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Un personaggio chiave nella nostra vicenda è Tycho Brahe (1546-1601). Brahe nacque tre anni dopo la pubblicazione del De Revolutionibus e ci si potrebbe quindi aspettare che abbia abbracciato con entusiasmo la nuova dottrina. In realtà non fu affatto così; anzi, Brahe rimase per tutta la vita un avversario della teoria copernicana ma, per ironia della sorte, contribuì in maniera decisiva alla sua vittoria[1].
Abbiamo già accennato nel precedente paragrafo al fatto che il corpus di dati astronomici su cui si era basato Copernico, raccolti in un paio di migliaia di anni, era piuttosto carente, sia come precisione che come accuratezza[2]. Brahe si rese ben conto di ciò e dedicò la sua vita alla costruzione di un’impressionante complesso di strumenti per l’osservazione ad occhio nudo che gli consentirono di raccogliere un’enorme quantità di dati di altissimo valore e, soprattutto, autoconsistenti. Per avere un’idea della precisione dei dati di Brahe basti pensare che egli fu in grado di determinare la posizione di alcune stelle con un’approssimazione di un primo d’arco e quella dei pianeti a meno di 4 primi: le misure precedenti avevano errori dell’ordine di 10 primi .
Inoltre, Brahe pianificò le sue osservazioni in maniera molto “moderna”, osservando sistematicamente i pianeti – in particolare Marte – durante tutto l’arco di tempo in cui questi erano visibili, e non solo in determinate occasioni. In sostanza (e questo è il suo merito principale) Brahe rivoluzionò le tecniche osservative e ruppe definitivamente con la pratica di affidarsi acriticamente a misure riportate da secoli e di cui era assolutamente ignota, né conoscibile, la bontà.
Prima di addentrarci nei risultati di Brahe, e soprattutto prima di parlare del suo “sistema ticonico”, sarà però opportuno soffermarci su una grandezza astronomica che giocò un ruolo importante nella vicenda. Questa grandezza è la parallasse. Con questo termine si indica, come mostrato in figura 1.1, l’angolo sotto il quale uno stesso oggetto è visto da due osservatori diversi rispetto allo sfondo.
Nella
figura è riportata la posizione della Luna nel cielo il 15 febbraio 2003. Nel
riquadro di sinistra vi è la Luna (il cerchietto giallo) come viene vista da
Nelson, in Nuova Zelanda, mentre nel riquadro di destra vi è la stessa immagine
vista da Porto, in Portogallo, due città praticamente agli antipodi. A Nelson
sono le 6 di mattina, mentre a Porto le 6 di sera. Come si può facilmente notare
la posizione relativa delle stelle non cambia, mentre la posizione della Luna è
vistosamente diversa. Un esame delle coordinate riportate nelle due finestre
mostra che la distanza angolare tra le due posizioni è di poco meno di 2 gradi.
Abbiamo quindi (si veda la figura 1.2) un triangolo con base uguale al diametro
terrestre e angolo alla Luna di due gradi; poiché il diametro della Terra è di
circa 12750 km, un semplice calcolo dà la distanza della Luna dal centro della
Terra, di circa 377000 km in quel momento.
La parallasse, quindi, permette di calcolare la distanza di un oggetto conoscendo la linea di base. Questo era ben noto agli antichi, maestri in geometria e trigonometria, ed era ben noto anche agli astronomi della Rinascenza. Anzi, era uno dei motivi principali per cui il sistema copernicano era così indigeribile per gli esperti. Infatti, il moto della Terra implicava che osservando una stessa stella a distanza di sei mesi (ai capi opposti del percorso della Terra attorno al Sole) e prendendo come linea di base il diametro della supposta orbita terrestre, la parallasse stellare misurata avrebbe permesso di calcolare la distanza della stella, cioè della “sfera delle stelle fisse”. Nessuna misura, neanche quelle accuratissime di Brahe, aveva mostrato alcuna parallasse stellare, il che era spiegabile solo in due modi:
La seconda spiegazione venne per lungo tempo ritenuta impossibile, perché implicava che tra la sfera di Saturno e quella delle stelle vi fosse una sterminata distesa di nulla, qualcosa che il pensiero antico odiava quanto l’infinito. Dunque, la spiegazione giusta era la prima, e Copernico in errore.
Ora noi sappiamo che né Brahe né i suoi successori fino all‘800 avrebbero potuto determinare la parallasse di alcuna stella. Tycho Brahe fu costretto a rigettare l’ipotesi di Copernico perché in base alle conoscenze dell’epoca questa implicava una distanza tra Saturno e le stelle pari a più di 700 volte la supposta distanza tra Saturno e il Sole. Tale rapporto, in realtà, è maggiore di 25.000 per la stella più vicina! La prima parallasse stellare fu determinata da Friedrich W. Bessel nel 1838 per la stella 61 Cygni, e risultò pari a 0.33 secondi d’arco (il valore moderno è 0.289). Le stelle sono davvero lontanissime da noi, al punto che si dovettero adottare per loro nuove misure di distanza[4]. Solo raffinate tecnologie fotografiche sono in grado di fornire buone misure di parallasse, che certamente sono impossibili ad occhio nudo.
Tycho Brahe, dunque, cercò in tutti i modi di far luce sul problema del moto planetario, soprattutto raccogliendo un’enorme messe di dati accurati. Questa attività lo portò a rigettare l’ipotesi copernicana, perché non in accordo con i suoi dati, ma lo rese sempre più insoddisfatto dell’ipotesi tolemaica. Per questo motivo egli propose un sistema, da lui detto “ticonico”, che rappresentava una sorta di compromesso tra le due concezioni.
Nel sistema ticonico la Terra è sempre al centro dell’universo e la Luna, il Sole e le stelle continuano a girarle intorno come nel sistema tolemaico. Gli altri pianeti però ruotano intorno al Sole. Inoltre, la sfera delle stelle ruota verso ovest, mentre la Luna e il Sole verso est. I pianeti ruotano attorno al Sole verso ovest, ma sono trascinati dal Sole, il cui moto è verso est. Complicato? Senz’altro, ma il sistema ticonico ha tre caratteristiche che lo rendono molto interessante nel processo di affermazione della teoria copernicana.
Per prima cosa bisogna notare che per la prima volta non tutto il creato gira attorno alla Terra: i pianeti sono “satelliti” del Sole. E’ un passo importante, che va confrontato con la scoperta dei satelliti “medicei” di Giove da parte di Galileo qualche tempo dopo. In secondo luogo, come si può vedere nella figura 1.3, le “sfere” di Mercurio, Venere e Marte intersecano quella del Sole. Se i corpi celesti sono trasportati da “purissime sfere cristalline” è ben difficile immaginare che possano infilarsi l’una nell’altra. Ma la terza e più importante caratteristica del sistema ticonico è che esso è perfettamente equivalente al sistema copernicano. Infatti, le modifiche apportate da Brahe al sistema tolemaico riguardano soprattutto il moto dei pianeti. Il moto delle stelle dipende dalla rotazione terrestre, e se nel sistema ticonico mettiamo in rotazione (ma non in rivoluzione) la Terra, la sfera delle stelle si ferma, come nel sistema copernicano. La Luna ruota effettivamente attorno alla Terra e il moto diurno della Terra non cambia la situazione. Quanto al Sole, che sia la Terra a girargli attorno, o il Sole a girare attorno a questa, si ottiene comunque un moto in senso antiorario, moti assolutamente equivalenti da un punto di vista geometrico. E i pianeti ora ruotano attorno al Sole, come nel sistema copernicano.
Naturalmente, però, questo sistema non risolveva le irregolarità del moto dei pianeti, soprattutto le retrogradazioni. Brahe fu quindi costretto a inserire di nuovo epicicli, deferenti, equanti ed eccentrici.
Ma anche se consideriamo il sistema ticonico come un disperato tentativo di una persona professionalmente corretta di comporre la controversia generata dalla teoria di Copernico resta il fatto che esso scardinò per sempre numerose certezze consolidate, aprendo definitivamente la strada al copernicanesimo.
Nel 1572 Tycho Brahe, allora poco meno che trentenne, osservò assieme a molti colleghi un fenomeno stupefacente: una stella “nuova” era comparsa nella costellazione di Cassiopea[5]. Questa stella raggiunse rapidamente lo splendore di Venere per divenire poi sempre meno luminosa e scomparire all’inizio del 1574. Di cosa si trattava? Era o no una stella? Domanda non banale, perché le stelle godevano dello status speciale di esseri incorruttibili: se potevano mutare allora non c’era gran differenza tra il mondo superlunare e quello sublunare; allora la Terra poteva benissimo essere un pianeta, visto che i cieli non differivano sostanzialmente dal mondo transeunte terrestre.
Ebbene, sia Brahe che i suoi colleghi conclusero che non poteva che essere una stella, visto che non era possibile misurarne una parallasse. Il mondo delle stelle non era più così perfetto come si pensava.
Sono numerose le incrinature che si cominciano a manifestare nel sistema tolemaico: i pianeti si muovono in modo irregolare; forse le sfere cristalline non ci sono; le stelle possono accendersi e spegnersi come lanterne, e quindi non essere eterne; le comete, di cui molti esemplari vennero avvistati e studiati dallo stesso Brahe, non sono stelle, ma non si trovano neppure vicino alla Terra, data l’assenza di parallasse giornaliera[6]. Il mondo astronomico è in piena confusione, la confusione che precede, e quasi invoca, l’avvento di un’idea geniale che sistemi le cose e aiuti a fare chiarezza: la strada è pronta per Kepler. Vale però la pena di dar ancora una volta la parola a Kuhn per illustrare il clima in cui Kepler si trovò a lavorare.
“In un modo o nell’altro, nel secolo successivo alla morte di Copernico, tutte le novità dell’osservazione e della teoria astronomica, fossero o meno fornite dai copernicani, si trasformarono in prove a favore della teoria copernicana. Si può dire che questa teoria stava quindi dimostrando la sua efficacia. Tuttavia, almeno per quanto concerne le comete e le stelle nuove, la dimostrazione è alquanto strana, poiché le osservazioni di comete e stelle nuove non hanno assolutamente nulla a che vedere con il moto della Terra. Esse avrebbero potuto essere fatte e spiegate senza difficoltà tanto da un astronomo tolemaico quanto da un copernicano. Non sono, in alcun senso diretto, prodotti secondari del De Revolutionibus, come lo era stato il sistema ticonico.
Tuttavia esse non possono neppure essere considerate del tutto indipendenti dal De Revolutionibus o almeno dal clima ideale in cui l’opera era nata. Di comete ne erano state viste parecchie prima delle ultime decadi del secolo XVI. Qualche Nova, sebbene ne apparissero meno frequentemente delle comete a chi osservava i cieli ad occhio nudo, deve pur essere stata di tanto in tanto visibile dagli osservatori prima dell’epoca di Brahe: ne apparve una seconda nell’anno antecedente la sua morte e una terza nel 1604. Non era neppur necessario usare gli strumenti perfezionati di Brahe per scoprir l’appartenenza delle Novae e delle comete alle regioni superlunari: una deviazione parallattica di 1° poteva essere misurata senza tali strumenti ed un certo numero di contemporanei di Brahe giunsero in effetti separatamente alla conclusione che le comete appartenevano alle regioni superlunari facendo uso di strumenti noti da secoli… Per due millenni prima della nascita di Brahe, i fenomeni e gli strumenti necessari per osservarli erano stati a disposizione degli astronomi; ma le osservazioni non vennero fatte oppure, quando vennero fatte, non furono interpretate adeguatamente. Durante l’ultima metà del secolo XVI, fenomeni di antica data mutarono rapidamente di significato e importanza. Tali cambiamenti sembrano incomprensibili se non si inquadrano nel nuovo clima del pensiero scientifico, uno dei cui più eminenti rappresentanti è Copernico il De Revolutionibus segnò una svolta e non ci doveva essere nessun ritorno all’antico.”
Johannes Kepler era un sincero neoplatonico. Era anche un convinto copernicano e lavorò per tutta la vita con lo scopo preciso di dimostrare l’esattezza dell’ipotesi di Copernico. Da bravo neoplatonico ammirava la simmetria e la semplicità dello schema a Sole centrale ma non ammirava, anzi criticava apertamente, lo scarso coraggio dimostrato da Copernico nel distaccarsi dallo schema di Tolomeo. In particolare Kepler si rese conto che la matematica utilizzata da Copernico era insufficiente, al punto da richiedere l’introduzione di molti artifici geometrici di derivazione tolemaica.
Kepler era nato nel 1571, 28 anni dopo la pubblicazione del De Revolutionibus, ed era stato assistente di Tycho Brahe negli ultimi anni della sua attività. Si impegnò dunque a cercare di migliorare la teoria copernicana in modo da dimostrarne la validità al di là di ogni dubbio e per far ciò utilizzò estesamente gli ottimi dati raccolti da Brahe, in particolare riguardo al moto di Marte. Nell’arco di dieci anni Kepler affrontò il difficile compito di calcolare due orbite: quella di Marte attorno al Sole e quella della Terra, da cui Brahe aveva osservato Marte. Tentò un gran numero di schemi diversi, impiegando circoli di varia grandezza, ma nessuno di questi tentativi portò a nulla; nei casi migliori risultava ancora uno scarto troppo grande dalle osservazioni di Brahe e con grande scrupolo Kepler sostenne che le sue soluzioni, che pure avrebbero soddisfatto gli altri astronomi, non potevano essere corrette.
Alla fine scartò l’ipotesi che le orbite dei pianeti fossero circolari. Fu un altro grosso passo avanti che richiese l’abbandono di un’altra convinzione consolidata. Dopo varie prove con diversi tipi di curve ovali si rese conto che gli scarti da lui calcolati non erano casuali, ma seguivano un andamento regolare (figura 1.4). Fu in base a questa osservazione che infine giunse ad enunciare la sua prima “legge”: i pianeti si muovono attorno al Sole lungo delle ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi. Inoltre, Kepler dovette abbattere un’ulteriore certezza: i pianeti non solo non si muovevano lungo cerchi (ma lungo ellissi), essi non avevano neppure velocità costante, ma acceleravano quando erano più vicini al Sole e deceleravano quando ne erano più lontani. Kepler fu in grado di quantificare questa diversità di moto e scoprì che anch’essa seguiva una “legge” semplice; non era la velocità pura e semplice ad essere costante, ma il prodotto della velocità per l’angolo descritto, o velocità angolare. Unendo il Sole e il pianeta con un segmento, e calcolando l’area del settore ellittico che questo segmento copriva in un certo tempo, Kepler si accorse che l’area del settore coperta in tempi uguali era sempre la stessa, cioè che la velocità del pianeta variava in modo tale da mantenerla costante. Ne deriva che i pianeti vanno più veloci quando sono al perielio e più lenti quando sono in afelio .
Con l’enunciazione di queste due “leggi” all’improvviso il problema del moto dei pianeti scomparve del tutto. Le osservazioni risultarono in perfetto accordo con i dati e questo risultato eccezionale si era ottenuto semplicemente con l’introduzione di una curva diversa dal cerchio e di una nuova legge del moto. Un rompicapo che durava da migliaia di anni era stato definitivamente risolto. C’è però un aspetto di questa impresa che vale la pena di sottolineare. Kepler riuscì dove tanti avevano fallito per una serie di motivi; intanto perché era copernicano, e quindi profondamente attaccato all’ipotesi del Sole centrale. Inoltre, perché aveva i dati di Brahe, più precisi di qualsiasi insieme di dati precedenti. Ma riuscì anche perché era un neoplatonico, intimamente convinto che la Natura funzionasse in base a regole matematiche semplici e che il Sole fosse all’origine di tutti i moti celesti.
Bisogna fare un cenno alla “fisica” che sta dietro le scoperte di Kepler. Chi, si chiese questi, muove i pianeti sulle loro orbite, visto che le sfere cristalline di dantesca memoria non sembrano esserci? Il Sole, beninteso. Il Sole sprigiona una anima motrix, una forza motrice che tiene i pianeti legati. E’ una formulazione un po’ bizzarra, ma vale la pena di riportarla. Dal Sole escono dei raggi che vanno in tutte le direzioni sul piano dell’eclittica; un pianeta intercetta un certo numero di tali raggi e la sua velocità è proporzionale al numero di raggi intercettati. Se il pianeta è più lontano, il numero di raggi che lo incontrano è minore, ed ecco che il pianeta si muove più lentamente. Una spiegazione curiosa, ma efficace. Peccato che sia sbagliata. Infatti, se il pianeta viene posto ad una distanza doppia, il ragionamento di prima dovrebbe produrre una velocità pari alla metà, cosa che non è in accordo con i dati osservativi. Riconoscendo questo errore Kepler alla fine arrivò alla seconda legge, che è invece corretta e non coincide con una semplice proporzionalità[8].
Le prime due leggi di Kepler furono pubblicate nel 1609, la terza dieci anni dopo. L’origine della terza legge va di nuovo cercata nella fiducia di Kepler in un mondo fisico armonico e basato sulla matematica. Essa, per la prima volta nella storia, mise in relazione il moto di due pianeti. Nessuno, prima di Kepler, aveva mai considerato la possibilità che i moti planetari fossero in accordo tra loro, ma Kepler era a volte quasi mistico nelle sue idee e per tutta la vita cercò armonie nascoste nei cieli. Dunque, la terza legge afferma che i moti di due pianeti non sono casuali, ma dipendono dalla distanza media dal Sole. In particolare, il rapporto del quadrato dei periodi orbitali (che ovviamente dipendono dalla velocità media) è uguale al rapporto dei cubi dei semiassi maggiori.
Bisognerà attendere Newton per una spiegazione matematica di questa relazione, ma con la sua terza legge Kepler fece un nuovo balzo in avanti: per la prima volta era possibile calcolare il periodo (e quindi la velocità media) di un pianeta semplicemente conoscendo la sua distanza dal Sole o inversamente, cosa ancor più interessante, era possibile calcolare la distanza conoscendo il periodo. Naturalmente, trattandosi di rapporti, per sapere i valori assoluti bisogna conoscere almeno una coppia di valori: i periodi sono tutti noti, ma le distanze no.
Per chiudere questo capitolo importante della nostra storia è opportuno fare alcune riflessioni. Kepler formulò tre leggi che Newton dimostrò matematicamente consistenti, le tre leggi che ancora oggi vengono utilizzate per il calcolo delle orbite, ma non formulò una “dinamica”; non dette, cioè, una spiegazione esauriente e controllabile del perché i pianeti seguissero proprio quelle leggi e non altre. Questa non è un’osservazione di poco conto, perché è proprio l’assenza nel pensiero kepleriano di una solida concezione della fisica che fa di lui un “innovatore”, ma non un “fondatore”. Questo titolo (di padre fondatore della fisica) va riservato a Galileo Galilei e, in misura ancor maggiore, a Isaac Newton.
D’altra parte non è del tutto vero che Kepler non abbia cercato di immaginare come il Sole agisse sui pianeti. Anzi, egli fu di fatto il primo scienziato che dette una immagine non animistica del concetto che in seguito venne definito “forza”. La storia di questo concetto, come di quello ad esso intimamente legato di “massa”, è affascinante per se stessa, ma ci porterebbe troppo lontano. Nondimeno vale la pena di spendervi qualche parola perché è su questi concetti che i “padri” fondarono la fisica.
La forza (dunamiV in greco, da cui dinamica) è sempre stata associata con un essere, con una capacità attiva di agire[9], ma è solo nel ‘600 che assume un significato meccanico, e quindi quantificabile. E Kepler ha avuto una parte rilevante nel mostrarlo. Naturalmente Kepler non aveva nessun precedente a cui appigliarsi, gli mancava persino il termine con cui esprimere quello che pensava. Dapprima, come abbiamo visto, definì la capacità del Sole di tener legati e muovere i pianeti come “anima motrix”, come qualcosa in qualche modo spirituale; ma in seguito anche la sua terminologia si precisò. Nelle note alla seconda edizione del Mysterium Cosmographicum (1621), egli scrisse:
“Se sostituisci la parola “anima” con la parola “forza” ottieni il vero principio su cui la fisica celeste è costituita nei Commentari su Marte ecc. e praticata nel IV libro dell’Epitome[10]. Un tempo avevo creduto che la causa del moto planetario fosse un’anima,… Ma quando capii che queste cause motrici si indebolivano con la distanza dal Sole, venni alla conclusione che questa forza è un qualcosa di corporeo, se non a rigor di termini, almeno in un certo senso.”[11]
Riprenderemo ancora questo argomento, che è fondamentale nell’opera di Galilei e di Newton.
E’ interessante qui un parallelo con Albert Einstein. Pur essendo stato uno dei fondatori della meccanica quantistica, se non altro per la sua scoperta del fotone, Einstein avversò la teoria dei quanti per tutta la vita, sostenendo che “Dio non gioca a dadi”.
Sarà bene ricordare che questi due concetti non coincidono affatto, anche se talvolta sono usati indifferentemente. La precisione indica la “finezza” di una misura (un calibro è più preciso di un metro a nastro) e la sua ripetitibilità (cioè varie misure danno sempre lo stesso valore). L’accuratezza, invece, indica quanto la misura si avvicina al valore “reale”, indipendentemente dalla sua precisione. Uno strumento può essere estremamente preciso ma poco accurato, in genere a causa di errori sistematici che possono dipendere dalla sua costruzione, dalle condizioni osservative, da taratura insufficiente.
Per confronto, la Luna piena sottende un arco di 48 primi.
All’interno del sistema solare si usa l’Unità Astronomica (UA) pari a circa 150 milioni di km. Le distanze stellari sono misurate con due altre unità: l’anno-luce, cioè la distanza percorsa dalla luce (a 300.000 km/sec) in un anno, e il parsec, cioè la distanza di un oggetto che ha una parallasse di un secondo d’arco. Si calcola facilmente che 1 parsec equivale a 3.4 anni-luce.
Non fu il primo e neppure il più notevole caso del genere. Già nel 1054 gli astronomi cinesi avevano osservato una stella luminosissima sorgere dal nulla nella odierna costellazione del Cancro. Pare che questo fenomeno sia stato registrato anche in Europa, ma i dati sono confusi. Si trattava della supernova i cui resti possiamo oggi ammirare come Nebulosa del Granchio (Crab Nebula).
La natura delle comete costituì un argomento di aspra disputa tra Galileo Galilei e Johannes Kepler. Il primo sosteneva che si trattava di fenomeni atmosferici, mentre il secondo – forte anche delle osservazioni di Brahe di cui era discepolo – sosteneva che fossero oggetti superlunari. Anche i grandi ingegni possono inciampare su piccole e insostenibili posizioni di comodo che non vogliono ammettere.
Il perielio e l’afelio sono i punti di un’orbita rispettivamente più vicino e più lontano dal Sole. Questa legge di Kepler non esprime altro, in termini moderni, che la conservazione del momento angolare, o momento della quantità di moto.
Il ragionamento di cui si parla è molto semplice. Se un oggetto emette ad esempio luce in tutte le direzioni, la quantità di luce che cade su uno schermo di area fissata dipende direttamente dalla distanza dello schermo dalla sorgente. La dipendenza è una proporzionalità inversa (maggiore la distanza, minore la luce raccolta), spiegabile facilmente con il teorema di Talete in base al quale il rapporto tra i cateti di un triangolo rettangolo di angoli assegnati è costante. Questo rapporto è la quantità che in trigonometria si chiama tangente. La velocità e la distanza dal Sole non sono invece inversamente proporzionali, poiché la velocità dipende dall’inverso della radice quadrata della distanza.
Si pensi all’espressione “la forza sia con voi” della saga cinematografica Star Wars.
Si tratta dei due libri Astronomia nova e Epitome Astronomiae Copernicanae.
La citazione è tratta da M. Jammer, “Storia del concetto di forza”, Feltrinelli, Milano, 1979.
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