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DOCUMENTE SIMILARE |
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Si definiscono “pianeti terrestri” quelli che sono composti principalmente di roccia e metalli, hanno densità relativamente alte, rotazione lenta, superfici solide, nessun anello e pochi satelliti. Tra questi si annoverano Mercurio, Venere, Terra e Marte.
In generale si accetta che i pianeti terrestri abbiano subito una evoluzione termica che ha portato alla loro differenziazione a seguito del riscaldamento cui essi sono stati sottoposti, argomento già esaminato nel paragrafo relativo alla formazione. Tuttavia, a parità di processi coinvolti, a seconda della composizione chimica, della distanza di un pianeta dal Sole, delle sue dimensioni, si possono ottenere risultati molto differenti, anche se nel sistema planetario è possibile identificare un trend globale. Andando dalle zone interne verso quelle esterne, si nota una graduale diminuzione della densità media ed un aumento degli elementi volatili. Nella seguente tabella sono riportate le densità medie dei pianeti terrestri e il momento di inerzia specifico. Le densità riportate sono le cosiddette densità non compresse, che ci permettono di fare un confronto tra i vari oggetti indipendentemente dalla pressione interna. Il momento di inerzia è una misura di quanto la massa planetaria è concentata al centro del corpo: 0.4 corrisponde ad una sfera omogenea, valori più bassi rappresentano oggetti più concentrati. Questo parametro riflette pertanto sia l’auto-compressione che la presenza di un core solido. C’è da notare che la Terra e Venere sono abbastanza simili, così come è possibile aspettarci sulla base delle loro similitudini in massa e dimensione. Marte ha invece una densità media inferiore ed un momento d’inerzia superiore. Ciò suggerisce che sia meno differenziato e che il nucleo contenga una quantità inferiore di ferro. Mercurio è più denso ed il suo momento di inerzia non è stato ancora misurato, tuttavia, sulla base della sua densità non compressa, si può supporre che il nucleo corrisponda a circa l’80% della massa. Per questo motivo si suppone che abbia un nucleo non solo grande, ma anche ricco in ferro.
La maggioranza dei pianeti è circondata da estese strutture magnetiche dette magnetosfere, che sono prodotte da campi magnetici interni. Queste magnetosfere sono spesso da 10 a 100 volte più grandi del pianeta stesso e quindi costituiscono le strutture più grandi nel nostro sistema solare con l’eccezione della magnetosfera solare. Il vento solare fluisce attorno a questi gusci magnetici. La magnetosfera di un pianeta può esser generata o da un processo di dinamo interna (come nel caso della Terra, dei pianeti giganti e di Mercurio) , o dalla interazione del pianeta con il vento solare ( come nel caso di Venere e delle comete). Esistono anche casi di magnetismo residuo presente anche a grande scala, come nel caso di Marte, della Luna e di alcuni asteroidi come Vesta.
Misure chiave
Lo studio degli interni planetari fa uso di tecniche di indagine che sfruttano la presenza di satelliti artificiali attorno ad un pianeta. Per quanto riguarda il campo gravitazionale sarà necessario utilizzare strumenti che permettano la misura accurata della sonda rispetto alla Terra. In tal modo sarà possibile valutare con grande precisione quale sia l’effetto del campo gravitazionale del pianeta sulla sonda. Ovviamente la misura da sola non è sufficiente: è necessario interpolare i dati sperimentali con un modello di interno, operando quella che si chiama inversione geofisica. Tramite l’analisi dei dati dei vari orbiter lunari Apollo è stato possibile misurare le variazioni di campo gravitazionale lunare e scoprire la presenza di “mascons” sulla Luna.
Per quanto riguarda il campo magnetico, la misura viene eseguita tramite sofisticati magnetometri. Le prossime missioni a Marte, Venere, Vesta, permetteranno di eseguire misure dettagliate del campo gravitazionale, che unite alle misure di campo magnetico forniranno una dettagliata radiografia degli interni planetari.
Sorgente di energia | Processo |
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Energia Gravitazionale | Accrescimento planetario |
| Craterizzazione |
| Differenziazione |
| Aggiustamento isostatico |
| Circolazione atmosferica |
| Circolazione idrosferica |
| Evoluzione mareale e riscaldamento interno. |
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Decadimento Radiattivo | Convezione |
| Vulcanismo |
| Tettonica |
| Differenziazione |
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Energia Solare | Circolazione atmosferica |
| Circolazione idrosferica |
| Space Weather |
| Attività biologica |
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Energia Chimica | Evolutione atmosferica |
| Alterazione ed erosione delle superfici |
| Attività biologica |
L’attività tettonica che caratterizza una superficie è l’espressione superficiale della attività interna del pianeta. Ovviamente essa si esprime in modo differente a seconda delle caratteristiche della crosta e del mantello del pianeta: così, su Mercurio essa è prevalentemente caratterizzata da strutture compressive, che sono l’indizio di un primitivo raffreddamento del pianeta; Venere e Marte furono probabilmente caratterizzate da tettonismo ad una placca, mentre sulla Terra ha avuto luogo una estesa tettonica a placche.
Figura 6 b Tettonica associata a processi convettivi presenti all’interno di un pianeta
Tutti i pianeti terrestri sono stati caratterizzati da aggiustamenti di tipo isostatico nelle loro storie recenti. Nei pianeti più piccoli, come la Luna e Mercurio, la litosfera si formò presto nella storia planetaria e rimase sostanzialmente integra o fu solo parzialmente fratturata per effetto delle tensioni generatesi per effetto della contrazione e, forse, del de-spinning. Su Marte, i grandi piani e le highlands potrebbero aver memoria di una passata fase di convezione omogenea. Ora è presente una litosfera omogenea, distrutta dalla plume di Tharsis, che, probabilmente ha contribuito ad assottigliare la litosfera dal disotto favorendo la formazione di estese forme di vulcanismo. La presenza di nuovi carichi, prodotti dalla attività vulcanica effusiva, ha probabilmente generato un nuovo sistema di estese fratture, visibili a scala planetaria pur di avere una copertura globale del pianeta accompagnata da una equivalente ricopertura altimetrica. E’ per questo motivo che la comprensione della attività tettonica di Marte ha avuto nuovo impulso dalle osservazioni della camera e del laser altimetro del Mars Global Surveyor.
Per quanto riguarda Venere, le immagini radar mostrano superfici piuttosto piatte, costellate da grandi strutture circolari. Tuttavia sono presenti anche canyons, vulcani ed estese colate laviche. Sono stati osservati su Venere anche due estesi”continenti” Istar Terra ed Aphrodite Terra. Seguendo Bird ( 1986), si può supporre che le terrae sovrastino zone di plume. Ciò, secondo Bird (1986) potrebbe essere accettato purché si possa dimostrare che su Venere non sia presente una estesa crosta granitica. Sarà compito delle prossime missioni spaziali identificare la composizione della crosta Venusiana.
La Luna non ha grandi vulcani, tuttavia ampie pianure di lave basaltiche, i maria, coprono gran parte della superficie lunare. Vi sono altre formazioni vulcaniche all'interno dei maria lunari. I più importanti sono i sinuous rilles, i dark mantling deposits, i domi ed i coni vulcanici . Queste altre formazioni, tuttavia, costituiscono una frazione molto piccola delle morfologie vulcaniche lunari. Il vulcanismo sulla Luna differisce in parecchi modi dal vulcanismo sulla Terra. In primo luogo per l'età: la maggior parte del vulcanismo sulla Luna sembra essere avvenuto fra i 3 ed i 4 miliardi di anni fa. Poiché la Luna non mostra alcun segno di attività vulcanica o geologica recente, a volte è considerata un pianeta 'morto'. Le caratteristiche del vulcanismo dei maria rivelano un'altra importante differenza dal vulcanismo sulla Terra: i vulcani della Terra si trovano principalmente lungo catene montuose. Tali catene, come le Ande, contrassegnano il bordo di una placca litosferica. Le catene montuose come le isole Hawaii sono prodotte dal movimento di una placca sopra una hotspot del mantello. Per contro, i maria si presentano tipicamente sul fondo di bacini da impatto molto grandi e vecchi. Non vi è indizio che il sistema della tettonica a placche si sia mai sviluppato sulla Luna. I maria lunari sono quasi tutti sulla faccia rivolta alla terra, mentre coprono solo il 2% della faccia nascosta. La superficie è molto più elevata sulla faccia nascosta, dove la crosta è in genere molto più spessa. Quindi, i fattori primari che controllano il vulcanismo sulla Luna sembrano essere la quota topografica e lo spessore della crosta. Per concludere, ci sono alcune differenze fisiche importanti fra il vulcanismo sulla Terra e sulla Luna. Primo, la gravità lunare è soltanto un sesto di quella terrestre. Ciò significa che le forze che guidano il flusso della lava sono più deboli sulla Luna. Quindi, le superfici molto piane e regolari dei maria implicano che le lave siano state molto fluide. Inoltre, la bassa gravità significa che le eruzioni esplosive possono gettare materiale più lontano sulla Luna che sulla Terra. Quindi tali eruzioni sulla Luna dovrebbero spandere le lave fuori in un vasto strato piano e non nelle caratteristica forma conica vista sulla Terra. Ciò dà ragione del perché non vi siano grandi vulcani. Infine, la Luna non possiede essenzialmente acqua dissolta. Per contro, l'acqua è uno dei gas più comuni nelle lave della Terra, ove svolge un ruolo importante nell'innescare eruzioni violente. Senza acqua, le eruzioni esplosive sono molto meno probabili sulla Luna.
La superficie di Mercurio ha numerose caratteristiche interessanti, compresa una varietà di crateri, creste e terreni che variano da densamente craterizzati a quasi privi di crateri. Anche se non sono stati identificati vulcani, le pianure lisce su Mercurio indicano che materiale fuso in varie epoche del passato ha riempito le zone situate a basse quote topografiche. I wrinkle ridges che sono diffusi sulla superficie suggeriscono che il pianeta si sia raffreddato e si sia contratto nel passato, causando la compressione e la spinta della superficie.
Venere ha più vulcani di qualunque altro corpo del sistema solare, con oltre 1600 vulcani o formazioni vulcaniche. Tali vulcani possiedono una grande varietà di morfologie. Molti sono vulcani a scudo, ma ve ne sono anche di natura composita, e sono individuabili grandi colate di lava estremamente fluida. Venere appare geologicamente giovane, con una superficie non più vecchia di 1 miliardo di anni (età stimata sulla base del grado di craterizzazione), e si pensa che sia ringiovanita dalla fuoriuscita di colate laviche associate agli impatti meteorici, e soprattutto all'attività vulcanica. Su Venere non sono stati individuati indizi di tettonica a placche, soffocata probabilmente dalle proibitive condizioni climatiche. Ad una temperatura superficiale di circa 500 centigradi, infatti, non esiste un contrasto di densità sufficiente, tra le rocce crostali ed il mantello, affinché si instauri un moto convettivo che porti alla subduzione di porzioni di litosfera. È probabile quindi che il vulcanismo di Venere sia dovuto piuttosto alla risalita localizzata di magmi subcrostali in zone caratterizzate da elevata anomalia termica ('hot spots'). Esistono molte evidenze geomorfologiche e geochimiche che il vulcanismo su Venere sia ancora in atto e probabilmente molto intenso. Sebbene la visione diretta della superficie venusiana sia preclusa all'osservazione telescopica, informazioni indirette circa l'attività vulcanica del pianeta possono essere ricavate dall'attenta e sistematica sorveglianza della sua atmosfera.
Marte ha i più grandi vulcani a scudo del sistema solare. Inoltre, ha una vasta gamma di altre formazioni vulcaniche. Queste includono i grandi coni vulcanici, le strutture a patera, pianure vulcaniche simili ai maria lunari ed un certo numero di altre formazioni più piccole. Tuttavia, le formazioni vulcaniche non sono comuni. Ci sono meno di 20 vulcani su Marte e soltanto cinque di questi sono vulcani a scudo giganti. Inoltre, il vulcanismo si presenta principalmente all'interno di tre regioni. Anche le pianure vulcaniche si raggruppano vicino a queste regioni. Il principale raggruppamento di vulcani e lave è Tharsis. Un raggruppamento molto più piccolo di tre vulcani si trova in Elysium. Infine, alcune paterae sono vicino al bacino da impatto di Hellas. Come sulla Luna, il vulcanismo su Marte è molto antico. Le pianure vulcaniche su Marte hanno la stessa età dei maria lunari, vecchie approssimativamente di 3 - 3,5 miliardi di anni. Tuttavia, il vulcanismo è durato molto più a lungo su Marte che sulla Luna. Inoltre sembra essere cambiato col tempo. Il vulcanismo nelle paterae degli altipiani e nelle pianure vulcaniche su Marte si è arrestato 3 miliardi di anni fa, ma alcuni degli scudi e dei coni più piccoli hanno eruttato soltanto 2 miliardi di anni fa. I vulcani a scudo giganti sono ancora più giovani. Questi vulcani si sono formati fra 1 e 2 miliardi di anni fa. I flussi di lava più giovani su Olympus Mons hanno soltanto 20 - 200 milioni di anni. Questi flussi sono molto piccoli, tuttavia, e probabilmente rappresentano l'ultimo sussulto del vulcanismo marziano. Quindi, le probabilità di individuazione del vulcano attivo su Marte oggi sono molto piccole. Come la Luna, Marte non mostra segni di tettonica a placche. Più di metà di Marte è densamente craterizzata come la faccia nascosta della Luna. Diversamente dalla Luna, tuttavia, la maggior parte del vulcanismo marziano si trova al di fuori dei bacini da impatto, mentre le pianure vulcaniche sono situate vicino ai vulcani maggiori. Queste pianure inoltre non sono limitate alle quote più basse, ed alcune di esse sono situate più in alto degli altipiani craterizzati. Tuttavia, spessi strati di polvere e di sedimento coprono sia le pianure dell’emisfero nord che i fondali dei grandi bacini. Questi strati testimoniano una lunga azione del vento, dei ghiacciai e di eventi d’inondazione. Inoltre, nascondono qualunque traccia del vulcanismo che può essersi svolto nelle pianure di Marte. La concentrazione e la durata del vulcanismo in Tharsis ed Elysium sono attribuite allo sviluppo di un hotspot longevo del mantello.
In generale i crateri da impatto si formano quando un meteoroide o un asteroide cade sulla superficie di un altro corpo celeste. La morfologia di un cratere dipende dal diametro del cratere stesso. I crateri più piccoli hanno una semplice forma a scodella (da qui il nome: crater significa coppa). I crateri più grandi mostrano un picco centrale, mentre per diametri ancora più' estesi si possono sviluppare una serie d'anelli concentrici che circondano il cratere. Questa diversità morfologica non è il risultato del processo che porta allo scavo del cratere ma, piuttosto, il risultato dei processi di rilassamento che intervengono dopo. Un secondo elemento riconducibile all'azione degli impatti è la strutturazione dai pianeti di tipo terrestre, nel quale si è verificata una drastica differenziazione tra gli elementi più pesanti (fondamentalmente ferro e nickel) e quelli meno pesanti (vari composti silicati quali olivina e pirosseni), in seguito a ripetuti e globali fenomeni di fusione sfociati nella discesa verso il centro del pianeta degli elementi più pesanti, con la conseguente separazione tra nucleo e mantello: la quantità di energia necessaria sarebbe stata fornita dagli impatti che nelle fasi iniziali del Sistema Solare erano enormemente più frequenti.
Il conteggio del numero di crateri per unità di superficie costituisce l’unico modo per compilare una datazione relativa delle diverse unità geologiche sulla superficie di un pianeta: una superficie più antica è stata esposta al bombardamento meteorico più a lungo, ed ha quindi una densità di crateri più alta di una superficie di formazione più recente. L’unico corpo celeste per il quale è stato possibile stabilire una datazione assoluta della superficie è la Luna, grazie alle misure compiute sui campioni riportati a terra dalle missioni Apollo. Sulla base di tali misure si è tentato di correlare la densità di crateri con un’età assoluta della superficie, e di ottenere così età assolute per altri corpi del sistema solare dotati di superficie solida: tale metodo non ha però prodotto datazioni univoche, e rimane quindi ineludibile la necessità di compiere una raccolta di campioni in sito.
Per la Luna, la craterizzazione da impatto è il processo più importante nel modificare la morfologia superficiale, mentre gli altri processi hanno un'importanza minore. Sull'emisfero visibile da terra ci sono 300 000 crateri con diametro maggiore di 1 km, mentre quelli con diametro maggiore di 100 km sono 234. Mercurio è il più grande tra i corpi planetari per cui l’evoluzione superficiale è stata dominata principalmente da cause esterne negli ultimi miliardi di anni. Il tratto distintivo di una tale evoluzione è una superficie satura di piccoli crateri e ricoperta da regolite. Rispetto allo strato di polvere superficiale di altri corpi privi di atmosfera, come ad esempio la Luna, il regolite di Mercurio presenta notevoli differenze. Infatti, a questa piccola distanza dal Sole gli “impattori” dominanti sono i micrometeoroidi (dai b-meteoroidi fino a grani di qualche centinaio di mm), rilasciati soprattutto dalle comete, sia a corto che a lungo periodo, nelle vicinanze del loro perielio. A causa dell’alta eccentricità delle orbite di questi frammenti, la velocità di impatto sulla superficie del pianeta è circa 60 km s-1.
Il clima del pianeta è determinato dalla sua massa, dalla sua distanza dal Sole e dalla composizione della sua atmosfera.
A causa della sua vicinanza col Sole e delle sue ridotte dimensioni, Mercurio non ha trattenuto l’originaria atmosfera; tuttavia lo strumento UV di Mariner 10 ha rilevato la presenza di H, He ed O gassoso, mentre osservazioni da Terra hanno identificato anche Na, K e Ca. Ultimamente, sono stati scoperti da osservazioni radar depositi di materiale volatile (acqua o solfuri) in crateri permanentemente in ombra intorno ai poli. Dato che la pressione misurata da Mariner 10 è almeno due ordini di grandezza maggiore di quella stimata dalle sole specie osservate, è molto probabile che l’esosfera di Mercurio sia costituita da altri elementi. Questo materiale gassoso a bassa densità che circonda il pianeta, è continuamente rinnovato ed eroso attraverso interazioni con la superficie e con il plasma del vento solare e magnetosferico.
Probabilmente l'intensità del campo magnetico di Mercurio è sufficiente per deviare le particelle cariche del vento solare e creare una propria magnetosfera. Tuttavia, essa non basta a impedire che, nei periodi di forte attività del Sole, le particelle del vento solare possano raggiungere direttamente la superficie del pianeta ed interagire con essa.
Si suppone che all’inizio della loro vita, la Terra e i sui due vicini Marte e Venere avessero un clima molto simile, essendosi formati tutti e attraverso la collisione di un gran numero di piccoli corpi detti planetesimi che avevano costituenti simili, fra cui anidride carbonica e acqua. Tuttavia l’evoluzione del clima ha seguito strade completamente diverse. La ragione di questo risiede solo in parte dalla loro posizione rispetto al Sole.
Evidenze geologiche sulla superficie di Marte fanno pensare alla presenza di acqua in un tempo precedente a 3.5 miliardi di anni fa. L’erosione superficiale delle terre più antiche, in cui i crateri da impatto al di sotto dei 15 km sono praticamente scomparsi e quelli più grandi sono fortemente degradati, e la presenza di una rete di valli o canali ne sarebbero la prova. Ciò significherebbe che nel suo primo miliardo di anni Marte aveva acqua liquida sulla sua superficie e quindi un clima completamente diverso dall’attuale. Perché l’acqua potesse esistere allo stato liquido, la temperatura doveva essere molto più alta suggerendo una presenza di una massiccia atmosfera di anidride carbonica con un probabile apporto di altri gas serra, come si pensa fosse sulla Terra e su Venere.
Mentre Marte ha grande disponibilità d'acqua (pur ghiacciata), oggi Venere è completamente disidratato. La poca acqua in esso presente si trova nell' atmosfera sotto forma di vapore come componente delle dense nubi di acido solforico che circondano il pianeta. I climatologi hanno proposto due teorie per spiegare il fenomeno. Una ipotizza che su Venere non vi sia mai stata molta acqua perché la regione della nebulosa solare in cui esso si forma doveva essere troppo calda per consentire la formazione di minerali idrati. La teoria alterativa é che Venere abbia avuto in origine abbondanza d'acqua ma che l'abbia perduta. L'intensa radiazione solare scompose le molecole d'acqua e liberò gli atomi di idrogeno, che sfuggirono nello spazio. Quindi qualora ci fossero stati oceani primordiali sulla superficie questi sarebbero rapidamente evaporati a causa delle alte temperature. Questo avrebbe provocato la cessazione dell’assorbimento dell’anidride carbonica e quindi un suo accumulo in atmosfera. Venere ha attualmente una pressione alla superficie di circa 93 bar e un’atmosfera composta al 96% di anidride carbonica.
Un importante fattore nell’evoluzione del clima è l’interazione tra il Sole ed i Pianeti.
Il Sole trasferisce energia all’eliosfera sotto forma di radiazione sia elettromagnetica sia corpuscolare. La radiazione solare corpuscolare trasferisce energia attraverso il vento solare ed emissioni sporadiche di particelle ad alta energia. Il vento solare è formato da particelle cariche (essenzialmente protoni ed elettroni) e da una piccola percentuale di particelle neutre ad energia di circa 1 keV. Tali ioni, che si muovono dal Sole verso l’esterno, trascinano un campo magnetico congelato nel flusso delle particelle stesse.
Quando questo flusso di particelle incontra un pianeta, interagisce con l’ambiente planetario: con la magnetosfera, come nel caso terrestre, o con l’atmosfera, come nel caso di Venere, o direttamente con la superficie, come nel caso della Luna. Interazioni più complesse avvengono nei casi come Mercurio, il cui campo magnetico intrinseco non è abbastanza intenso da proteggere completamente la superficie dall’esposizione al vento solare.
Misure chiave
Lo studio dei pianeti terrestri richiede quindi una strategia articolata che si avvale di orbiter, per una osservazione globale delle caratteristiche dei vari pianeti, di lander, per le misure in “situ” e di analisi del sottosuolo, ove possibile.
Mars Express (vds. Parte 3A, 2.1.1.2), da poco lanciata dal Cosmodromo di Baikonur, è la prima missione ESA destinata al Pianeta Rosso. Essa è costituita da un orbiter ed un lander, il primo dei quali è dotato di sette esperimenti scientifici per mappare sull’intero pianeta la distribuzione dell’acqua nel sottosuolo in tutte le sue forme, ottenere immagini stereo ad alta risoluzione per la caratterizzazione geologica della superficie, caratterizzare la circolazione e composizione atmosferica di Marte, e studiare l’interazione tra l’atmosfera e lo spazio circostante. Il lander di Mars Express è stato fornito dalla Gran Bretagna, ed è operativamente autonomo dall’orbiter, una volta che sia stato rilasciato per atterrare su Marte. Tutti gli esperimenti a bordo del lander sono stati realizzati in Gran Bretagna.
I diversi strumenti che costituiscono il carico scientifico del modulo orbitante analizzeranno la struttura dell'atmosfera di Marte (analizzatore di atomi neutri energetici ASPERA-3, esperimento radio MaRS; spettrometro infrarosso PFS e spettrometro UV e IR SPICAM) con particolare attenzione all'abbondanza, alla distribuzione ed al comportamento del vapore d'acqua, ed eseguiranno una mappatura della superficie (camera stereoscopica ad altissima risoluzione HRSC, spettrometro a immagini OMEGA) e un sounding sub-superficiale, tramite il radar - altimetro MARSIS. Quest'ultimo consentirà di sondare la crosta marziana fino a qualche chilometro di profondità per la ricerca di acqua. Due di tali esperimenti sono a guida italiana (MARSIS e PFS), mentre altri tre vedono una significativa partecipazione della comunità scientifica nazionale (ASPERA-3 e OMEGA, con un contributo alla realizzazione dello strumento, ed HRSC).
Venus Express sarà la prima missione ESA diretta a Venere, il pianeta gemello della Terra. Il lancio avverrà dal Cosmodromo di Baikonur nel novembre del 2005, con una durata prevista del viaggio di 153 giorni. La missione si propone di studiare l’atmosfera e la superficie del pianeta per comprenderne la diversità da quelle della Terra. Lo studio intensivo dell’effetto serra su Venere ci aiuterebbe anche a capire meglio il suo analogo fenomeno terrestre perturbato dall’attività umana, soprattutto in termini di previsione e prevenzione.
Tra gli strumenti che costituiscono il carico scientifico del modulo orbitante, diversi sono realizzati in parte o completamente dalla comunità scientifica italiana, ossia l’analizzatore di atomi neutri energetici ASPERA-4, lo spettrometro nel lontano infrarosso PFS, e lo spettrometro ad immagini nel visibile e nel vicino infrarosso VIRTIS.
Lo studio dei meccanismi che provocano la fuga di gas atmosferico di Venere ha implicazioni dirette con quello delle origini e dell'evoluzione dell'atmosfera planetaria. Venere è caratterizzato dall'assenza di un campo magnetico intrinseco, e quindi la parte superiore dell'atmosfera non è protetta dall'interazione diretta con il vento solare e/o con il plasma di origine solare che circola nella ionosfera. Occorre quindi studiare con sufficiente dettaglio gli scambi tra il vento solare e l’alta atmosfera di Venere. Attraverso la rilevazione di atomi neutri energetici con la strumento ASPERA-4 si possono ottenere informazioni istantanee sulla distribuzione di plasma, di neutri e sulle efficienze dei meccanismi di fuga.
Mediante uno spettrometro ad immagini come VIRTIS è possibile misurare la radiazione termica nelle finestre atmosferiche a 0.85mm, 0.9mm, 1.01mm, 1.10mm, 1.18mm, 1.74mm e 2.3mm. La presenza di un canale visibile permette inoltre di studiare le proprietà di riflessione e di assorbimento delle nubi nella media atmosfera. In particolare anche per Venere la mappatura dei composti minori ed in particolare dell’acqua in tre dimensioni è di primaria importanza sia per capire l’esistenza di vulcani attivi passati o presenti, sia per capire la presenza di rocce idrate stabili e quindi studiare l’interazione atmosfera-superficie. L’acqua ha un’importanza enorme anche per l’effetto serra.
Bepi Colombo (vds. Parte 3, 4.1), una missione ESA in collaborazione con il Giappone, esplorerà Mercurio, uno dei membri estremi nel processo di formazione dei pianeti ed il meno conosciuto tra quelli di tipo terrestre. Bepi Colombo sarà lanciata nel 2011-2012, ed il viaggio durerà tre anni e mezzo. La missione è composta da tre elementi: il Mercury Planetary Orbiter (MPO), realizzato dall’ESA; il Mercury Magnetospheric Orbiter, fornito dall’agenzia spaziale giapponese ISAS, e forse un piccolo lander (chiamato Mercury Surface Element, o MSE).
Gli strumenti sul MPO consisteranno in due camere per imaging ad alta risoluzione ed un insieme di spettrometri per osservare la radiazione emessa dalla superficie del pianeta alle energie dell’infrarosso, dell’ultravioletto, dei raggi X e gamma, e dei neutroni. Tali spettri riveleranno i minerali e gli elementi presenti in superficie, la presenza di ghiaccio sotto la superficie ed i costituenti della tenue atmosfera del pianeta (esosfera). MPO sarà dotato anche di un altimetro laser per misurare la morfologia della superficie, e di due esperimenti di radio scienza per misurare la distribuzione di massa del pianeta. MMO avrà a bordo sensori per osservare il campo magnetico di Mercurio e la sua interazione col vento solare.
Lo studio delle interazioni superficie-esosfera-vento solare è fondamentale per capire i processi di perdita e di acquisto del materiale planetario. La fotoionizzazione del gas esosferico, l’energizzazione, la circolazione, la precipitazione sulla superficie o la perdita nel vento solare di tali particelle, così come lo scambio di carica del plasma del vento solare con l’esosfera o i processi di rilascio del materiale del regolite nell’esosfera sono tutte fenomenologie tuttora sconosciute e solo teorizzate nell’ambiente di Mercurio.
Nell’ambito della strumentazione prevista, d’interesse per la comunità scientifica italiana sono da considerare radio scienza, i telescopi ottici WAC e NAC, lo spettrometro infrarosso ed il rivelatore di particelle neutre.
Il passo successivo nella esplorazione di un pianeta consiste nel programmare complesse misure da svolgersi scendendo sulla superficie e deponendo su di essa complessi laboratori di analisi. In tal modo sarà possibile valicare i risultati raccolti dall’orbita e svolgere misure che è impossibile eseguire a distanza troppo grande dal pianeta. Tutte le grandi agenzie stanno programmando attività di questo genere.
Recentemente l’ESA ha messo a punto un complesso programma di esplorazione di Marte, che dovrebbe passare attraverso tutti gli stadi necessari per completare lo studio di Marte: una prima missione che permetterà di ottenere dettagliate misure geochimiche e geofisiche in situ col fine di determinare anche se Marte ha ospitato una qualche forma di vita. Una seconda che permetterà di raccoglier un campione marziano e riportarlo a terra, e finalmente una estesa serie di missioni che dovranno permettere all’uomo di colonizzare il pianeta rosso.
La missione Mars Exploration Rover fa parte del programma di esplorazione di Marte della NASA, una iniziativa di lunga durata per l’esplorazione robotica del pianeta rosso. Il programma cerca di sfruttare ogni opportunità di lancio per Marte. Previsti per due lanci separati fra il 5 giugno ed il 15 luglio 2003, i due rover atterreranno su Marte nel mese di gennaio del 2004. Primaria fra gli obiettivi scientifici della missione è la ricerca e la caratterizzare di una vasta gamma di rocce e suoli contenenti gli indizi della passata attività dell'acqua su Marte. La durata prevista della missione di ciascun rover è di 90 giorni. Gli strumenti scientifici dei rover sono:
Macchina fotografica panoramica (Pancam), per la determinazione della mineralogia, della morfologia e della struttura del terreno locale.
Spettrometro miniaturizzato dell'emissione termica (Mini-TES), per identificare le rocce ed i suoli promettenti per un esame più ravvicinato, e per determinare i processi che hanno formato le rocce marziane. Lo strumento inoltre osserverà verso il cielo per fornire i profili termici dell'atmosfera marziana.
Spettrometro di Mössbauer (mb), per indagini ravvicinate sulla mineralogia delle rocce e dei suoli contenenti ferro.
Spettrometro a raggi X ed a particelle alfa (APXS), per l’analisi ravvicinata delle abbondanze degli elementi che compongono le rocce ed i suoli.
Magneti, per la raccolta delle particelle magnetiche nella polvere. Lo spettrometro di Mössbauer ed APXS analizzeranno le particelle raccolte e contribuiranno a determinare il rapporto tra particelle magnetiche e particelle non magnetiche e la composizione dei minerali magnetici nelle polveri in sospensione e nelle rocce che sono stati macinate dall'attrezzo per l’abrasione delle rocce.
Microscopio (MI), per ottenere immagini ad alta definizione delle rocce e dei suoli.
Attrezzo per l’abrasione delle rocce (RAT), per rimuovere le superfici polverose ed esposte all'atmosfera delle rocce ed esporre materiale fresco per l'esame degli strumenti a bordo del rover.
Il rover è capace di spostarsi fino a 40 metri in un giorno, per un totale di circa1 chilometro nel corso della missione.
Smart lander
La missione NASA Mars Smart Lander 2007, attualmente in corso di definizione, sarà dotata di capacità di atterraggio di precisione per giungere entro 5 km dal luogo prescelto, permettendo così l’accesso a quei siti scientificamente interessanti ma posti vicini ad aree che sarebbero invece pericolose per l’atterraggio. Al momento, la durata prevista è di 180 sol per una missione basata sull’energia solare, e 360 sol nel caso dell’uso di generatori di energia a radionuclidi. La missione si prefigge di:
Acquisire dati atmosferici durante l’entrata, la discesa e l’atterraggio.
Acquisire immagini della discesa.
Esplorare depositi che si ritengano formati in ambiente lacustre o marino, con un’enfasi su misure mirate a capire la geologia sedimentaria, ed a ricercare indicatori paleoclimatici e bio-segnature. Queste attività richiederanno l’accesso a campioni di rocce e suoli a varie profondità.
Misurare ad alta precisione la composizione isotopica dell’atmosfera.
Caratterizzare la dinamica del boundary layer atmosferico, includendo la dinamica atmosfera-polvere-superficie.
Aumentare la rete sismica del Netlander con sismometri di corto e lungo periodo.
Determinare il flusso termico mediante perforazioni che preferibilmente giungano a 3-5 metri di profondità.
Dispiegare dosimetri operanti ad energie rilevanti per i tessuti umani.
Determinare il potenziale d’ossidazione dei materiali superficiali.
Cercare ghiaccio residuo nei sedimenti mediante perforazioni di 5-10 metri a medie ed alte latitudini.
Mappare l’interfaccia tra ghiaccio ed acqua usando sounding elettromagnetico.
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