservazioni successive (il follow-up) il cui scopo è di migliorare la determinazione dell’orbita. La nuova determinazione verrà in seguito ulteriormente raffinata e questo ciclo durerà finché sarà possibile predire (o meglio smentire) con accuratezza la possibilità di un impatto nel futuro prossimo.
Il problema del controllo è molto serio. Al momento della scoperta infatti le osservazioni sono in genere sufficienti appena a dare una prima determinazione alquanto imprecisa dell’orbita, che viene raffinata con osservazioni successive. Ad un certo punto però, sia per motivi geometrici legati al moto dei corpi sia per il sopravvenire della luna piena (che impedisce le osservazioni all’opposizione), spesso non è più possibile inseguire l’oggetto scoperto. Sulla base dell’arco di tempo in cui sono state fatte le osservazioni precedenti si calcola allora un’effemeride, cioè la posizione futura dell’oggetto in un periodo di tempo favorevole all’osservazione. Queste previsioni sono naturalmente tanto più accurate quanto più precise e numerose sono state le osservazioni precedenti. Non di rado, per mancanza di inseguimenti adeguati, gli oggetti scoperti vengono perduti.
Poiché la prevenzione dagli impatti implica l’esatta previsione del cammino futuro di un NEO[3], si comprende appieno che il controllo dell’orbita di ogni oggetto scoperto è di vitale importanza. Questa richiesta basilare pone numerosi problemi:
Le osservazioni successive devono essere osservazioni astrometriche, cioè volte a misurare con la massima precisione possibile la posizione e la velocità dell’oggetto nel campo stellare.
Le misure di posizione si basano sulla conoscenza accurata delle posizioni delle stelle vicine (stelle di campo), per cui è fondamentale disporre di un ottimo catalogo di posizioni stellari che coprano l’intera volta celeste; questo è già di per sé un problema non banale.
La notizia dell’avvenuta scoperta deve circolare nel più breve tempo possibile in tutta la comunità astronomica, possibilmente entro un giorno se non in tempo reale. Questo permette ad osservatori che lavorano in altre località di effettuare preziose misure in contemporanea, consentendo una migliore determinazione dell’orbita.
Vi devono essere centri disposti ad effettuare queste osservazioni. Il problema è meno banale di quanto sembri perché le osservazioni successive di un oggetto già scoperto non portano gloria e sono molto noiose.
Quando – con Spaceguard o un suo equivalente funzionante – vi saranno parecchie centinaia di oggetti scoperti ogni mese, la mole di lavoro può divenire insostenibile se non vi è un’accurata pianificazione delle osservazioni. Questo richiede l’esistenza di un Centro di coordinamento, possibilmente anch’esso di natura sopranazionale, a cui affluiscano tutte le osservazioni e da cui vengano emesse direttive e suggerimenti.
Se e quando possibile, devono essere effettuate osservazioni volte ad indagare la natura fisica del NEO appena scoperto: diametro, composizione, periodo di rotazione, eccetera.
Vi è la possibilità, come è stato mostrato recentemente dalla scoperta del cosiddetto “asteroide” 1991 VG, che l’oggetto osservato non sia altro che un satellite artificiale. In quel caso si trattava probabilmente di un oggetto artificiale non catalogato (e ve ne sono molti, specialmente di provenienza militare), sfuggito al campo d’attrazione terrestre e casualmente tornato vicino alla Terra. Col proseguire dell’attività spaziale il problema dell’esistenza di “spazzatura cosmica” può divenire molto serio per le osservazioni.
La lista dei problemi riguardanti un adeguato controllo sugli oggetti scoperti è parecchio più lunga di quella riportata qui, ma quelle indicate sono probabilmente le questioni più rilevanti. Sopra a tutte domina la necessità di non vanificare la Spaceguard Survey per l’inadeguatezza delle osservazioni di controllo. Come si è detto, pochi astronomi hanno il desiderio di applicarsi a questo lavoro, che viene considerato meno interessante di quello di scoperta. Tuttavia una rete ben funzionante potrebbe effettuare un lavoro di scoperta talmente esteso da ridurre la spinta psicologica a fare i “cacciatori di asteroidi”. Questo potrebbe allora facilitare la riconversione alle osservazioni astrometriche.
Inoltre un buon coordinamento centrale, che assegni o almeno consigli le osservazioni successive sulla base delle capacità – tecniche e professionali – di fare un buon lavoro potrebbe invogliare molti astronomi che si trovano in Osservatori di minore importanza a entrare a far parte di un “pool di inseguitori”, specialmente se fosse ben posta in chiaro l’importanza determinante di queste osservazioni ulteriori e se venisse dato il giusto credito all’attività di questi ricercatori. Ciò è particolarmente vero per le ottime équipe di astrofili che raramente hanno accesso a strumenti non proprio “casalinghi”. E’ in buona parte su questo tipo di ricercatori, professionisti e no, che può basarsi una buona rete d’osservazione e controllo, parallela ma strettamente interagente con quella di scoperta.
Nel 1999 la Spaceguard Foundation[4] ha creato, grazie ad un contributo dell’ESA (l’agenzia spaziale europea), un centro di coordinamento internazionale. Questo centro è stato chiamato Spaceguard Central Node (SCN) per sottolineare il carattere di “centro di smistamento” che esso avrebbe dovuto assumere ed è operativo in continuazione, controllato da personale dell’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica.
All’interno della problematica NEO, infatti, il punto cruciale è quello del coordinamento delle osservazioni. Come ho avuto già occasione di accennare le osservazioni confluiscono al Minor Planet Center, un organismo della IAU che provvede alla disseminazione delle informazione e alla compilazione dei cataloghi[5]. Ma l’MPC non può (né deve, a norma di statuto) occuparsi anche del coordinamento delle osservazioni. Questo compito è stato ora trasferito all’SCN.
Il Nodo ha un database che contiene informazioni cruciali sui circa 80 centri che, in tutto il mondo, effettuano osservazioni di NEO. Queste informazioni comprendono naturalmente la posizione sulla sfera terrestre (ivi compresa l’altitudine), le condizioni di visibilità (inclusi gli ostacoli naturali, come montagne o costruzioni), le condizioni meteorologiche, la strumentazione disponibile, il numero di addetti e la frequenza delle osservazioni, e così via. E’ uno strumento potente perché permette di “calibrare” le osservazioni sulle effettive capacità dei singoli centri. Infatti accade a volte che osservazioni cruciali possano essere fatte solo da pochi centri ed è importante sapere se questi centri sono in grado di farle davvero, così come è importante che essi vengano “allertati” da un organismo (come il Nodo) diffusamente riconosciuto come “coordinatore”. Nessun avviso del Nodo ha mai carattere di imposizione, perché non sarebbe né utile né infine possibile imporre alcunché, ma cresce sempre di più la credibilità delle indicazioni che il Nodo fornisce, e alla fine questo è quello che conta. A seguito dell’attività del Nodo il numero di NEO perduti nel 2002-2003 è calato di più del 30%.
Un diffuso spot pubblicitario sosteneva, tempo fa, che la prevenzione è migliore della cura, e credo che poche persone dissentano su questo punto. Nel nostro caso, la prevenzione possibile tramite osservazioni è già stata ampiamente discussa, ma vi è un altro tipo di prevenzione di cui dovremmo parlare.
Immaginiamo che si scopra un asteroide che in un futuro lontano ma non troppo (diciamo 100 anni), possa collidere con la Terra: cosa si dovrebbe fare? vale la pena di mettersi all’opera subito, o non sarà meglio aspettare che l’orbita dell’oggetto in questione sia conosciuta meglio, e che le tecnologie siano progredite un po’ di più? Certamente gli interventi affrettati non sono mai particolarmente saggi, ma anche un periodo di tempo di cento anni può rivelarsi troppo breve se la situazione è particolarmente complicata. Ritengo quindi che, se davvero un NEO in rotta di collisione venisse scoperto, si debba subito pianificare un piano d’intervento. Anche questa è prevenzione.
In particolare ci si dovrà muovere su almeno tre livelli tra loro interdipendenti: primo, cercare di migliorare il più possibile la conoscenza dell’orbita dell’oggetto e delle sue possibili variazioni; secondo, analizzare al meglio il “tipo” di oggetto con cui si ha a che fare; terzo, studiare le misure appropriate per evitare la collisione o ridurne gli effetti. Cerchiamo di esaminare un po’ più in dettaglio ognuno di questi livelli.
Per il calcolo orbitale molto si è già detto; servono accurate misure astrometriche per determinare l’orbita osculante del NEO con una precisione sufficiente a che le previsioni delle sue variazioni su un arco di 100 anni non si traducano in un “errore” maggiore di un raggio terrestre. Solo così, infatti, saremo sicuri che la collisione avrà davvero luogo. Il calcolo dell’evoluzione orbitale di per sé non è particolarmente complesso: esso però si fonda quasi esclusivamente sulla bontà dei dati iniziali. Qualche problema potrebbe sorgere se il NEO avvistato fosse una cometa. Questi corpi infatti sono soggetti a forze di natura non gravitazionale, originate dai getti di gas nelle vicinanze del Sole; predire gli effetti delle spinte non gravitazionali è molto difficile, soprattutto se – come quasi sempre accade – non si conoscono bene le caratteristiche del nucleo.
Il secondo livello di intervento, qualora si scoprisse un NEO diretto contro la Terra, riguarda gli studi sulle proprietà fisiche del corpo. Sarà importante intanto stabilire se si tratta di un corpo “roccioso”, cioè un asteroide vero e proprio, o di una “palla di sabbia”, cioè una cometa ormai inattiva e sostanzialmente priva di volatili o un asteroide incoerente. Le possibilità di diversione dipendono criticamente da questa conoscenza.
Il modo più sicuro per ottenere queste ed altre informazioni è certamente quello di inviare una sonda automatica ad un “rendez-vous” con il NEO. Avendo 100 anni a disposizione si può certamente studiare una missione adatta in modo da porre la sonda in orbita attorno al NEO o – meglio ancora – di farvela atterrare sopra. L’osservazione a distanza ravvicinata permetterebbe, già con le tecniche attuali, di effettuare un’ottima ricopertura fotografica dell’oggetto, riprendendo sulla sua superficie particolari di dimensioni inferiori al metro. Gli spettrometri che sono in fase di sviluppo per molte altre missioni spaziali sono poi in grado di analizzare nei dettagli la luce riflessa dalla superficie, individuando con notevole precisione quali sostanze la compongono. Si può cioè fare un’analisi chimica e mineralogica molto buona senza toccare un grammo di materiale. L’utilizzo di un radar permetterà poi non solo di tracciare mappe tridimensionali della superficie, ma anche di ottenere informazioni rilevanti sulla struttura interna, sulle proprietà elettriche del materiale superficiale e sulla profondità di eventuali strati di polvere.
Tuttavia queste informazioni, anche se di estrema importanza, non sono sufficienti per pianificare al meglio il terzo livello di intervento. Infatti le tecniche di difesa variano a seconda della natura del corpo, intendendo con “natura” non solo la composizione della superficie e la sua morfologia, ma anche la composizione del suo interno. Sarà quindi importante che una sonda possa atterrare sulla superficie per raccogliere campioni di materiale superficiale, ma ancora più importante sarà la possibilità di effettuare sondaggi in profondità, alcuni metri sotto il livello del suolo. Questo tipo di tecniche è stato già studiato per la missione Rosetta dell’ESA. Sia che si tratti di materiale asteroidale che cometario, esso verrà riposto in una serie di contenitori sigillati, alloggiati in un “modulo di rientro” che verrà rispedito sulla Terra. Questo sistema è molto più efficiente di un’analisi in loco, poiché permette di sfruttare appieno tutte le attrezzature dei laboratori terrestri.
Naturalmente non è pensabile che una missione così complessa venga improvvisata solo in caso di necessità, ma sarà necessario effettuare un certo numero di prove in casi non critici, così da sviluppare tutti gli strumenti e i sistemi di bordo necessari, fino ad un livello di confidenza molto elevato; quando questi potranno servire davvero non ci si potrà permettere di sbagliare.
Il terzo livello di intervento, l’“attacco” vero e proprio all’intruso, è un campo molto delicato e richiede un discorso a parte, che svilupperemo in parte nel prossimo paragrafo.
La condotta da seguire in caso di pericolo dipende strettamente dal tempo a disposizione per preparare la difesa, dalla composizione e caratteristiche strutturali dell’oggetto individuato e dalla sua grandezza.
Dalla conoscenza dell’orbita deriva la distanza a cui è possibile intercettare l’intruso: migliore la conoscenza, maggiori le possibilità di intraprendere un’azione di diversione a grande distanza dalla Terra. Questo naturalmente consente di operare in condizioni meno critiche, con maggiori probabilità di successo. Inoltre, un’azione effettuata con decenni o secoli di anticipo può richiedere di impartire al NEO una piccolissima quantità di energia. Per ottenere lo scopo di “spostare” l’orbita del NEO della quantità sufficiente a che non collida con la Terra, un preavviso di decine di anni permette una manovra di piccola entità, traducibile in una variazione di velocità dell’oggetto (il Dv) dell’ordine dei millimetri al secondo o meno, come vedremo. La variazione di velocità che si può ottenere dipende naturalmente dalla massa dell’oggetto e dalla potenza del “motore” .
Molti studi, sia teorici che con simulazioni numeriche, hanno mostrato che il parametro più importante nella pianificazione di una manovra di deflessione è il tempo di preavviso (warning time), definito come l’intervallo di tempo tra l’accertamento sicuro di un impatto futuro e l’impatto stesso. Gli sforzi attuali nella scoperta di NEO e nel calcolo accurato delle loro orbite tendono appunto a rendere questo intervallo il più lungo possibile. E’ quindi chiaro che per avere certezza del risultato è importante scoprire l’impatto il più presto possibile.
In uno studio del 2002, Carusi e altri hanno mostrato che la variazione di velocità che deve essere impartita al proiettile in modo da evitare l’impatto dipende strettamente dall’”epoca di intercettazione”, cioè dalla distanza temporale fra la manovra e l’impatto. La differenza in Dv tra una manovra effettuata 20 anni o 2 anni prima può essere, nei casi meno favorevoli, di due ordini di grandezza, ma spesso è molto più grande. Le figure 11.4 e 11.5 riportano due dei casi studiati: ambedue sono simulazioni di varianti (cloni) di oggetti reali per i quali è stato “forzato” un impatto. L’orbita al momento dell’impatto è stata poi integrata all’indietro per 50 anni e questo momento è stato considerato l’epoca della scoperta: il tempo di preavviso è quindi di 50 anni.
Integrando in avanti l’orbita dell’oggetto e calcolando la
variazione di velocità richiesta per evitare l’impatto in diversi momenti
dell’integrazione, si sono allora costruite le curve delle figure: in ascissa
c’è l’epoca di intercettamento, in ordinata il logaritmo del Dv
necessario per evitare l’impatto, in metri al secondo. Le linee verticali a
destra indicano l’epoca dell’impatto previsto. In ambedue i casi la “manovra” è
stata applicata lungo la linea del moto, sia in avanti che indietro; i
risultati sono riportati dalle curve spesse (Dv
positivo) e sottili (Dv
negativo).
Come si vede, vi è una grande differenza tra i due casi. Intanto risulta chiaro che le manovre sono più efficienti se effettuate quando l’oggetto è al suo perielio: tra queste e manovre effettuate in afelio vi è quasi un ordine di grandezza di differenza nel Dv. Inoltre, nel caso di 1996 JA1 una deflessione 50 anni prima dell’impatto richiede un Dv minimo di circa 200 micron al secondo, mentre il suo valore è di circa 20 micron al secondo per 1997 XF11. Il motivo della differenza risiede in una circostanza sorprendente che si verifica nel caso di 1997 XF11: la presenza di un ritorno risonante. Osservando la figura 11.5, infatti, possiamo notare un improvviso “salto” del Dv nel 2028: a quella data 1997 XF11 ha un incontro ravvicinato con la Terra il cui risultato è che il periodo dell’asteroide passa da 1.73 anni a 1.714 anni. Questo valore corrisponde quasi esattamente alla risonanza di moto medio 12:7 (1.71428) e infatti l’impatto ha luogo dopo 12 anni (e 7 periodi dell’asteroide). Il salto in Dv è dato dal fatto che durante l’incontro del 2028 la “finestra” attraverso cui deve passare l’asteroide perché nel 2040 vi sia un impatto è molto stretta; è quindi relativamente facile prima del 2028 spostare l’asteroide fuori da questa finestra ed evitare così l’impatto dodici anni dopo; se l’asteroide è già passato per la finestra le cose sono molto più complicate.
La finestra di cui si è parlato ha un nome tecnico, anche se piuttosto buffo: buco della serratura, o keyhole in inglese. Si è infatti dimostrato che in molti casi un incontro ravvicinato di un NEO con la Terra pone questo in uno stato risonante a breve termine: l’incontro successivo può trasformarsi in un impatto se la geometria dell’incontro precedente è opportuna. Questo è vero anche per incontri multipli: un dato incontro potrebbe presentare uno o più keyholes che porterebbero, in un incontro successivo, ad altri keyholes, che porterebbero, …, che infine porterebbero ad un impatto. Per ogni incontro che precede l’impatto i relativi keyholes divengono più ristretti e quindi è sempre più facile, andando indietro nel tempo, costringere l’asteroide a non entrarvi.
La teoria dei keyholes è stata sviluppata recentemente da Giovanni B. Valsecchi, Andrea Milani, Steve R. Chesley e Giovanni F. Gronchi. Essa si basa sulla teoria di Öpik che abbiamo visto nel Capitolo 3; il metodo è molto semplice in linea di principio e vale la pena di esporlo brevemente. I conti “veri” naturalmente si fanno con integrazioni numeriche, ma la teoria analitica ha interessantissime proprietà predittive ed è molto utile per descrivere qualitativamente il fenomeno.
Dunque, durante un incontro ravvicinato il piano contenente il pianeta e perpendicolare al vettore velocità relativa è detto piano bersaglio, o b-plane: in esso il pianeta è al centro delle coordinate, mentre l’asse verticale (detto asse ζ) ha un significato sostanzialmente temporale. Infatti, se l’oggetto si presenta all’incontro ad un certo istante T0 quando esso e il pianeta si trovano alla minima distanza assoluta delle orbite, la sua traccia sul b-plane sarà esattamente sull’ascissa (si veda la figura 11.6), ad una distanza dal centro (il pianeta) pari alla cosiddetta MOID (Minimum Orbit Intersection Distance). Se viceversa l’incontro avviene in anticipo rispetto a T0, la sua ascissa sarà sempre la MOID, ma l’ordinata ζ sarà negativa; se l’incontro avviene in ritardo l’ordinata sarà positiva.
Tutto ciò è più chiaro nella figura 11.6, relativa all’incontro con la Terra del NEO 1999 AN10 che avrà luogo nell’agosto 2027 (tratta da Milani ed altri, 2002). La parte alta della figura mostra il b-plane con alcuni circoli e una linea verticale. I circoli sono la “mappa” delle variazioni di semiasse tali da immettersi in varie risonanze con la Terra, variazioni calcolabili con la teoria di Öpik, come abbiamo visto: se la traccia dell’oggetto giace su un cerchio il suo periodo dopo l’incontro sarà in risonanza con quello terrestre. Il circolo superiore corrisponde alla 13:7, quelli inferiori, dall’interno all’esterno, alle risonanze 5:3, 17:10, 19:11. La linea verticale indica le tracce del passaggio dell’asteroide: la sua intersezione con l’asse delle ascisse dà la MOID, la parte superiore corrisponde ad un incontro in ritardo, quella inferiore ad un incontro in anticipo.
Ora, l’incertezza dell’orbita è tale da consentirci una determinazione accurata della MOID, ma non altrettanto accurata della “tempistica” dell’incontro; in altre parole, sappiamo che la linea verticale è nella posizione corretta, ma non sappiamo bene dove sarà l’asteroide lungo di essa quando attraverserà il b-plane.
La parte bassa della figura mostra il risultato di simulazioni numeriche effettuate con un gran numero di oggetti disposti lungo la stessa orbita ma sparpagliati nel tempo. Come si vede, le tracce sul b-plane si addensano lungo una linea verticale che corrisponde esattamente a quella tracciata nella figura superiore. Le due frecce indicano invece la posizione di due keyholes che porterebbero ad un incontro molto ravvicinato con la Terra nel 2040[7], 13 anni dopo l’incontro del 2027. Il best-fit di un cerchio attraverso questi punti (tratteggiato in figura) corrisponde con grande esattezza al cerchio superiore dell’altra figura.
Ricapitolando, quindi, se nel 2027 1999 AN10 passerà nei punti indicati esso passerà estremamente vicino alla Terra nel 2040. In un caso simile – e in presenza di un vero impatto – sarebbe quindi necessario rallentare o accelerare l’asteroide quanto basta perché la sua traccia sul b-plane non si trovi in quei due punti.
La figura 11.7 contiene un’animazione (cliccate su di essa per vederla) di un altro caso, sempre relativo a 1999 AN10. Si tratta di altri keyholes dell’incontro del 2027 che portano ad un impatto nel 2044. Nell’animazione potete vedere come i keyholes nel b-plane del 2027 vengono “mappati” nel b-plane dell’incontro del 2044, quello che provoca un impatto.
E’ evidente la potenza di questo metodo di rappresentazione. Pur non fornendo dati numerici precisi esso ci consente di determinare a prima vista (quindi anche con un’orbita non troppo ben determinata) la possibilità che si abbia un ritorno risonante, ci dà le indicazioni per effettuare un’indagine numerica accurata, ci dice quanto deve essere migliorata la conoscenza dell’orbita e infine ci può consentire di pianificare un’eventuale manovra di deflessione.
Naturalmente, come mostrato nella figura 11.4, non sempre si ha la “fortuna” di avere incontri risonanti. In questi casi sarebbe di vitale importanza (nel vero senso del termine) poter disporre di una quantità di tempo sufficiente a ripetute manovre di correzione, che alla fine darebbero il risultato sperato.
Veramente il percorso del NEO è proporzionale alla componente della velocità in direzione perpendicolare alla linea di vista; la componente lungo la linea di vista non può essere determinata con questa tecnica.
In realtà il telescopio non viene affatto mosso; se esso è mantenuto fermo è la stessa rotazione della Terra a provvedere al movimento rispetto alla volta celeste. Con questo sistema si può riprendere una striscia di cielo larga quanto il campo di vista del telescopio e lunga quanto il tempo d’esposizione
La traiettoria futura deve essere calcolata con uno scarto non superiore a poche centinaia di chilometri, altrimenti risulta impossibile prevedere un eventuale impatto. Questo è particolarmente vero se hanno luogo incontri ravvicinati con i pianeti.
La Spaceguard Foundation (SGF) è un’associazione privata tra astronomi che ha come scopo il coordinamento delle attività di scoperta e calcolo orbitale dei NEO. E’ stata fondata nel 1996 e a sede a Roma.
Detta così sembra una cosa da poco: si tratta solo di preparare delle liste di oggetti e di osservazioni. In realtà questo lavoro non solo è difficile (si tratta di capire quanto “buone” siano le osservazioni, di controllare che gli oggetti individuati non siano già stati osservati, di preparare il terreno ad osservazioni di follow-up) ma anche di vitale importanza. Quando si conoscono più di 120.000 oggetti asteroidali può risultare complicato orizzontarsi nella calca!
L'Italia è all’avanguardia nella costruzione di spettrometri spaziali. Uno strumento del genere, basato su una CCD, è in volo sulla sonda Cassini (NASA-ESA-ASI) verso Saturno e altri sono a bordo delle missioni Mars Express e Rosetta.
Per un breve periodo di tempo dopo la scoperta si è temuto che 1999 AN10 potesse davvero urtare con la Terra nel 2040. E’ stato uno dei più gravi “allarmi” risuonati nella comunità scientifica, riportato da tutti i giornali del mondo. Come quasi sempre accade, l’allarme è rientrato non appena l’orbita dell’asteroide è stata migliorata grazie ad un accurato follow-up: la nuova orbita ha consentito di accertarsi che l’impatto non avrà luogo.
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