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Lo studio del sistema solare ha un’origine antichissima. Se anche vogliamo escludere le osservazioni legate alla stella centrale – il Sole, che propriamente non può essere incluso nel “sistema planetario” – e se anche vogliamo riferirci alle osservazioni più evidenti ed elementari, è innegabile che il riconoscimento di regolarità quotidiane come il ciclo giorno-notte e le fasi della luna sono già parte di questo studio. E’ anche accertato – anche se molto mal documentato – che tali osservazioni risalgono almeno al Neolitico, e quindi costituiscono le più antiche osservazioni scientifiche che si conoscano.
Non appena le difficoltà materiali legate alla sopravvivenza si affievolirono e si sviluppò l’uso di metodi e tecniche agricole l’uomo cominciò probabilmente a chiedersi in maniera più articolata come funzionasse l’orologio cosmico. Questa conoscenza era particolarmente utile per pianificare le attività di semina e pastorizia. In particolare era necessario disporre di metodi accurati per misurare il susseguirsi delle stagioni.
Ben presto l’uomo si accorse che queste erano scandite dalla posizione del Sole, in particolare dalla conoscenza del punto sull’orizzonte in cui la stella si levava in determinati periodi dell’anno. La determinazione dei giorni equinoziali (durata del giorno uguale alla durata della notte, nel nostro calendario a marzo e settembre) e solstiziali (massima durata del giorno o della notte, in giugno e dicembre) fu probabilmente uno dei primi compiti a cui si dedicarono coloro che dovevano identificare i momenti più propizi per le attività della comunità. Costoro appartenevano in genere ad una casta privilegiata di sapienti (maghi, stregoni, sciamani, sacerdoti) nelle cui mani era riposto un notevole potere, talvolta superiore a quello degli stessi capi-tribù.
Con tutta probabilità all’osservazione si associava una qualche forma di spiegazione. L’uomo non si è mai contentato solo di sapere come vanno le cose, ma ritiene che esista un perché e pretende di conoscerlo, o almeno di poterne parlare. Possiamo quindi supporre che quei santoni fossero anche in grado di teorizzare in qualche modo le catene causali che conducevano ai fenomeni osservati. Esse erano a loro volta fondate su esperienze naturalistiche tratte dal mondo circostante e quindi arricchite dalla “presenza” di esseri superumani che fungevano da agenti. Di qui gran parte dei miti che sarebbero stati poi rielaborati, in periodi storici, in tutte le parti del mondo.
Per quanto detto, è impossibile tracciare una vera e propria data di inizio di una osservazione sistematica del cielo. Anche perché questa avvenne con metodi diversi, in culture diverse e in periodi diversi a seconda della località. Nondimeno possiamo seguire – ormai in epoca storica e nel mondo occidentale – il succedersi delle interpretazioni, che hanno tutte alla base un doppio problema: 1) cosa si muove realmente? e 2) rispetto a che? In termini moderni e con una discreta dose di arbitrarietà possiamo dire cioè che al fondo delle osservazioni e delle teorizzazioni astronomiche nell’area occidentale degli ultimi quattro millenni vi sono stati il problema del moto e il problema del sistema di riferimento.
Solo dopo che questi problemi sono stati in gran parte risolti si è pervenuti ad una visione d’insieme del sistema solare in cui le mutue influenze degli oggetti presenti hanno ricevuto una spiegazione soddisfacente. Tuttavia la comprensione della storia del sistema solare, cioè dell’entità ed evoluzione temporale dei processi fisici che hanno condotto alla sua attuale configurazione, è abbastanza recente e per molti aspetti ancora da scrivere.
Nell’Amleto Shakespeare fa dire al principe di Danimarca, rivolto ad Orazio: “ci sono più cose in cielo e in terra di quante non sogni la vostra filosofia”. A più di quattro secoli di distanza questa affermazione è ancora vera, sempre che si continui a includere la scienza astronomica nel vasto dominio della filosofia. Nel campo delle scienze planetarie, tuttavia, cominciamo ad avere ora un’immagine abbastanza accurata di quel complesso intreccio di eventi che ha portato alla formazione del nostro pianeta e quindi alla nostra nascita.
L’esistenza delle stelle è un dato esperienziale fondamentale per ogni uomo, o almeno lo era fino a tempi recenti[1], così come l’esistenza del Sole e della Luna. Però, mentre questi ultimi oggetti sono evidentemente correlati con l’alternarsi del giorno con la notte e dei periodi di caldo con quelli di freddo, la possibile incidenza delle stelle sulle vicende umane ha destato fin dalle epoche più remote molte perplessità ed ha aiutato la nascita di numerose teorie, cosmogonie e religioni.
Ancora oggi vi sono non poche persone (siete tra queste?) che ritengono che gli astri abbiano una qualche influenza diretta sulla nostra vita, al punto da ritenere importante conoscere la disposizione esatta dei pianeti nel cielo al momento della propria nascita. Certamente non sarà la stessa cosa nascere in inverno o in estate, se non altro perché le condizioni esterne – vestiario, odori, temperatura, sapori, illuminazione – hanno probabilmente una discreta influenza sullo sviluppo di un bambino appena nato. Ciò non vuol dire tuttavia che le posizioni relative dei pianeti e delle stelle abbiano rilevanza. Gli oroscopi danno in qualche modo la confortante impressione che, se le cose non vanno particolarmente bene nella nostra vita, la colpa non sia tanto da ricercare nella nostra inadeguatezza o in valutazioni errate o affrettate delle situazioni contingenti (o al puro caso), quanto piuttosto in questi oggetti su cui non abbiamo ancora alcuna influenza.
Nell’arco di millenni diverse civiltà riconobbero che la maggioranza delle stelle non cambiavano la loro localizzazione spaziale nel tempo, a parte la rotazione diurna dell’intera volta celeste, mentre alcune si comportavano in maniera alquanto bizzarra, muovendosi in una determinata direzione rispetto alle altre stelle e a volte tornando indietro sul loro cammino.
Il nome con cui i Greci indicarono quelle stelle erranti fu planethV asterhV (che in greco vuol dire appunto “stelle erranti”; mi scuso per l’inesattezza della grafica di caratteri greci). Noi li conosciamo con i nomi che ad essi dettero i romani: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno.
Il termine “pianeta” viene comunemente dato ad un oggetto di dimensioni cospicue, in orbita attorno al Sole. La Terra – come ben sappiamo – è anch’essa un pianeta, ma fu riconosciuta come tale solo nel ‘600, dopo la rivoluzione dell’astronomia iniziata da Copernico. Gli altri tre pianeti noti (Urano, Nettuno e Plutone) furono scoperti con il telescopio tra il 1781 e il 1930.
Verso la metà del ‘700 era ormai chiaro che i dintorni della Terra erano popolati da un discreto numero di oggetti. A parte il Sole, la Luna e i pianeti c’erano molti nuovi satelliti naturali (già Galileo, all’inizio del ‘600, aveva mostrato l’esistenza di quattro satelliti di Giove, e nel tardo seicento Huygens e Cassini avevano scoperto alcuni satelliti di Saturno, oltre naturalmente agli anelli di quest’ultimo) e si comprese che molte comete hanno un’orbita ellittica, anche se piuttosto eccentrica, cosicché si possono osservare ad intervalli piuttosto regolari. Il primo asteroide, 1 Ceres[2], fu scoperto da padre Piazzi a Palermo nella notte del primo gennaio 1801, proprio all’inizio del nuovo secolo.
L’800 fu un secolo denso di eventi per l’astronomia. Vennero elaborate teorie sempre più complesse del moto dei pianeti, teorie che formarono i pilastri di quella scienza che oggi chiamiamo meccanica celeste (l’astrofisica non era ancora nata). Uno degli aspetti che più suscitò l’interesse degli scienziati fu l’insieme delle perturbazioni che il campo gravitazionale di ogni pianeta provoca sugli altri; a causa di queste influenze reciproche non è possibile prevedere con precisione assoluta la posizione dei pianeti a meno di non ricorrere a sofisticate tecniche di approssimazione successiva che richiedono una mole enorme di calcolo. Oggi, con l’uso massiccio dei calcolatori elettronici, questi conti sono relativamente semplici, come vedremo, ma duecento anni fa potevano tenere occupato un astronomo per l’intera vita.
Le scienze planetarie in senso stretto, cioè gli studi che si occupano dei singoli corpi planetari, della loro origine ed evoluzione e dei fenomeni che avvengono sulla loro superficie (ivi compresa la vita), sono nate molto più di recente, quando si sono cominciate a rendere disponibili immagini e misure prese a distanza ravvicinata dalle sonde spaziali. Le conoscenze dei pianeti che abbiamo oggi sono notevolmente più dettagliate di quelle che avevamo solo 50 anni fa e la quantità di questioni risolte è pari solo al numero dei problemi che quelle missioni hanno sollevato e continuano a sollevare. E’ chiaro che nel quadro delle ricerche di “astrofisica” le scienze planetarie occupano una posizione di nicchia: il sistema planetario non è nulla in confronto agli abissi cosmici. Però vale la pena di notare che la “fisica” planetaria è molto elaborata e ben compete con la “fisica” astrofisica (perdonate la confusione). Se parlando di stelle ci riferiamo a palle di gas è ovvio che aggregati che includono tutte le fasi della materia (dai solidi, ai liquidi, ai gas, alle particelle, con le relative transizioni di fase) sono o dovrebbero essere – per un fisico – più “interessanti”.
Questa serie di lezioni ha come oggetto la componente “minore” del sistema planetario ma, come vedremo, è proprio l’insieme dei corpi minori che presenta molti dei più intricati – e spesso ancora irrisolti – problemi di fisica planetaria e di meccanica celeste. Prima però di iniziare a fare conoscenza coi corpi minori ritengo che sia opportuno ricapitolare brevemente uno dei periodi storici (occidentali) più importanti e fecondi: si tratta del periodo che va da Copernico, verso la metà del ‘500, a Newton, verso la fine del ‘600. La nostra storia recente ha molte delle sue radici in quell’incredibile secolo e mezzo e lo studio dei corpi minori del sistema solare non fa eccezione.
Non desti sorpresa la presenza in un “manuale tecnico”, come sono queste dispense, di un excursus storico-filosofico. E' vicenda di questi ultimi anni il tentativo, ancora agli inizi, di riannodare il filo unitario che percorre la cultura umanistica e quella scientifica. La prima sta scoprendo sempre più la potenza del metodo scientifico e sta lentamente cercando di calarlo nella sua specificità; la seconda ha già riscoperto – e sta tentando di formalizzare con i suoi propri metodi – l’importanza di una visione “storica” in cui le nuove scoperte non rappresentano più libere invenzioni dell'intelletto (Einstein) avulse dal contesto, ma acquisizioni culturali la cui genesi e il cui sviluppo vanno letti in un percorso complesso che non può prescindere dagli antefatti e dal contorno, di qualunque natura questi siano[3]. E se da un lato ci si può lamentare della poca considerazione in cui è tenuta in Italia la cultura scientifica, dall’altro va notato con grande fermezza (e fierezza) che il nostro paese ha la caratteristica, unica nel mondo, di poter fornire ad ogni angolo di strada un retroterra culturale senza pari, che certamente aiuta anche nello sviluppo delle conoscenze più tecniche.
La rivoluzione copernicana, di cui parleremo in questa introduzione, ha preso le mosse da un fatto “scientifico”; anzi, da un problema squisitamente tecnico come la previsione del moto dei pianeti. Tuttavia la sua portata è stata ben più ampia di un riaggiustamento di tecniche per lo studio degli astri. In realtà, se vista solo da un punto di vista astronomico, non si trattò di una gran rivoluzione, dato che la differenza “tecnica” tra il sistema tolemaico e quello copernicano consisteva sostanzialmente in una variazione di sistema di riferimento. Va però inteso che questa variazione di sistema di riferimento oltrepassò di gran lunga il significato tecnico dei termini, configurando piuttosto un cambiamento epocale nel modo di intendere i rapporti tra l’uomo e la natura, i rapporti tra l’uomo e la divinità e, in ultima analisi, la consapevolezza del posto che l’uomo occupa nell’universo e di come quest’ultimo sia strutturato.
La strada percorsa dai primi scienziati (nel significato moderno del termine) nel secolo e mezzo che intercorre tra la pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium di Copernico (1543) e dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton (1687, prima edizione) è stata molto accidentata e sarebbe un errore pensare che il cammino sia stato guidato solo da motivazioni scientifiche. Certamente un ruolo di primissimo piano venne giocato, come si vedrà nel seguito, da intelletti del calibro di Kepler, Galilei, Newton; ma va riconosciuto a molti attori “di spalla” il merito di aver compreso, magari confusamente e persino controvoglia, che qualcosa di grosso era nell’aria e di aver cercato, malgrado le scarse conoscenze scientifiche, di approfondire gli aspetti più propriamente filosofici della questione.
Non va infine trascurato – anzi, va tenuto sempre ben presente – il contesto storico in cui la rivoluzione si realizzò. Era l’epoca della Riforma e della Controriforma, epoca di grandi tensioni politiche e di importanti scoperte geografiche. All’inizio di questo pur breve lasso di tempo la cultura dominante era aristotelica e scolastica, gli stati nazionali ancora agli inizi e l’economia globale ancora frammentaria. Alla fine del periodo, agli inizi cioè del ‘700, il panorama europeo era profondamente mutato e decisamente indirizzato da un lato verso i rivolgimenti politico-sociali che culminarono nelle rivoluzioni americana e francese e nella rivoluzione industriale, dall’altro verso l’affermazione di un’economia moderna e di un’atmosfera culturale libertaria e basata sulla ragione laica, cioè – in ultima analisi – della scienza così come l’intendiamo ora. Da un punto di vista scientifico la forza delle argomentazioni e delle “prove sperimentali” a favore della concezione copernicana non era poi così strepitosa da richiedere una immediata e totale adesione al nuovo paradigma; queste argomentazioni avevano tuttavia una valenza non scientifica di grande peso e fu questa valenza, infine, che ne decretò la vittoria.
Si fa normalmente coincidere con le scoperte e gli esperimenti di Galileo, e ancor più con la pubblicazione nei Principia della teoria della gravitazione di Newton, l’inizio della fisica moderna. Da un punto di vista storico e metodologico questo è corretto, perché tutta la scienza moderna, di cui la fisica ha sempre rappresentato l’avanguardia, si basa sul metodo sperimentale inventato da Galileo e sulla dinamica newtoniana. D’altra parte non si può negare che il prodotto forse fondamentale di quegli inizi, il concetto di gravitazione (con i due pilastri su cui si fonda: massa e forza), è uno dei più intricati e complessi che l’immaginazione dell’uomo abbia partorito e la sua gestazione è durata molti secoli. Massa e forza sono nati dall’esperienza sensoriale (come del resto tutti i concetti della fisica classica), ma hanno ricevuto una chiara definizione concettuale solo dopo il ‘700. Su di essi – e sulla gravitazione universale che ne deriva – si è basata la fisica nel ‘700 e ‘800, producendo un enorme complesso di teorie fisico-matematiche che testimoniano della bontà dei concetti stessi.
Tuttavia, durante la seconda metà dell’800 e all’inizio del ‘900 quegli stessi concetti sono stati sottoposti ad una critica profonda che ne ha evidenziato la debolezza. Il travaglio intellettuale di quegli anni fu molto difficile, perché gli uomini di scienza sono stati costretti a “spogliarsi” di un insieme di concezioni così intuitive da sembrare indiscutibili. Ne è risultata una revisione profonda dell’intero edificio scientifico, a cominciare dalla geometria dello spazio e dall’idea di tempo. Le acquisizioni principali della fisica nel primo trentennio del ‘900, la meccanica quantistica e la teoria della relatività, sono profondamente antiintuitive e solo con grande sforzo intellettuale (e con un duro tirocinio scolastico) i fisici di oggi sono in grado di operare nel loro ambito, come i miei lettori sanno bene.
Le luci delle città ci stanno privando, in maniera ormai irreversibile, di questa importante esperienza.
Gli asteroidi sono numerati in ordine progressivo. Il numero d’ordine viene assegnato quando l’oggetto viene riosservato alla opposizione successiva alla scoperta. In tutte queste dispense si adotterà la denominazione ufficiale della IAU, per cui si dirà 1 Ceres, e non Cerere.
La scienza della complessità è molto recente (e varrebbe la pena di conoscerla). Studiando il complesso dei corpi minori del sistema solare scopriremo alcune questioni, come il caos e le leggi di potenza, tipiche di sistemi complessi. In genere i sistemi complessi sono sistemi ancor meno “lineari” di quelli di cui stiamo parlando: la parola chiave è qui “i sistemi naturali sono non-lineari”; e ricordatevene per il vostro lavoro futuro
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