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Il 1661 non fu un anno particolare se non per un evento notevole: Isaac Newton fu immatricolato nel luglio di quell’anno all’Università di Cambridge (Trinity College). Per un ragazzo di provincia (aveva 18 anni e mezzo) fu certamente un evento importante, e per la scienza ancora di più[1]. A Cambridge, infatti, Newton scoprì un mondo nuovo non solo perché lontano dalla sua esperienza precedente, ma soprattutto perché in quegli anni, come abbiamo visto, la più fondamentale rivoluzione del pensiero moderno si era praticamente conclusa e il nuovo mondo che essa presentava era tutto da scoprire. Nelle parole di Richard S. Westfall : “…Cambridge era un luogo dove si vendevano libri e dove esistevano biblioteche che li raccoglievano. Chi lo avesse voluto avrebbe potuto incontrarsi con quella cultura…Newton lo volle, e questa sua scelta fu determinante per quanto riguarda il posto che egli occupa nella storia.”
Sono ormai passati circa 50 anni dalle scoperte astronomiche di Galileo e dalla pubblicazione delle leggi di Kepler. L’astronomia copernicana è finalmente saldamente acquisita, almeno da coloro che contano nel dibattito scientifico. Tuttavia le pur eleganti e in qualche modo convincenti argomentazioni di Galileo e Kepler non hanno ancora risolto il problema principale, che non è stato appianato – anzi è stato acuito – dalla rivoluzione copernicana: qual è la “dinamica” che permette ai pianeti di girare attorno al Sole? Come si concilia un’elegante teoria matematica con una fisica ormai inadeguata? E quale nuova fisica bisogna sostituire a questa?
Come abbiamo visto Galileo aveva cominciato a dare delle risposte, seppur in maniera ancora confusa e ambigua. Il mondo però era grazie a lui divenuto conoscibile attraverso l’esperimento e questo implicava che tutti gli oggetti, terreni o celesti che fossero, dovevano far parte della stessa Natura e avere le stesse leggi, e leggi formulabili rigorosamente con i metodi matematici (e indipendenti dall’autorità di chicchessia). Kepler, d’altro canto, aveva tentato – senza molto successo – di proporre un’interpretazione dinamica delle sue leggi. Restava però sempre una profonda frattura tra la teoria matematica astronomica sviluppatasi dopo Copernico e la sua interpretazione fisica. Newton si incaricò di risolverla, ma non costruì sul nulla.
Il punto fondamentale di partenza per una nuova “meccanica dei cieli”[3], a parte la visione unitaria della natura, fu la concezione galileiana del principio d’inerzia, in base al quale il movimento necessita di un motore per essere iniziato, ma non per essere mantenuto (a meno che non sia presente qualche forma di dissipazione come l’attrito). Tuttavia la formulazione del principio d’inerzia contenuta nel Dialogo sopra i massimi sistemi non è né esplicita né rigorosa: essa forma il nucleo concettuale di qualcosa che è ancora tutta da costruire.
Nella fisica aristotelica il problema del moto era considerato in senso ontologico. Era movimento tutto ciò che trasformava in atto la potenzialità di un ente, cosicché era movimento la crescita di un albero come la caduta di un sasso o l’educazione di un fanciullo. Ed ogni movimento esigeva un motore, spesso ritenuto interno all’ente stesso, come nel caso del “moto naturale” di un grave; al contrario, un “moto violento” aveva una causa esterna. Galileo fece chiarezza su questo punto sostenendo che non esisteva differenza tra moti naturali e violenti, ma che lo “stato” di moto di un corpo era una situazione a cui il corpo stesso era completamente indifferente. Se si fa rotolare una palla su un piano orizzontale, notava Galileo, il moto dura tanto più a lungo quanto più levigati sono il piano e la palla. Con gli occhi della mente Galileo vedeva chiaramente, in quello che oggi chiamiamo un “passaggio al limite”, che una palla perfettamente liscia fatta rotolare su un piano perfettamente levigato non si sarebbe fermata mai. La palla non può mettersi in moto da sola, così come non si può fermare da sola. Descartes sosteneva, a questo proposito, che i filosofi si erano posti una domanda sbagliata: non dovevano chiedersi cosa manteneva in moto un oggetto, ma cosa lo costringeva a fermarsi.
Ma Galileo aveva fatto molto di più. Aveva sostenuto la necessità di rifondare completamente, e su base matematica, l’intera scienza del moto. Archimede (il “divino Archimede” nelle parole di Galileo) aveva mostrato che questo era possibile per i fenomeni che noi includiamo nella scienza della “statica”, Galileo ritenne che si sarebbe dovuto fare la stessa cosa per la “dinamica”. E aveva dato un primo, fondamentale contributo risolvendo il problema dei corpi in caduta libera. Se il moto della palla sul piano perfettamente liscio è un “moto uniforme”, in cui il corpo percorre spazi uguali in tempi uguali, la caduta di un grave rappresenta un “moto uniformemente accelerato”, in cui sono gli incrementi di velocità ad essere costanti nel tempo. Così, per la prima volta, vediamo prendere in considerazione come importante argomento di studio la variazione di una grandezza in dipendenza da un’altra: è quello che oggi chiamiamo derivata e che Newton e Leibnitz formalizzarono nella seconda metà del ‘600. Da qui nacque il calcolo differenziale, senza il quale non si può formulare compiutamente una teoria matematica della dinamica e della gravità.
Nel prossimo paragrafo esamineremo velocemente lo sviluppo del calcolo differenziale, rimandando al paragrafo seguente un accenno alla dinamica newtoniana.
Per affrontare il problema dobbiamo fare un salto indietro di più di 2000 anni, all’epoca di Zenone di Elea (nato nel 490 a.C.). E’ a tutti noto il famosissimo paradosso di Achille e la tartaruga, ma vale la pena di riesaminarlo perché è al cuore di questo paradosso che si trova la soluzione di come descrivere i moti celesti (e anche quelli terrestri).
Dunque il paradosso di Zenone si presenta così. Achille Pié Veloce è in gara con una tartaruga, che parte con un piccolo vantaggio. Achille per superare la tartaruga deve prima raggiungerla, ma nel frattempo questa ha percorso un sia pur piccolo pezzo di strada. Allora Achille deve di nuovo raggiungerla, ma ancora la tartaruga è andata oltre, e così all’infinito. I filosofi della scuola di Zenone ritennero, in base a questo ragionamento, che Achille non avrebbe raggiunto mai la tartaruga, anche se le distanze da questa percorse divenivano sempre più piccole, perché avrebbe dovuto compiere un numero infinito di passi e in base alla filosofia greca la somma di un numero infinito di termini non poteva che essere infinita.
Il paradosso di Achille (così come quello molto simile della freccia) porta ad una situazione sconcertante ed ha naturalmente un vizio di fondo. Tuttavia né i Greci né i filosofi (e matematici) posteriori riuscirono in più di duemila anni a risolvere l’enigma. Il motivo è molto semplice: la filosofia greca aveva ripudiato lo zero e l’infinito, che sono facce di una stessa medaglia, sono uno l’inverso dell’altro. Essi fecero il loro ingresso nel mondo occidentale solo grazie agli arabi (che li mutuarono dagli indiani) nel medioevo.
Ammettiamo che Achille corra ad un metro al secondo (i centometristi odierni vanno circa dieci volte più veloci) e la tartaruga a mezzo metro al secondo, partendo però con un vantaggio di un metro. In un secondo Achille è arrivato dove si trovava la tartaruga, che nel frattempo però avrà percorso mezzo metro. Dopo un altro mezzo secondo Achille ha coperto anche questa distanza, ma la tartaruga è ancora in vantaggio di un quarto di metro. Si vede subito che le distanze coperte da Achille seguono la successione
e così pure i tempi di percorrenza relativi. I Greci non disponevano dello zero, ma noi si. La successione precedente, in linguaggio moderno, “tende a zero”, oppure “ha limite zero”. Ma neppure il concetto di limite apparteneva ai filosofi Greci, così come non apparteneva agli studiosi del ‘600. Galileo ne ebbe una vaga intuizione, ma nulla più. Ora, se sommiamo i termini della successione precedente vediamo che noi dobbiamo addizionare un numero infinito di addendi, ma che questi addendi sono sempre più piccoli e tendono a zero. Si dimostra facilmente che la somma della serie costruita sulla successione è due[4]: ad Achille bastano 2 metri (e quindi 2 secondi) per raggiungere e poi superare la tartaruga.
Si è detto alla fine della sezione precedente che la scienza diventò nel ‘600 un fatto comunitario. Nel nostro percorso verso la dinamica newtoniana incontriamo quindi un numero enorme di scienziati e di opere che nel complesso hanno contribuito ad ottenere quel risultato. Anche solo nominarli tutti sarebbe fuori luogo, ma vale la pena di esaminare alcuni contributi che risultarono determinanti.
Il primo di questi fu fornito da René Descartes (Cartesio). Nel 1661 solo due pensatori avevano fatto proprio il principio d’inerzia di Galileo, Cartesio e Christiaan Huygens. Anzi, fu proprio il primo di essi che dette al principio la formulazione che conosciamo oggi. Ma Cartesio aveva fatto molto di più, aveva rifondato la più antica scienza matematica, la geometria, descrivendola con i metodi propri dell’algebra, ignota ai Greci (anch’essa venne introdotta dagli arabi). Ne era venuta fuori la disciplina oggi nota come “geometria analitica”; la Géométrie di Cartesio venne pubblicata, nella forma finale, proprio nel 1661. La grande novità della Géométrie consisteva nella possibilità di ridurre i problemi geometrici, come il calcolo delle tangenti ad una curva, a problemi algebrici, descrivibili con semplici equazioni. Altri matematici, come Fermat (quello del famoso “terzo teorema”), Cavalieri, Wallis, avevano indagato le proprietà delle successioni e delle “serie” (somme di termini di una successione), mostrando la potenza dei metodi matematici che oggi chiamiamo “analisi”. Rimaneva tuttavia problematico il modo di trattare le quantità infinitesime.
Nel 1664 Newton si dedicò allo studio dell’analisi. Divorò in pochissimo tempo (sembra saltando i pasti) tutto quello che era stato pubblicato sull’argomento e nel giro di poco, a 22 anni, era in grado di cominciare da solo l’esplorazione del “nuovo mondo”.
In particolare si dedicò allo studio delle radici delle equazioni delle coniche e alla costruzione delle tangenti a queste curve, scoprendo sempre più il grande vantaggio offerto dalle coordinate che ora chiamiamo “cartesiane”. Si applicò ripetutamente ai problemi di “quadratura”, cioè alla ricerca di aree comprese in una curva come somma di tante aree di grandezza decrescente, un procedimento che noi ora chiamiamo “integrazione”. Con questo metodo fu in grado di effettuare operazioni che nessuno prima di lui aveva fatto, fino a giungere alla sua definizione del metodo delle “flussioni”, in pratica al calcolo differenziale[5].
Quello che stupisce nella costruzione di Newton è l’intrusione del “movimento” nella matematica. Le sue costruzioni geometriche e i metodi per calcolare le tangenti alle curve che andava esaminando facevano ampio ricorso ad immagini come “il segmento og che descrive la curva a velocità costante” o “al muoversi di ap anche dt si muove con la stessa velocità”. In sostanza, Newton aveva una visione “dinamica” delle sue costruzioni geometriche, visione che noi conserviamo ora in locuzioni come “al tendere di x a zero”.
Newton dimostrò che la tangente ad una curva in ogni suo punto è uguale alla derivata della curva in quel punto (teorema fondamentale del calcolo infinitesimale). Naturalmente non usava la parola “derivata” né “integrale”, ma aveva una chiara idea del fatto che le due operazioni erano l’una l’inversa dell’altra. Aveva anche capito bene che le “velocità” di due punti nel descrivere due curve erano intimamente legate alle distanze (o meglio archi di curva) che essi stavano descrivendo; in altre parole aveva ben compreso che la velocità di un punto lungo una linea non è altro che la “derivata” dello spazio percorso rispetto al tempo. In notazione moderna (e leibnitziana)
L’operazione di derivazione è di fatto un rapporto. Ma un rapporto tra quantità infinitesime. Poiché prima di allora l’infinitesimo, come lo zero e l’infinito, erano concetti evitati accuratamente a causa dei problemi notevoli che ponevano, nessuno aveva cercato di immaginare quale fosse il risultato della divisione tra due quantità piccole a piacere. Il senso comune diceva che, qualunque fosse il divisore, se il dividendo era praticamente nullo anche il rapporto sarebbe stato tale. Ma non è così. Se, seguendo il metodo di procedere di Newton, facciamo decrescere numeratore e denominatore di un rapporto “alla stessa velocità”, il rapporto non può che rimanere costante. Immaginiamo di avere il rapporto ½ e di dividere sistematicamente per 2 sia il numeratore (1) che il denominatore (2): è chiaro che il valore del rapporto resterà costante, anche se le due quantità tenderanno a zero come la successione vista in precedenza. Dunque, ha senso chiedersi quale sarà il rapporto tra una distanza infinitesima e l’intervallo di tempo – ugualmente infinitesimo – richiesto a percorrerla. E’ proprio questo rapporto che, al tendere dell’intervallo di tempo a zero, dà il valore della velocità istantanea.
Con questo fondamentale passo avanti Newton inserì nel suo percorso un concetto del tutto nuovo e gravido di conseguenze: quello di “tempo assoluto” come vedremo più oltre. Vale la pena di dare a questo punto di nuovo la parola a Westfall:
“Nell’idea intuitiva del moto o flusso continuo, gli infinitesimi venivano sostituiti dalle velocità istantanee. Ma l’unico mezzo che Newton aveva a disposizione per esprimere la velocità all’istante era il rapporto tra la distanza percorsa e l’unità infinitesima di tempo impiegata a percorrerla. L’idea di moto occultava la sua componente infinitesimale trasferendola all’inespressa variabile tempo. Per designare l’unità di tempo egli aveva a disposizione un solo termine, quello di “momento”. Le “linee infinitamente piccole” che i corpi descrivono in ciascun momento sono le velocità con cui le descrivono. Le sue equazioni trattavano gli incrementi come entità algebriche da adoperare come le altre entità…Il concetto di moto uniformemente vario, che sembra intuitivamente superare la discontinuità degli indivisibili, non cessò mai di fare appello all’immaginazione di Newton; egli, tuttavia, avrebbe finito col cercare un altro, e più rigoroso, fondamento al proprio calcolo infinitesimale.”
E’ interessante notare che Newton nacque il giorno di Natale del 1642, quando Galileo era morto da pochi mesi.
Richard S. Westfall,
La disciplina fisico-matematica che studia il moto dei corpi celesti si chiama tuttora Meccanica Celeste, come abbiamo visto.
Per dimostrarlo procediamo all’inverso, sottraendo all’ipotetica somma 2 i vari addendi: se 2 è veramente la somma, allora il risultato deve essere zero. Ora, 2-1=1, poi 1-1/2=1/2, eccetera. Si vede che il resto della sottrazione è sempre uguale all’ultimo termine sottratto. Ma la successione ha limite zero, quindi alla fine il resto sarà zero, come dovevasi dimostrare.
E’ notissima la disputa tra Newton e Leibnitz sulla “primogenitura” del calcolo. Il primo ad inventarlo fu Newton (metodo delle flussioni), ma il primo a pubblicarlo fu Leibnitz. E’ prassi mai messa in discussione nel mondo scientifico che la priorità di una scoperta spetta al primo che la rende pubblica, cioè la pubblica. E’ interessante notare che la comunità dei matematici è sempre stata fedele a questa prassi e che quindi nei trattati di matematica si usa sempre la notazione di Leibnitz () mentre la comunità dei fisici, specie se anglosassoni, usa spesso la notazione newtoniana (). Un po’ di campanilismo…
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