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La soluzione del problema del moto - Il metodo sperimentale

fisica



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La soluzione del problema del moto

Le “sensate esperienze” e le “certe dimostrazioni” di Galileo Galilei

Galileo Galilei (1564-1642) è unanimemente ritenuto il più grande “fisico” del ‘600 e il fondatore della scienza moderna. Il suo contributo alla polemica attorno all’ipotesi copernicana e alla vittoria di quest’ultima è stato determinante, ma il suo maggior contributo, nell’ottica del discorso che stiamo sviluppando, non fu di natura astronomica. Galileo rivoluzionò il modo d’intendere la natura e i suoi fenomeni, i metodi di ricerca e analisi. La sua battaglia fiera, disperata e infine perdente contro il dogmatismo e il principio d’autorità ha permesso la nascita di un nuovo modo di procedere, sia nella pratica della scienza (il metodo sperimentale), sia nell’analisi filosofica ed epistemologica dei fondamenti della conoscenza del mondo.



Questa rivoluzione è ben illustrata da Galileo all’inizio del Saggiatore, pubblicato nel 1623 quando il suo autore aveva già ricevuto la prima condanna (1616) e gli era stato vietato di professare le idee copernicane. Polemizzando con Lottario Sarsi (pseudonimo del padre gesuita Orazio Grassi), Galileo scrive:

“Parmi…di scorgere nel Sarsi ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore,…e forse stima [il Sarsi] che la filosofia sia un libro e un fantasma d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando Furioso…Sig. Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo) ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.”

Dunque la natura e i suoi fenomeni sono intelligibili, basta che si sappia come intenderli; e il modo d’intenderli consiste nel fare un esteso uso della matematica con la convinzione che i fenomeni naturali siano matematizzabili. Ma non è solo la matematica a giocare un ruolo fondamentale in questa impresa; c’è la necessità di integrare strettamente le “sensate esperienze” con le “certe dimostrazioni”. Le prime metteranno lo studioso in grado di “interrogare” la natura (secondo una espressione baconiana) e le seconde forniranno le risposte. E’ una doppia prova di fiducia nella ragione, in qualche modo precorritrice dello spirito illuministico del secolo successivo. E’ anche una professione di fede nelle capacità dell’uomo, di qualunque uomo. Scrivendo a Paolo Gualdo, Galileo afferma: “Io l’ho scritto vulgare [il trattato Istoria intorno alle macchie solari] perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo mio ultimo trattato [il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua]…e io voglio ch’e’ vegghino che la natura, si come gl’ha dato gli occhi per veder l’opera sua…gli ha anco dato il cervello da poterla intendere e capire.”

La scienza, quindi, non è più solo per i dotti, ma per chiunque sia mosso dal desiderio di “leggere il libro della natura”. Ma con quale metodo?

Il metodo sperimentale

La coniugazione di “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni” è la base del metodo sperimentale. Galileo, oltre che acuto osservatore e scrupoloso pensatore, era anche un bravo “fisico sperimentale”, che non solo non disdegnava di ricorrere ad esperimenti, ma costruiva lui stesso i suoi strumenti in un laboratorio annesso alla sua casa. Infatti, un’altra caratteristica innovativa del procedere di Galileo consiste nell’unificare scienza e tecnica. Gli artigiani dell’epoca erano spesso provetti costruttori, “peritissimi e di finissimo discorso” (Discorso intorno a due nuove scienze) e Galileo stesso lo era. In sostanza, macchine, strumenti e osservazioni dei tecnici meritano di avere una parte importante nella ricerca scientifica; questa è guidata dalla ragione, ma la ragione si deve adeguare ai fatti e non imporre le leggi secondo cui la natura si deve comportare.

Abbiamo appena detto che il contributo maggiore di Galileo alla nascita della scienza non fu di natura astronomica. Vedremo oltre quest’ultimo contributo, che comunque fu fondamentale per l’affermarsi della teoria di Copernico; ora invece vogliamo soffermarci di più sui suoi studi di meccanica e dinamica, che posero le basi all’opera di Newton.

Si è detto talvolta che Galileo in fondo non scoprì nulla di nuovo né di eccezionale al di fuori della meccanica: non fu lui ad inventare il telescopio (non aveva, sembra, profonde cognizioni di ottica), e il suo “termoscopio” non fu che un abbozzo del vero “termometro” inventato più tardi dai suoi discepoli. Persino nel campo della dinamica si potrebbe sostenere che in fondo molte delle tesi di Galileo “erano nell’aria”, se non esplicitamente già dichiarate da altri, compreso l’isocronismo.

Tuttavia va notato che la grandezza di Galileo non sta soltanto nella quantità ed esattezza delle sue scoperte, ma anche nell’innovazione che egli portò nel metodo d’indagine.

Quanto alle scoperte, esaminiamo solo i contributi dati alla comprensione della dinamica. Galileo cominciò fin da giovane ad interessarsi dei problemi legati in qualche modo alla gravità, scontrandosi subito con l’insegnamento di Aristotele. Questi sosteneva che i corpi si muovevano verso il basso (ad esempio una pietra) o verso l’alto (ad esempio il fumo) a seconda della loro gravitas o levitas, qualità intrinseche dei corpi. Il loro moto era dotato di velocità costante proporzionale alla gravitas e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo (ad esempio aria o acqua), svolgendosi sempre nella direzione dettata dal loro carattere (pesanti o leggeri); questa teoria è nota come “teoria dei moti e dei luoghi naturali”. Inoltre, Aristotele e la scuola peripatetica sostenevano che un oggetto sottoposto ad una spinta (“teoria dei moti violenti”) si muoveva con una velocità direttamente proporzionale alla spinta applicata e si fermava se questa spinta veniva a mancare. Ambedue queste interpretazioni dei fatti sono sostanzialmente in accordo (se non si fanno misure precise) con l’esperienza.

Dunque, secondo le teorie aristoteliche un sasso lasciato cadere scendeva giù a velocità costante perché era “grave” e non perché qualcosa lo facesse muovere: era un moto attivo, non passivo. Il sasso poi non poteva che cadere verso il basso, suo luogo naturale. Galileo, rifacendosi in questo alla tradizione risalente ad Archimede, sostenne che in realtà la velocità di caduta non era proporzionale al rapporto tra peso e densità del mezzo, ma alla differenza dei rispettivi pesi specifici. In altre parole, un oggetto che nell’aria cade verso il basso può non cadere affatto, anzi essere spinto verso l’alto, se posto nell’acqua. Questa “rottura” con la tradizione, oltre a far giustizia dei luoghi naturali, ha almeno una conseguenza importante: la possibile esistenza, anzi la necessità d’esistenza del vuoto. Questo concetto (così come quelli di zero ed infinito) era totalmente estraneo all’aristotelismo che vedeva in esso un’assurdità. Al contrario, secondo Galileo il vuoto non solo è concettualmente necessario, ma è l’unica condizione in cui il moto di un oggetto si rivela per quello che è, libero dall’azione perturbante del mezzo.


In questo studio Galileo dapprima non si trovò in disaccordo con Aristotele, ma ben presto si rese conto che la descrizione peripatetica non reggeva alla prova sperimentale: un grave lasciato cadere non aveva velocità di caduta costante, almeno all’inizio della sua traiettoria, ma era sottoposto ad un’accelerazione. In realtà, la presenza del mezzo fa in modo che alla lunga il moto di caduta sia veramente a velocità costante (velocità asintotica), come è più evidente nell’acqua che nell’aria. Osservando e studiando il comportamento dei pendoli, Galileo si avvide che l’accelerazione era un costituente fondamentale del moto, non un accidente e che, al contrario, era proprio la resistenza del mezzo a rappresentare una perturbazione accidentale. Solo un moto nel vuoto può essere considerato allo “stato puro”.

Per studiare più agevolmente questi fenomeni, Galileo fece ampio uso di un accorgimento in apparenza banale: il piano inclinato (figura 1.5). Il suo esperimento più noto consistette nel far rotolare una palla di bronzo lungo un piano inclinato partendo da diversi punti lungo il piano e misurando i tempi di percorrenza. Così facendo scoprì due cose importanti: gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi di percorrenza e i tempo di discesa lungo piani di uguale altezza e differente lunghezza (cioè con inclinazioni diverse) sono proporzionali alla lunghezza dei piani. Applicando queste osservazioni al moto verticale (cioè alla caduta libera) si ha così la legge oraria del moto dei gravi, a noi nota nella forma

dove x è lo spazio percorso, t il tempo impiegato e g l’accelerazione di gravità.

E’ importante notare che gli studi condotti da Galileo sul moto dei gravi, specie in caduta libera, non sono da lui presentati nella forma a noi nota. Anzi, spesso sono infarciti di argomentazioni nebulose quanto scorrette, soprattutto perché Galileo si trovò nel suo studio a combattere con un concetto mai elaborato prima: quello di velocità istantanea. Vedremo oltre che solo con Newton fu possibile dirimere la questione della velocità di un oggetto in un istante temporale senza estensione. Galileo non fece il passo verso gli infinitesimi e la sua teoria del moto pose sì le basi della dinamica newtoniana ma non realizzò appieno il programma di matematizzazione che egli perseguiva.

Nondimeno, Galileo giunse infine a due traguardi di enorme importanza: il principio di relatività dei moti e il principio d’inerzia. Nel primo caso possiamo dare di nuovo direttamente la parola a Galileo:

“Nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran naviglio rinserratevi con qualche amico, e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; pigliatevi anco un gran vaso con acqua e dentrovi de’ pescetti; accomodate ancora qualche vaso alto che vada gocciolando in un altro basso e di angusta gola: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci, gli vedrete andar vagando indifferentemente verso qualsivoglia parte delle sponde del vaso; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto…Osservate che avrete tutte queste cose, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutte le nominate cose, né meno da cosa che sia in voi stesso, potreste assicurarvi se la nave cammina o sta ferma…”

E’ il brano famosissimo che afferma, in termini moderni, l’equivalenza per le leggi di natura di tutti i sistemi di riferimento in moto relativo rettilineo e uniforme. Principio basilare della fisica, di cui la relatività ristretta di Einstein rappresenta l’estensione a tutti i fenomeni naturali, compresa l’elettrodinamica e l’ottica. Il principio di relatività galileiana vale per tutti i sistemi di riferimento. Questo significa che nessun sistema è “più giusto” di altri. Con questa affermazione si fa di colpo piazza pulita di qualunque pretesa di privilegio non solo per la posizione della Terra, ma anche dell’uomo sulla Terra. E’ già un segno premonitore delle difficoltà che incontrerà Darwin a demolire la posizione di privilegio dell’uomo anche dal mondo biologico.

Il secondo traguardo, il principio d’inerzia, è implicito in quello appena formulato. In realtà Galileo non ebbe mai coscienza piena della portata di questo principio, né lo formulò esplicitamente; tuttavia la prontezza e la sicurezza con cui ne maneggiò le conseguenze (in particolare il principio di relatività dei moti) dimostrano che aveva ben compreso la sua importanza. Questo principio verrà esplicitato da Newton e diverrà la sua prima legge della dinamica: un corpo non soggetto a forze si muove di moto rettilineo uniforme.

Lo studio della dinamica portò Galileo a risolvere molti dei problemi sul tappeto. Dimostrò che il moto era uno stato passivo e che esso veniva modificato solo in presenza di forze agenti. Dimostrò anche che era possibile (anche se lui di fatto non lo fece) descrivere il moto di un insieme di oggetti facendo ricorso alla matematica. Il problema erroneamente impostato da Aristotele, e che aveva resistito ad ogni attacco per duemila anni, era ora risolto in linea di principio. Galileo pose le basi della soluzione, Newton inventò le tecniche matematiche per trattarlo completamente e ne formulò le leggi.

Galileo e il copernicanesimo

Galileo non fu perseguitato per le sue ricerche di fisica, ma per il suo copernicanesimo. In realtà i due aspetti non sono scindibili e, come dice Sebastiano Timpanaro (Opere di Galileo, Rizzoli, Milano, 1936-38): “i Discorsi delle nuove scienze non sono meno copernicani del Dialogo dei massimi sistemi. I teologi non li condannarono perché non li avevano capiti”.

L’attività astronomica di Galileo è ben nota. Noi sottolineeremo solo alcune delle scoperte principali senza addentrarci nella controversa vicenda dei processi cui Galileo fu sottoposto. Le sue scoperte principali sono:

q       l’esistenza di satelliti attorno a Giove

q       la natura della Via Lattea

q       le caratteristiche della superficie lunare

q       l’esistenza delle macchie e della rotazione solari

q       le fasi di Venere

In realtà nessuna di queste scoperte era decisiva per far pendere la bilancia in favore di Copernico; persino le fasi di Venere, chiaramente inconciliabili con lo schema tolemaico, erano perfettamente compatibili con lo schema di Tycho Brahe. Tuttavia le conseguenze di queste osservazioni furono di enorme portata. Proviamo ad esaminarle brevemente.

La scoperta dei “pianeti medicei”, ora detti satelliti galileiani (Io, Europa, Ganimede e Callisto) mostrò, a chi voleva intendere, che la Terra non era il centro di tutti i moti. Mostrò anche che ci sono delle cose nel cielo che non sono visibili ad occhio nudo e, cosa ancor più importante, mostrò che le facoltà umane potevano essere ampliate con l’uso di appropriati strumenti.

La spiegazione della Via Lattea come una sterminata distesa di stelle aggiunse ancora valore alla scoperta precedente. L’universo si svelava per quello che è: di dimensioni enormi sia come grandezza che come numero di oggetti. Questa scoperta fu in realtà molto male accolta, perché richiamava alla mente la “pretesa” di Giordano Bruno che l’universo fosse infinito e popolato di mondi e, forse, esseri intelligenti. E questa posizione era costata la vita a Bruno.

La natura della superficie lunare, costellata di monti e valli (che ora sappiamo essere crateri d’impatto), mostrò che la superficie degli oggetti celesti non differiva poi molto da quella della Terra. Il regno dell’incorruttibilità era per sempre distrutto. E questo venne subito confermato dall’esistenza di macchie sul Sole, la cui osservazione priva di protezioni efficaci costò la vista a Galileo.

Infine, le fasi di Venere. Se il pianeta fosse stato davvero in rotazione attorno alla Terra non si sarebbe mai trovato tra questa e il Sole. Quindi, la superficie di Venere non avrebbe mai dovuto apparire come una sottile falce, come la Luna subito prima o dopo la luna nuova. Questa era una prova diretta che lo schema tolemaico era errato ma, come si è detto, non inficiava lo schema ticonico che, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, era geometricamente identico a quello di Copernico.

La rivoluzione galileiana

L’importanza fondamentale dell’opera di Galileo sta nel suo contributo dato alla razionalità scientifica. E il primo contributo è stato di mostrare la stretta connessione esistente tra il lavoro dello scienziato e quello del tecnico. Non era più tempo, durante il Rinascimento, di arroccarsi su posizioni di principio, di discutere attorno alle cause ultime dei fenomeni, di speculare sull’essenza della natura; i tecnici del Rinascimento chiedevano di sapere concretamente come si comportavano i fenomeni naturali e come affrontarli e, possibilmente, trarne vantaggio. Era quindi necessario per la scienza allearsi con la tecnica e, così facendo, trasformarsi profondamente da disciplina filosofica astratta a molto concreta indagine sui fenomeni e le loro cause naturali.

La rivoluzione di Galileo consiste dunque in questo: la “nuova scienza” non farà a meno della teoria (anzi, Galileo stesso spingeva per una completa matematizzazione della filosofia naturale), ma respingerà quelle teorie che non siano in accordo con le “sensate esperienze”. Le teorie saranno accettabili solo se saranno in grado di formulare leggi verificabili o falsificabili.

La scienza è stata così liberata da ogni ipotesi metafisica. Non ha ora nessun bisogno di garanzie filosofiche sui propri metodi d’indagine, ma tali garanzie verranno solo dalla verifica pratica della bontà dei risultati. E’ un distacco profondo, all’origine della separazione tra filosofia e scienze naturali e quindi tra discipline scientifiche e discipline umanistiche. In realtà un vero distacco non c’è mai stato: la scienza è divenuta il punto di partenza per nuove elaborazioni filosofiche che hanno tentato di portare in tutti i campi la stessa razionalità rivelatasi così utile nello studio della natura.

Una seconda conseguenza importante della concezione di Galileo è stata una nuova interpretazione del concetto di verità. La Verità non è più data né dall’autorità di chi la pronuncia né dalla sicurezza dogmatica dei principi. Essa deve accettare di essere provvisoria, di subire controlli e verifiche, di essere soggetta a mutamenti e spesso a rivolgimenti. Diventa una verità temporanea che ha però la capacità di produrre sviluppi rapidissimi che talvolta finiranno per mettere in crisi gli stessi principi di partenza. E’ quindi una verità dialettica che si autoalimenta e si adatta alle circostanze. Questa nuova verità era ben presente a Galileo, che affermava: “…io mi rendo sicuro che, se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci…molto più che moltissimi altri. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte nuovamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile ed immutabile, perché niuna alterazione vi si era sino allora veduta, indubbiamente egli direbbe ora il contrario…”. E ad esso fa eco il Galileo di Bertold Brecht: ”Non mi importa di mostrare di aver avuto ragione, ma di stabilire se l’ho avuta…Sì! rimetteremo tutto, tutto in dubbio…E quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna…”

Questa concezione di provvisorietà della verità scientifica ha un significato profondo che è spesso molto mal compreso: la scienza non dà mai “risposte certe”. Recentemente, dopo il disastro dello shuttle Columbia, un notissimo (e coltissimo) giornalista scrisse, su un notissimo (e diffusissimo) giornale, che quell’evento aveva scardinato le “certezze della scienza” e distrutto il sogno di infallibilità dei procedimenti scientifici. Orbene, solo una persona profondamente e colpevolmente ignorante in campo scientifico può uscirsene con una frase così ridicola. Nel caso particolare, poi, tutti hanno sempre saputo, compresi gli astronauti e la NASA, che una non trascurabile probabilità di incidente, valutabile attorno al 4-5%, è sempre stata presente nei lanci degli shuttle: il Columbia è stato distrutto alla sua 28° missione. E’ profondamente sbagliato e fuorviante per l’acquisizione di una sana coscienza civica insegnare che la scienza sia infallibile. Il “dubbio sistematico” è invece il suo alimento e qualsiasi “trionfo” della scienza non può che essere provvisorio.

Infine, nel lavoro di Galileo c’è un’altra conseguenza degna di nota. Se quello che è accettato per vero oggi non lo sarà più domani, se potremo “cancellarlo dalla lavagna”, vuol dire che la costruzione della scienza non può essere opera di un solo scienziato. Non ci saranno più pensatori di cui si potrà dire “ipse dixit”, ma schiere di “lavoratori della ricerca” che collettivamente porteranno avanti le indagini. La scienza dunque diviene additiva: ogni generazione costruisce sulle precedenti ritoccando quello che va ritoccato e rovesciando quello che va rovesciato. Nelle parole di Laplace: “le scienze si accrescono all’infinito mediante i lavori delle generazioni successive: la più perfetta opera genera nuove scoperte e così prepara delle opere che dovranno eclissarla.”



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