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Banca Vaticana – Travaglio - Fra incapucciati e bave papali
Alle 7,25 del 18 giugno 1982, un impiegato delle poste di Londra, Anthony Huntley, cammina frettoloso lungo la riva del Tamigi per andare a lavorare. Nota un corpo che pende da una corda legata a un traliccio sotto il ponte di Blackfriars, cioè dei frati neri. E avverte la polizia fluviale. Il cadavere - lo si accerterà nel tardo pomeriggio - è quello di Roberto Calvi, 62 anni, già presidente del Banco Ambrosiano, arrestato e condannato un anno prima per esportazione illegale di capitali legata all'acquisto della Toro Assicurazioni e altri reati valutari. Due indagini condotte a Londra danno esiti contrastanti: la prima opta decisamente per il suicidio, la seconda invece lascia il verdetto 'aperto'. A Milano, nell'inchiesta parallela, la perizia commissionata dal giudice istruttore predilige il suicidio, ma non esclude l'omicidio. Poi nel 1992, la Cassazione trasferisce l'indagine a Roma. Intanto però, nel 1988, decidendo su una causa civile intentata contro le Assicurazioni Generali dalla vedova Clara Calvi, il Tribunale di Milano si è pronunciato per l'omicidio. La stessa pista imboccano gli accertamenti dei magistrati romani. E l'8 aprile 1997, il gip capitolino Mario Almerighi emette un'ordinanza di custodia cautelare su richiesta del pubblico ministero Giovanni Salvi, a carico dei presunti mandanti del delitto Calvi: il boss mafioso Giuseppe Calò, palermitano, classe 1931, già condannato a numerosi ergastoli (compreso quello per la strage del treno Firenze-Bologna) e il faccendiere pluriinquisito e pluriarrestato Flavio Carboni, nato a Sassari nel 1932, uomo dalle mille relazioni politiche, finanziarie e malavitose. I due - secondo l'accusa - avrebbero architettato 'in concorso tra loro e con altri' (ancora da identificare) l'assassinio del banchiere, 'avvalendosi dell'organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra, al fine di conseguire l'impunità e conservare il profitto del delitto di concorso in bancarotta fraudolenta': Calò 'dando disposizioni ad altri associati per delinquere, i quali agivano materialmente, strangolando il Calvi e simulandone il suicidio'; Carboni 'consegnando il Calvi nelle stesse mani degli esecutori materiali, dopo averlo ridotto in suo potere'. Il movente: Calvi si sarebbe impossessato, come aveva fatto prima di lui Sindona, di una parte del tesoro di Cosa Nostra, promettendo di investirlo e farlo fruttare, ma alla fine, travolto dai debiti, non sarebbe più stato in grado di restituirlo.
Nel 1998, il cadavere del banchiere viene riesumato sedici anni dopo la sua morte e sottoposto a una nuova autopsia, che consente di scoprire nuove escoriazioni ed ecchimosi alle mani, ai piedi e alla nuca. Uno dei possibili esecutori materiali, secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, sarebbe Francesco Di Carlo, già boss di Altofonte, poi emigrato in Inghilterra, oggi anche lui collaboratore di giustizia. Ma Di Carlo, pur non avendo un alibi per il giorno del presunto delitto, nega tutto. E sostiene che, in effetti, Calò l'aveva inizialmente cercato per quella missione omicida. Poi, però, non trovandolo per diversi giorni, si era rivolto al clan camorristico dei Nuvoletta, organico a Cosa Nostra, una sorta di tentacolo della Piovra sotto il Vesuvio. E avevano 'fatto tutto i napoletani'. Di Carlo è ritenuto credibile da diverse sentenze emesse in Sicilia. E', fra l'altro, il collaboratore di giustizia che sostiene di aver partecipato, nei primi anni '70, a una cena con il boss dei boss Stefano Bontate e Marcello Dell'Utri, e poi, nel 1974, a un incontro a Milano con lo stesso Bontate, il boss suo alleato Mimmo Teresi, un altro soggetto in odor di mafia come Gaetano Cinà (amico intimo di Dell'Utri) da una parte, e Silvio Berlusconi e Dell'Utri dall'altra.
L'ordinanza, come tutti i provvedimenti giudiziari provvisori, non è un'affermazione di responsabilità a carico dei due indagati: lo stabiliranno le Corti d'assise e d'assise d'appello di Roma ed, eventualmente, la Cassazione, se Calò e Carboni siano colpevoli o innocenti. Intanto l'indagine, ancora aperta, è in attesa, dopo quattro anni, del deposito della superperizia richiesta dal pm Salvi e disposta dal gip Otello Lupacchini sulle cause della morte di Calvi. Non è dato sapere, al momento, che tipo di indagini siano state sviluppate.
Se dunque abbiamo deciso di pubblicare l'ordinanza Almerighi in questo libro-documento è in nome del diritto-dovere di cronaca. Per far conoscere all'opinione pubblica tutti gli elementi che, a vent'anni esatti dalla morte violenta di Roberto Calvi, hanno portato i giudici romani a scartare l'ipotesi del suicidio e a imboccare decisamente la strada dell'omicidio.là delle decisioni dei giudici di merito, consentono comunque di ricostruire gli ultimi Elementi che, al di giorni, le ultime ore, gli ultimi istanti di vita di quel piccolo banchiere che le circostanze della vita posero al centro di vicende sicuramente più grandi di lui, al crocevia di uno dei più inestricabili e agghiaccianti misteri della storia italiana.
I giudici romani arrivano alla morte di Calvi nella maniera più casuale e rocambolesca che si possa immaginare. Mario Almerighi sta seguendo il caso di una multinazionale del crimine, dedita al traffico d'armi e di droga. Non è nuovo, il magistrato, a occuparsi di misteri italiani. Nato a Cagliari nel 1939, è uno dei primi pretori 'd'assalto' (come allora vengono chiamati quelli che indagano a 360 gradi) a Genova. Si occupa soprattutto degli spaventosi casi di avvelenamento delle acque, e riesce a mandare alla sbarra qualcosa come 140 industrie inquinanti e i cosiddetti 'controllori' del comune di Genova, che naturalmente non controllavano un bel nulla. Nel 1973 Almerighi s'imbatte in uno scandalo che, per le sue dimensioni, occuperà per mesi le cronache nazionali: lo scandalo dei petroli, cioè la prima grande Tangentopoli d'Italia. Leggi fiscali approvate dal Parlamento su commissione dell'Unione petrolifera italiana in cambio di laute tangenti. Ministri e politici di tutti i partiti di governo coinvolti, a cominciare da Giulio Andreotti. Poi i soliti maneggi per insabbiare l'inchiesta. Le minacce al pretore dagli stessi vertici del suo ufficio. I boicottaggi agli uomini della sua polizia giudiziaria. Il trasferimento dell'inchiesta, pezzo per pezzo, a Roma. E infine la coltre della Commissione parlamentare inquirente prima e del Parlamento poi, che copre tutti i ministri indagati. Per darsi un'aura di rigore e gettare un po' di fumo negli occhi all'opinione pubblica, il Parlamento approva nel 1974 la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Quella che verrà largamente violata fin dal giorno seguente, come dimostreranno le innumerevoli indagini sulla corruzione politica negli anni '80 e '90, fino a quella milanese di Mani Pulite, nel 1992. Membro del Csm dal 1976 all'80, fondatore sullo scorcio degli anni '80 della corrente dei Movimenti riuniti (i cosiddetti 'verdi') insieme a Giovanni Falcone, dal 1984 Alinerighi viene trasferito a Roma, dove lavora come giudice istruttore specializzato in criminalità organizzata internazionale.
E in quella veste segue, negli anni '80, un'indagine su una sorta di multinazionale del crimine, formata da libanesi, siriani, marsigliesi, spagnoli e italiani appartenenti o collegati alla banda della Magliana. L'organizzazione ha basi in Turchia, Afghanistan e Marocco, raffina oppio ed esporta eroina pura e hashish in America. Ma ha pure una filiale in Spagna, a Barcellona, dove fabbrica gran quantità di banconote false di vari stati dell'Africa francofona. Arresti e perquisizioni si susseguono, finché molti dei capi e dei 'soldati' della multinazionale del crimine vengono assicurati alla giustizia e condannati a pene che variano dal 4 ai 17 anni di reclusione. Uno degli arrestati è Giulio Lena, considerato il cervello italiano della supergang, legato anche lui alla banda della Magliana. Condannato a 17 anni con sentenza definitiva e tuttora latitante. Anche il fratello Fernando, noto falsario, viene arrestato. Dalla perquisizione nella villa dei due a Monterotondo (a 30 chilometri da Roma) salta fuori un'abbondante attrezzatura per falsificare soldi, timbri, patenti e passaporti. Ma soprattutto vengono rinvenute due lettere di Giulio Lena al cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato Vaticano. Lena chiede all'illustre porporato di restituirgli un miliardo e 200 milioni di lire, da lui a suo tempo anticipati al Vaticano per l'acquisto dei documenti contenuti nella borsa di Roberto Calvi. Si tratta della borsa che il banchiere portava sempre con sé, ma che non fu più ritrovata quando fu scoperto il suo cadavere, né al residence di Londra né sotto il ponte dei frati neri. Salvo ricomparire il 1° aprile 1986 fra le mani di un informatissimo giornalista missino, Giorgio Pisanò, direttore del Candido, che la consegnò - ormai pressoché vuota - in diretta televisiva a Enzo Biagi durante il programma 'Linea diretta': quello della borsa del banchiere, che il 1° aprile 1986 fu aperta in diretta televisiva dinanzi a milioni di telespettatori. Nessuno sa ancora, quella sera, che il coup de théatre dei due giornalisti segue di poche ore un fatto che ha dell'incredibile. Il giorno prima, 31 marzo, Flavio Carboni si è incontrato con un alto prelato vaticano di origine cecoslovacca, monsignor Pavei Hnilica, presidente della 'Pro fratribus', per ritirare l'ultima rata di pagamento dei documenti contenuti nella borsa di Calvi: assegni dello IOR per diverse centinaia di milioni, che in aggiunta a quelli già incassati in precedenza, sempre dal Vaticano, assommano a circa 14 miliardi di lire (dell'epoca). Al prelato il faccendiere ha poi mostrato la borsa ormai semivuota (salvo alcune carte e pochi oggetti di nessuna importanza) del banchiere defunto. E, di fronte all'incredulità di monsignor Hnilica, l'ha congedato con queste parole: 'Padre, lei non crede che questa sia la borsa di Calvi? La vedrà domani alla televisione'. Il che puntualmente avviene, nel programma di Biagi. Con due colpi di scena: prima l'arrivo di Pisanò in studio, con la borsa, poi l'ingresso di Carboni per certificare l'autenticità del reperto: 'Si, la riconosco, è proprio la borsa di Calvi'.
Che fine han fatto le carte sparie dalla borsa? E chi l'ha trafugata, quattro anni prima, la sera della morte del banchiere a Londra? La Procura di Milano apre un'inchiesta per ricettazione, imitata da quella romana. Ma, una volta tanto, gli accertamenti nella capitale si riveleranno molto più penetranti ed efficaci di quelli di Milano. Dove, incredibilmente, vengono indagati Biagi e Pisanò. A Roma il giudice istruttore Almerighi incrimina e rinvia a giudizio, sempre per ricettazione, Carboni, Giulio Lena e monsignor Hnilica. E, per ricostruire il tortuoso itinerario della borsa in giro per l'Europa, ripercorre gli ultimi giorni di vita di Calvi e i suoi spostamenti dall'Italia alla Svizzera, dall'Austria all'Inghilterra. Cosi, seguendo Calvi e la sua borsa, Almerighi non può non imbattersi nella domanda delle domande: come morì Calvi? E si convince che l'ipotesi di gran lunga più probabile è quella dell'omicidio. Perché? Lo spiega con il provvedimento di cattura di Pippo Calò e Flavio Carboni, che pubblichiamo in questo libro.
Roberto Calvi nasce a Milano nel 1920, figlio di un funzionario della Banca Commerciale Italiana. Dopo il diploma di ragioneria, si iscrive alla facoltà di Economia e commercio dell'Università Bocconi. E qui dirige l'ufficio stampa e propaganda dei Gruppi universitari fascisti (i Guf) fino all'entrata in guerra dell'Italia. Arruolato nella cavalleria (e più precisamente nei lancieri di Novara), partecipa alla campagna di Russia. Poi, caduto il regime, grazie al padre e agli ottimi studi trova un posto alla Comit. Dove rimane soltanto due anni. E' il tipico ragiunatt milanese, sgobbone e anonimo, grigio e taciturno, tutto il contrario dell'altro 'banchiere di Dio' che diverrà famoso e poi famigerato nell'olimpo della finanza ambrosiana, Michele Sindona. Ma è anche un giovane pieno di ambizioni. Nel 1947, a ventisette anni, entra, sempre come impiegato semplice, al Banco Ambrosiano: il salto non è da poco, essendo la Comit il simbolo della finanza laica e massonica, e l'Ambrosiano una minuscola banca senza pretese, per giunta nota come 'la banca dei preti' (fondata nel 1896 da monsignor Giuseppe Tovini per incarico del cardinale arcivescovo Andrea Ferrari, e da allora controllata per decenni dalla curia milanese). Non che Calvi sia un fervente cattolico, anzi. Ma per entrare all'Ambrosiano occorre una lettera di presentazione del parroco, con allegato il certificato di battesimo. E lui si procura senza problemi l'una e l'altro.
Ai pochi eletti cui riserva le sue confidenze, spiega di voler trasformare l'istituto da banca regionale di beneficenza in colosso della finanza internazionale. E giura, fra l'incredulità generale, che un giorno l'Ambrosiano sarà suo. Progetti più grandi di lui: infatti non sono suoi, come non saranno suoi i mezzi impiegati per realizzarli. Calvi - come emergerà più tardi, e non solo nelle inchieste dei giudici - è un 'uomo di paglia', una 'testa di legno', la pedina di un gioco enorme inventato da altri: Sindona, Gelli, Ortolani, i prelati vaticani, e altri uomini a mezzadria fra la finanza e la malavita organizzata. Intanto però nessuno lo sa, e questo omino schivo e sepolcrale comincia a scalare i gradini che portano ai piani alti dell'Ambrosiano fino a raggiungere, negli anni '60, i galloni di segretario generale, cioè di assistente e braccio destro del direttore centrale Alessandro Canesi. Subentrandogli nel 1969, quando ascende alla direzione centrale. Intanto intreccia amicizie e rapporti altolocati, e acquista in Svizzera la Banca del Gottardo. Nel 1968 stringe i rapporti con il finanziere siciliano Michele Sindona, diventandone anche socio. Alcuni sostengono che la sera di Natale del '69 si tenga, a Roma, un vertice segretissimo fra Calvi, Sindona e Umberto Ortolani (il numero due della P2 di Licio Gelli, molto vicino al Vaticano) per siglare un patto di collaborazione e di azione, mettendo in comune gli appoggi di cui ciascuno gode per la carriera di tutti. Sta di fatto che poco più di un anno dopo, nel febbraio 1971, Calvi diventa direttore generale dell'Ambrosiano. Dopodiché Sindona lo mette in contatto prima con monsignor Paul Marcinkus e poi con il Vzxc
enerabile Licio Gelli. Marcinkus è un corpulento vescovo americano di origini baltiche, che papa Paolo VI ha chiamato a presiedere l'Istituto delle opere di religione (br, la banca vaticana), e che non va troppo per il sottile: 'La Chiesa - ripete spesso - non si amministra con le avemarie'. Sindona, Calvi e Marcinkus entrano subito in società, fondando alle Bahamas la Cisalpine Overseas Bank e inaugurando una turbinosa attività nei paradisi fiscali di mezzo mondo, spesso in tandem con Ortolani (titolare di una banca a Montevideo, la Bafisud, di cui ben presto la Cisalpine diventerà socia). Nel 1975, Calvi è pronto per conoscere Licio Gelli. Li presenta Michele Sindona, ormai latitante negli Stati Uniti, con una telefonata al venerabile maestro da New York, dove il banchiere milanese è andato a trovarlo. L'affiliazione ufficiale secondo l'antico rituale massonico avviene a Ginevra il 23 agosto di quell'anno. Poi Gelli lo raccomanda presso i fratelli inglesi della Loggia 901, che riunisce il fior fiore della City londinese.
Nel 1976 il costruttore andreottiano Mario Genghini, anche lui nella P2, presenta Calvi ad Anastasio Somoza, il sanguinano dittatore del Nicaragua. E' l'inizio di una proficua collaborazione fra l'Ambrosiano e i regimi militari latinoamericani. Frattanto Sindona è ormai in piena disgrazia, e Calvi diventa l'unico banchiere di riferimento della P2 e dello Ior. Direttore generale dal 1971, entra nel consiglio di amministrazione e, progressivamente acquisisce il controllo della maggioranza azionaria del Banco. Fino a diventarne, nel 1975, presidente. Ora comanda lui, anche se deve rendere conto ai suoi burattinai. 'Il Banco Ambrosiano non è mio', confesserà ai giudici di Milano nel 1981, rinchiuso nel carcere di Lodi, 'io sono soltanto al servizio di altri. Di più non posso dirvi'.
Ossessionato dal segreto ('Se una cosa la conoscono due persone - è uno dei suoi motti - non è più segreta'), Calvi si dedica a costruire pezzo dopo pezzo una rete inestricabile di società estere, banche, società fiduciarie e di intermediazione, conti cifrati da Panama a Hong Kong. Le azioni passano a ritmi vorticosi dall'una all'altra società come nel più classico sistema delle scatole cinesi: continui acquisti e cessioni di pacchetti azionar per farne lievitare il valore, disperdere gli enormi capitali sporchi che cominciano a entrare nel circuito per esservi 'lavati' e coprire i buchi creati da continue distrazioni di denaro per foraggiare questo o quel potente padrino. Anche, ovviamente, politico. L'Ambrosiano finanzia occultamente pressoché tutti i partiti. E molti giornali, a cominciare dal Corriere della sera, che Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani controllano militarmente dal 1976 grazie ai quattrini dell'Ambrosiano, attraverso i 'fratelli' di loggia Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din e Franco Di Bella.
Nel 1977, sui muri di Milano, compaiono migliaia di strani manifestini pieni di insinuazioni sulle difficoltà finanziarie dell'Ambrosiano:
In relazione alla vendita di società del gruppo Sindona all'Ambrosiano di pacchetti azionari Bastogi, Centrale, Credito Varesino, Finabank, Zitropo ecc., Roberto Calvi si è fatto versare 10 milioni di dollari su conti numerati svizzeri di sua personale proprietà con firma sua e della moglie. Con la sola operazione Bastogi, Calvi si è appropriato di 4.823.000 dollari Magistrati e Guardia di Finanza debbono dare una risposta ai seguenti quesiti: 1) chi ha fornito a Calvi i 200 e più milioni di dollari per acquistare in proprio i pacchetti azionari di Bastogi, Centrale, Credito Varesino, Finabank, Zitropo ecc.; 2) con quale margine di profitto Calvi ha poi rivenduto tali azioni a Interbanca, centrale, e allo stesso Banco Ambrosiano; 3) perché i giornalisti del Corriere della sera, oggetto di mercato da parte del banchiere Calvi, colpevole di truffa, falso in bilancio, appropriazione indebita, esportazione di valuta e frode fiscale, passano sotto silenzio le malefatte del loro effettivo padrone?
Si scoprirà poi che l'iniziativa è un'idea di Michele Sindona, che ormai ha l'acqua alla gola con il suo impero in bancarotta e ha incaricato uno strano personaggio, Luigi Cavallo, esperto in 'provocazioni', legato a Edgardo Sogno e ad ambienti dei servizi segreti, di realizzarla. Una manovra chiaramente ricattatoria, che mira a coinvolgere Calvi nel disperato tentativo di Sindona di salvare le sue banche, e di convincerlo, con le buone o con le cattive, a sborsare i miliardi che gli occorrono per tappare le falle. Cavallo, oltre ai volantini, invia un'analoga lettera al governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi, con allegata una cospicua documentazione. Il ricatto cesserà qualche mese dopo, grazie all'intervento pacificatore di Licio Gelli, che porterà a un incontro fra Calvi e Sindona nel marzo 1978 a New York. Ma le accuse di Sindona si fondano su elementi di verità. Tant'è che la Banca d'Italia si mette subito in moto e invia undici ispettori a esaminare i conti dell'Ambrosiano. Gli ispettori, nel giro di pochi mesi, scopriranno una serie di gravi irregolarità nei libri contabili, poi raccolte in un rapporto-denuncia di 500 pagine al giudice Emilio Alessandrini.
Sono mesi terribili, per l'Italia, quelli della primavera 1978: il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, segregato nella 'prigione del popolo' delle Brigate rosse, rivela ai suoi carcerieri gli scandali politico-finanziari di quegli anni, compreso quello dell'Italcasse (che coinvolge i Caltagirone, la discussa famiglia di palazzinari romani vicinissimi al presidente del Consiglio Giulio Andreotti). E indica proprio nella Banca d'Italia l'ultima diga contro il malaffare dilagante nel mondo delle banche, lottizzate e spolpate dai partiti e dagli altri poteri più o meno occulti. Baffi e il suo direttore generale, Mario Sarcinelli, si oppongono in pochi mesi al salvataggio illegale dei Caltagirone, poi di Sindona e infine dell'Ambrosiano. Inimicandosi quel blocco di potere che va dall'entourage andreottiano alla P2 al Vaticano, e scatenando una reazione furibonda. E non solo di quegli ambienti. Ma anche di quelli che, almeno in teoria, vi si oppongono con le armi e con il terrore. 'Quasi in coincidenza con il sequestro Moro - scrive Baffi nel suo diario il 23 marzo 1978 - 'Oggi' [settimanale della Rizzoli, controllata dalla P2, n.d.a.] pubblica un articolo secondo cui sono compreso negli elenchi di eliminazione delle Brigate rosse. E' stato scritto che l'idea della propria morte concentra meravigliosamente la mente, ed è vero'.
Nel novembre '78, il giudice Alessandrini riceve il rapporto degli ispettori di Bankitalia, in cui si legge che gli amministratori dell'Ambrosiano hanno adottato 'accorgimenti volti a eludere i controlli dell'Organo di Vigilanza', dando vita ad 'artificiosi giri di partite dai conti', il tutto per coprire - scrivono sempre gli ispettori di via Nazionale - una miriade di società legate a Sindona, Ortolani, Rizzoli, Genghini, Roberto Memmo e Giovanni Fabbri. Tutti, guarda caso, iscritti alla loggia P2 (stando, almeno, agli elenchi sequestrati dalla magistratura milanese a Castiglion Fibocchi, negli uffici di Gelli, nel marzo del 1981). Quanto a Calvi, la relazione è ancor più dura e impietosa: 'L'amministrazione del Banco è imperniata sul presidente e consigliere delegato signor Roberto Calvi, che coadiuvato da fedelissimi membri del 'direttorio' è divenuto praticamente arbitro in seno alla società di ogni iniziativa di rilievo, in ciò favorito [] dalla supina acquiescenza degli altri componenti degli organi collegiali'. Sindaci e revisori dei conti vigilano in maniera 'superficiale e poco incisiva', mentre Calvi fa il bello e il brutto tempo anche sulla politica creditizia dell'istituto: 'Dal sopralluogo è emerso che tutti indistintamente i fidi dai 10 ai 18 miliardi vengono fatti rientrare nei casi urgenti e come tali posti in essere su autorizzazione del presidente. Inoltre il prescritto provvedimento di ratifica consiste palesemente in una pura e semplice formalità, limitandosi il Consiglio [di amministrazione, n.d.a.], a intervalli di tempo di qualche mese, a far risultare nell'apposito libro di legge, con una formula stereotipata, di aver esaminato e di approvare tutti gli affidamenti accordati'. Impossibile, a questo punto, valutare con una certa precisione il reale stato dell'Ambrosiano, vista la 'rete finanziaria che gli consente di gestire notevoli flussi di fondi al riparo dei controlli delle autorità valutarie italiane'. E' la rete delle società estere, 'in particolare della holding Lussemburghese (Banco Ambrosiano Holding SA Lussemburgo) e della Cisalpine Overseas Bank di Nassau, le cui atttività di bilancio sono rimaste del tutto sconosciute, non avendo l'azienda fornito alcun riferimento utile al riguardo'. La Cisalpine, da sola, ha concesso 'finanziamenti e depositi all'estero per un controvalore di L. 417 miliardi circa, dei quali l'azienda non ha fornito alcuna indicazione', e perciò potrebbe incontrare serie 'difficoltà nello smobilizzo', che potrebbero procurare al Banco Ambrosiano notevoli problemi di liquidità.
La previsione non potrebbe essere più azzeccata, visto che, pochi giorni dopo il deposito della relazione degli ispettori, l'Ambrosiano comincia a soffrire una crisi di liquidità, che viene tamponata grazie all'intervento congiunto dei dirigenti (pi-duisti) dell'Eni e della Banca Nazionale del Lavoro. Le filiali estere dell'Eni rovesciano nelle casse esangui della banca di Calvi 10 e poi 60 milioni di dollari fruscianti, mentre la Bnl di Londra concede un prestito triennale di 50 milioni di dollari e uno 'a breve' di 20.
Il 23 dicembre '78 il giudice Alessandrini, che indaga anche sulla strage di piazza Fontana e su altri misteri italiani, riceve il rapporto di Bankitalia sull'Ambrosiano. Un mese dopo, il 29 gennaio 1979, viene trucidato a Milano da un commando di Prima linea guidato da Sergio Segio. Due mesi dopo, nel marzo 1979, vengono messi fuori gioco, con metodi lievemente più blandi delle P38, altri due 'nemici' del Banco, il governatore di Bankitalia Paolo Baffi e il direttore generale Mario Sarcinelli, decisissimi a riportare ordine e legalità nel sistema bancario italiano, inquinato dai Sindona, dai Calvi e dalla famelica partitocrazia. Un pubblico ministero romano li fa arrestare, accusandoli a proposito di presunti finanziamenti irregolari dal Credito Industriale Sardo alla Sir del petroliere Nino Rovelli. Le accuse si riveleranno del tutto infondate, ma intanto la Banca d'Italia viene decapitata e paralizzata per mesi e mesi, proprio mentre dovrebbe trarre le conclusioni dell'ispezione all'Ambrosiano. Nel 1986 il faccendiere piduista(1) Francesco Pazienza rivelerà che l'incriminazione di Baffi e Sarcinelli era stata decisa dalla P2, in un vertice a Montevideo, alla presenza di Licio Gelli e Umberto Ortolani.
Calvi, intanto, può respirare un altro po'. E, oltre alle massicce aperture di credito che continuano a regalargli i 'fratelli' che siedono ai vertici dell'Eni e della Bnl, capitalizza i suoi portentosi appoggi politici e finanziari. Giungendo persino ad accordarsi con il suo tradizionale rivale nella finanza cattolica, Carlo Pesenti, per un piano di 'cooperazione in Italia e all'estero'. Il patto è firmato, oltreché dai due finanzieri, da altrettanti 'garanti': Licio Gelli e Umberto Ortolani. Sempre nel 1979, Calvi allarga il suo impero estero al Perù, uno dei paesi leader nella produzione e nell'esportazione della droga: l'Ambrosiano, grazie alle solite e solide entrature in Sudamerica, finanzia l'acquisto di una fregata da guerra da parte del governo di Lima e in cambio ottiene il permesso di aprire una filiale nella capitale peruviana, il Banco Ambrosiano Andino. Che assorbe quasi subito le attività del Banco Comercial de Managua, dopo la caduta dell'amico dittatore Somoza in seguito alla rivoluzione sandinista. Un'altra banca 'consorella' viene aperta in Argentina, a Buenos Aires: il Banco Ambrosiano de America del Sur, con una filiale anche a San Paulo del Brasile.
Nulla, naturalmente, avviene gratis et amore Dei. Nemmeno nella cosiddetta 'finanza cattolica'. Per sdebitarsi, infatti, Calvi deve allargare i cordoni della borsa e scucire qualcosa come 80 miliardi (dell'epoca) per tenersi buoni quasi tutti i partiti. Dalla Dc al Psi al Partito comunista, attraverso Paese sera. Sul fronte politico, è il Psi di Craxi a ricevere un trattamento privilegiato: oltre a prestiti e a finanziamenti periodici, riesce a spuntare, con la speciale raccomandazione di Licio Gelli, una mega-stecca da 7 milioni di dollari (oltre 10 miliardi di lire dell'epoca) su un conto cifrato, numerato 633369 e battezzato 'Protezione', aperto per la bisogna presso l'Unione delle banche svizzere a Lugano (lo si scoprirà solo nel 1993, grazie a Mani Pulite) dall'architetto Silvano Larini, prestanome di Bettino, con la collaborazione straordinaria di Claudio Martelli. E' il 'pizzo' che Calvi deve pagare alla P2 e ai suoi amici del vertice del Psi per l'ultimo mega-prestito concesso dall'Eni, e in particolare dal suo direttore finanziario, il craxiano Fiorino Fiorini, e dal vicepresidente, il piduista e craxiano Leonardo Di Donna. L'esistenza del conto Protezione e della mega-tangente ai socialisti affiora dalla perquisizione di Castiglion Fibocchi, nel 1981. Ma l'inchiesta milanese di Gherardo Colombo viene strozzata sul nascere, grazie alla solita Cassazione, che trasferisce tutte le indagini sulla P2 a Roma, nel 'porto delle nebbie'. Che provvederà a mandarle tutte in fumo. Soltanto nel 1993, con il ritorno di Larini della latitanza e la sua confessione, emergeranno il ruolo diretto di Craxi e Martelli, che verranno processati insieme a Gelli, Di Donna, Fiorini e altri per concorso nella bancarotta dell'Ambrosiano (per Craxi, dopo due condanne e un annullamento in Cassazione, il reato viene estinto nel 2000 'per morte del reo', mentre Martelli è stato condannato anche nel secondo processo di appello, e nel 2002 si attende il verdetto definitivo della Cassazione).
Ma torniamo al 1979. Se Calvi riesce a tamponare le falle grazie ai suoi potenti padrini nell'alta politica e nell'alta finanza, nuovi guai per l'Ambrosiano arrivano dalla Consob, presieduta ora dal professor Guido Rossi (fortemente voluto dal ministro Nino Andreatta), che rimette il naso nei conti maleodoranti dell'istituto creditizio milanese. Intanto la Banca d'Italia, guidata dal nuovo governatore Carlo Azeglio Ciampi (subentrato a Baffi, dimissionario) contesta all'Ambrosiano la sua nebulosa attività all'estero. E la magistratura milanese, giunta al termine degli accertamenti sul rapporto degli ispettori di via Nazionale (quello inviato a suo tempo al povero Alessandrini sulle gravi infrazioni valutarie del Banco), decide di incriminare formalmente Calvi e di ritirargli il passaporto. La fratellanza piduista si mobilita presso magistrati e ufficiali amici, ma non c'è nulla da fare: i giudici milanesi tengono duro. E' il marzo 1981 quando, indagando sul finto sequestro Sindona, i giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo mandano la Guardia di Finanza a perquisire la villa e gli uffici di Gelli e scoprono l'elenco degli affiliati alla loggia P2. Fra i quali spicca, accanto a imprenditori, finanzieri, generali, uomini dei servizi segreti, ministri e segretari di partito, giornalisti e professionisti assortiti, il nome di Roberto Calvi.
Gelli, colpito da un mandato di cattura, riesce a fuggire all'estero. Calvi viene arrestato prima che segua il suo esempio, il 20 maggio 1981, lo stesso giorno in cui viene finalmente resa nota la lista dei piduisti. Soltanto un mese prima, ha acquistato il 40 per cento della Rizzoli-Corriere della sera, per 115 miliardi. Prelevato nella sua casa milanese, il banchiere viene tradotto nel carcere di Lodi. Deve rispondere di una serie di reati valutari, e viene processato pochi giorni dopo. Anche lui, nella disgrazia, impugna l'arma estrema del ricatto. Lancia vari messaggi, finge addirittura di suicidarsi in cella con i barbiturici, e riesce a far pervenire, tramite la moglie Clara, un bigliettino al cardinale Marcinkus: c'è scritto 'Questo processo si chiama Ior'. Chiara allusione ai finanziamenti concessi a suo tempo dall'Ambrosiano alla banca vaticana, al sindacato del dissenso polacco Solidarnosc e ad altre forze di opposizione anticomunista nei paesi dell'Est. La fratellanza piduista e i suoi vari burattinai e burattini si mettono subito in moto (le manovre frenetiche di quei giorni sono ricostruite, minuto per minuto, da Sergio Flamigni nello splendido Trame atlantiche, Milano, Kaos Edizioni, 1996). Francesco Pazienza va a trovare Marcinkus, il quale gli raccomanda di far sapere a Calvi che deve stare 'calmo e tranquillo', perché 'noi stiamo facendo quello che dobbiamo fare'. Cioè far pervenire all'Ambrosiano un altro po' di ossigeno, sotto forma di versamenti dalla Svizzera. Pazienza telegrafa a Calvi in carcere: 'Ho visto Paolo. Ti saluta tanto. Tutto bene. Abbracci'. Ma, difeso dall'avvocato Gaetano Pecorella, il banchiere presta una certa collaborazione ai magistrati, rivelando - nell'interrogatorio della notte fra il 2 e il 3 luglio - i suoi rapporti con Ortolani e, soprattutto, ammettendo i finanziamenti occulti al Psi che, a differenza di quelli al Pci, non sono stati restituiti, anzi 'l'esposizione debitoria del Psi è andata progressivamente aumentando'.
La notizia che Calvi sta cominciando a parlare getta nel terrore e nella costernazione i partiti. I giudici si stanno avvicinando a santuari che nemmeno riescono a immaginare, mentre nei palazzi della Roma che conta la paura fa novanta. E da Roma partono vari emissari incaricati di far pervenire all'illustre detenuto l''amichevole' consiglio di tenere la bocca chiusa. Il leader del Psi Bettino Craxi, principale beneficiano dei finanziamenti occulti dell'Ambrosiano, è scatenato. E, appena scattano le manette ai polsi di Calvi, sferra contro i giudici di Milano l'attacco più duro che si ricordi (almeno fino a quel momento). L'armamentario polemico, finora inedito, troverà ampia fortuna dopo il 1992, contro l'inchiesta Mani Pulite. I magistrati che hanno arrestato Calvi sarebbero - secondo Craxi - 'irresponsabili e politicizzati', colpevoli di 'abusi', di 'violenza intimidatoria', di 'manette senza alcun obbligo di legge', di 'azioni giudiziarie scriteriate', addirittura della 'crisi della Borsa di Milano'. Quanto alla P2, Craxi strilla contro la 'campagna maccartista', la 'furia accusatoria', il 'clima paranoico e la destabilizzazione', le 'condanne sulla base di un semplice sospetto'. Intanto il premier Arnaldo Forlani è costretto alle dimissioni per essersi tenuto per due mesi nel cassetto la lista dei piduisti (compresi tre suoi ministri e un bel po' di sottosegretari). E viene sostituito da Giovanni Spadolini. Ma tre dei cinque leader del pentapartito - Piccoli, Craxi e Longo - chiedono, in cambio del loro appoggio, che il nuovo governo si impegni a subordinare le procure all'esecutivo. O almeno al Parlamento, cioè ai partiti, perché - dice testualmente Craxi - 'lo Stato e il cittadino siano adeguatamente rappresentati'. ' né più né meno il programma della loggia P2, enunciato da Gelli e dai suoi occulti suggeritori nel famigerato 'Piano di rinascita democratica', che viene sdoganato e 'nobilitato' proprio mentre l'Italia è scossa dallo scandalo P2. Anche il Corriere della sera, pesantemente infiltrato dalla loggia di Gelli, è in prima fila negli attacchi ai giudici: anche per le pressioni fortissime esercitate dall'entourage di Craxi, e 'in particolare dal deputato Claudio Martelli', come racconterà l'amministratore delegato della Rìzzoli, il piduista Bruno Tassan Din ('Ci veniva serratamente richiesto di appoggiare massicciamente Calvi, attaccando i giudici di Milano e censurandoli').
Il 30 giugno 1981 il governatore Ciampi proibisce a tutte le banche italiane di operare in paesi stranieri sprovvisti di istituti di vigilanza e di possedere banche all'estero attraverso società finanziarie. E il governo Spadolini, sciolta la loggia P2, dispone che le banche cedano qualsiasi tipo di partecipazione in società editoriali. Sono tutte norme fatte chiaramente su misura per il caso dell'Ambrosiano. Il 20 luglio Calvi viene condannato in primo grado a 4 anni di reclusione e a 15 miliardi di multa. Il 28 luglio esce dal carcere di Lodi in libertà provvisoria. E, in attesa del processo di appello, torna nel suo ufficio di presidente del Banco Ambrosiano, sempre più ossessionato dall'esigenza di rastrellare denaro fresco per scongiurare la bancarotta che segnerebbe la sua fine. Il 28 luglio presiede il consiglio di amministrazione che - nonostante emerga ormai chiaramente la drammatica situazione finanziaria dell'istituto - gli rinnova incredibilmente la fiducia.
Latitante Gelli, Calvi è talmente disperato da consegnarsi nelle mani di due faccendieri malfamati come Francesco Pazienza (legato alla P2 e ai servizi segreti) e Flavio Carboni (amico di molti politici, ma anche di Silvio Berlusconi e persino di personaggi vicini alla banda della Magliana e a Cosa Nostra). Pazienza gli organizza un tour in Sardegna, dove il banchiere fa conoscenza con alcuni personaggi molto influenti: il capo del Sismi, generale Giuseppe Santovito (P2),il finanziere andreottiano Giuseppe Ciarrapico, i faccendieri craxiani Ferdinando Mach di Palmstein e Sergio Cusani, ma soprattutto il futuro Gran Maestro della massoneria Armando Corona. In Sardegna opera anche Flavio Carboni, ben introdotto in ambienti politici (anche presso il segretario Dc Ciriaco De Mita), nonché amico e socio in affari di Silvio Berlusconi e di vari esponenti della banda della Magliana.
A questo punto entra in scena un personaggio di tutto riguardo: Giuseppe Pisanu detto Beppe, deputato sardo della Dc dal 1972, anche lui in ottimi rapporti con Carboni e Corona. Nato a Ittiri (Sassari) nel 1937, laureato in scienze agrarie, ex amico del cuore di Francesco Cossiga, Pisanu diventa ben presto dirigente della Sfirs (la finanziaria della Regione Sardegna). Capo della segreteria di Zaccagnini negli anni del compromesso storico Dc-Pci, milita nella sinistra democristiana, e diventa sottosegretario al Tesoro e alla Difesa nei governi Forlani, Fanfani, Spadolini, Goria e Craxi. Ma nel Fanfani V (1983), quando è viceministro del Tesoro, saltano fuori le sue liaisons dangereuses con alcuni imbarazzanti compari di vacanze in barca: Carboni, appunto, e Berlusconi. Tutto comincia nell'estate dell'80, quando Silvio e Flavio brigano per regalare a Porto Rotondo una degna colata di cemento (progetto 'Olbia 2'). Carboni ospita Pisanu e Berlusconi sulla sua 'Punto Rosso', una barca di 22 metri. L'estate seguente, Pisanu fa un'altra conquista: veleggia, sempre sulla barca di Carboni, al largo della Costa Smeralda, ma stavolta a bordo c'è pure il bancarottiere Roberto Calvi, fresco di condanna, in libertà provvisoria. Memorabile la testimonianza di Pisanu davanti al pm milanese Pierluigi Dell'Osso, che indaga sul crac dell'Ambrosiano e lo interroga per sei ore l'11 settembre 1982 (mentre Carboni si trova in carcere da qualche giorno a Lugano, perché coinvolto nelle indagini sulla fuga e la morte di Calvi sotto il ponte dei Frati neri a Londra). Carboni - spiega Pisanu - era 'un interlocutore valido per le forze politiche richiamantisi alla ispirazione cattolica'. Insomma, il pio terzetto non discuteva d'affari, ma di teologia e mariologia. 'Carboni - prosegue l'ineffabile Pisanu davanti al giudice - mi disse che il Berlusconi aveva interesse a espandere Canale 5 in Sardegna, talché lo stesso Carboni si stava interessando per rilevare a tal fine la più importante rete televisiva sarda 'Videolina' [quella del discusso finanziere Nicky Grauso, n.d.a.]'. Non solo: 'Il Carboni mi disse di essere in affari col signor Berlusconi anche con riguardo a un grosso progetto edilizio di tipo turistico denominato 'Olbia 2'. Fin dall'inizio ritenni di seguire gli sviluppi delle varie attività di Carboni, trattandosi di un sardo che intendeva operare in Sardegna'.
Il pio sodalizio Carboni-Pisanu si estende poi miracolosamente all'affaire Ambrosiano. Il sottosegretario al Tesoro, scortato dall'amico Carboni, incontra Calvi per ben quattro volte. E subito dopo, l'8 giugno '82, risponde alla Camera alle allarmate interrogazioni delle opposizioni sul colossale buco dell'Ambrosiano, aggravato dai debiti miliardari del Banco Andino. Niente paura - rassicura Pisanu, che è pure un sagace economista - è tutto sotto controllo. Nessun allarme: 'Le indagini esperite all'estero sull'Ambrosiano non hanno dato alcun esito'. La sera dopo, 9 giugno, Pisanu è di nuovo a cena con Carboni: pare che il tema della serata sia la nomina di un giudice 'amico' a nuovo procuratore generale di Milano. L'indomani, 10 giugno, Calvi fugge dall'Italia, per finire come sappiamo. Nove giorni dopo il governo dichiara insolvente l'Ambrosiano, mettendo sul lastrico migliaia di risparmiatori. Pochi mesi dopo sia l'Ambrosiano sia l'Andino fanno bancarotta. Racconterà Angelo Rizzoli alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2: 'A proposito dell'Andino, Calvi disse a me e a Tassan Din che il discorso dell'on. Pisanu in Parlamento l'aveva fatto fare lui. Qualcuno mi ha detto che per quel discorso Pisanu aveva preso 800 milioni da Flavio Carboni'. Accusa peraltro mai dimostrata, anche se il portaborse di Calvi, Emilio Pellicani, dirà all'Espresso che Calvi aveva stanziato - per 'comprare' il proprio salvataggio - 100 miliardi, dei quali 'poche decine di milioni' sarebbero finite anche nelle tasche di Pisanu, 'tramite Carboni'. E aggiunge che Pisanu si interessò attivamente del progetto di cessione del Corriere della sera da parte di Calvi, tentando di pilotare l'operazione 'in favore dell'on. Piccoli'. Cioè di garantire una sorta di controllo democristiano sul primo quotidiano d'Italia. Pisanu smentì e querelò Pellicani.
Memorabili gli attacchi che gli sferrano in quel periodo i due membri più battaglieri della Commissione P2: il missino Mirko Tremaglia e il radicale Massimo Teodori. Tremaglia denuncia 'l'assalto partitocratico al Corriere della sera, tramite manovre che di volta in volta sono passate attraverso Andreotti, Bagnasco o Pisanu, Carboni o Rizzoli'. E, quanto all'Ambrosiano appena dichiarato insolvente dal governo, punta il dito sulle 'gravissime responsabilità degli organi di governo', compreso 'il sottosegretario Pisanu, amico non per caso di Carboni, che aveva dichiarato alla Camera che nulla era emerso di irregolare nell'Ambrosiano. Senonché, esattamente nove giorni dopo, il Tesoro ha disposto lo scioglimento degli organi amministrativi dell'Ambrosiano'. E Teodori: 'Alcuni fatti sono incontrovertibili: i rapporti strettissimi e continuativi tra Pisanu e Carboni; i rapporti di Pisanu con Calvi tramite Carboni; i rapporti di Pisanu con Calvi e Carboni per la sistemazione del Corriere della sera; i rapporti di Pisanu con Calvi e Carboni quando, sottosegretario al Tesoro, il ministero prendeva importanti decisioni sull'Ambrosiano; il sottosegretario rispose per due volte alla Camera sulla questione Ambrosiano'. Poi aggiunge, il 19 gennaio '83: 'Il sottosegretario Pisanu si deve dimettere: se c'è ancora un minimo di moralità, è inconcepibile che l'on. Pisanu resti al governo'. 'Non mi dimetterò su richiesta di Teodori', schiuma Pisanu. Poi però cambia idea, o gliela fanno cambiare: due giorni dopo, il 21 gennaio, si dimette da sottosegretario 'per consentire il chiarimento della mia posizione senza condizionamenti legati all'incarico di governo ricoperto'. Ma il suo caso continua ad arroventare la Commissione P2 per i mesi a venire. In febbraio Teodori torna a denunciare 'l'arroganza socialista e democristiana che vuole affossare la Commissione d'inchiesta e pretende una condizione di speciale intoccabilità per tutti i politici, da Pisanu a Piccoli ad Andreotti'. Pisanu viene ascoltato una seconda volta dalla Commissione Anselmi, e lì - pur rivendicando l'assoluta correttezza e 'trasparenza' dei suoi rapporti con Carboni e Calvi - ammette di avere un po 'sottovalutato' (testuale) la delicatezza di certe frequentazioni. Ce n'è abbastanza per metterlo in quarantena per un po'.
Ma nel 1987, dopo qualche anno di purgatorio, riecco Pisanu tornare in auge: sottosegretario alla Difesa nel nuovo governo Fanfani. Poi un altro po' di oblio, fino al 1994, quando Silvio Berlusconi lo resuscita. Prima lo promuove 'vicecapogruppo vicario' alla Camera, poi nel '96 presidente dei deputati forzisti in sostiuzione di Vittorio Dotti (cacciato per via delle rivelazioni della sua compagna Stefania Ariosto su Previti, Berlusconi e le presunte tangenti ai giudici romani). Infine, nel 2001 l'ultimo balzo: ministro nel Berlusconi II, non all'Interno (com'era parso in un primo momento), ma alla 'Verifica del programma' (sic). Un'occasione, comunque, per ritrovare tanti vecchi amici. Come il ministro per gli Italiani all'estero, Mirko Tremaglia. E il neodeputato di Forza Italia Massimo Teodori. Come passa il tempo.
Ma torniamo a quei mesi convulsi del 1982. Calvi, intrappolato dalla rete delle sue stesse trame, teme per la sua vita e per quella dei famigliari. E, per proteggerli, manda la moglie negli Stati Uniti e la figlia in Svizzera, al sicuro. La situazione è ormai incontrollabile. Il 27 aprile il direttore generale del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone, fedelissimo di Calvi, è gravemente ferito a Milano da alcuni colpi di pistola esplosi da un killer che rimane ucciso, grazie al pronto intervento di una guardia giurata. E' Danilo Abbruciati, uno dei sicari della banda della Magliana. Due i possibili moventi: un avvertimento a Calvi, perché rispetti gli accordi stretti con la malavita romana, oppure una 'punizione esemplare' per Rosone, che avrebbe osato eccepire su alcuni spericolati finanziamenti elargiti dall'Ambrosiano a varie società legate a Carboni, Genghini, Ortolani e alla stessa banda della Magliana. Tra l'altro, c'è in ballo un finanziamento di 6 miliardi alla società 'Prato Verde' di Carboni, serviti in parte - dirà il segretario del faccendiere, Emilio Pellicani - per corrompere alcuni esponenti del clan andreottiano, affinché 'normalizzassero' la magistratura milanese, appoggiando la ricusazione di Colombo e Turone (impegnati in un'inchiesta su Calvi) e nominando un procuratore capo 'controllabile'. Tutti gli sforzi sono concentrati sul processo di appello, previsto per il 21 giugno 1982. Il faccendiere Alvaro Giardili testimonierà che, pochi giorni prima, Calvi lo convocò nel suo ufficio all'Ambrosiano e gli disse di 'contattare Berlusconi (quello delle televisioni private) che era 'molto ammanigliato con i giudici di Milano, in vista di uno spostamento della data di celebrazione del suo processo' La missione però rimane sospesa, perché 24 ore dopo Calvi fugge misteriosamente all'estero.
Ormai i vecchi amici si negano al telefono. Il banchiere è completamente solo. Perfino lo Ior, che ha succhiato per anni alla grande mammella dell'Ambrosiano, lo pugnala alle spalle chiedendo la restituzione di un credito di 300 milioni di dollari. L'ultimo viaggio, prima in Svizzera poi a Londra, è l'ultimo disperato tentativo di giocarsi il tutto per tutto. L'11 maggio 1982 l'autista va a prendere Calvi a casa, come ogni mattina, ma non trova nessuno. Il banchiere è già volato a Trieste insieme a Emilio Pellicani, il segretario-factotum di Carboni, portandosi appresso l'inseparabile borsa in pelle nera a soffietto, in cui conserva una serie di lettere e documenti scottanti che intende utilizzare per ricattare gli ex alleati che l'hanno tradito (Marcinkus, Gelli e Ortolani): e proprio a quello scopo, oltreché a reperire i fondi necessari a soddisfare le pretese dello br, dovrebbe servire il suo improvviso viaggio all'estero: a organizzare da un luogo più sicuro un'operazione ricattatoria in grande stile. Senonché, per un'operazione di quel genere, Calvi dovrebbe essere completamente libero di agire. Invece, durante tutta la sua fuga, è marcato a vista da Flavio Carboni, a sua volta 'osservato' a distanza da Ernesto Diotallevi (boss della banda della Magliana e socio di Pippo Calò).
Calvi e Pellicani, una volta a Trieste, incontrano un contrabbandiere, Silvano Vittor, che per 8 milioni procura al banchiere (che non può espatriare per ordine del Tribunale di Milano) un passaporto falso (quello vero è stato sequestrato). Il passaporto, intestato a 'Roberto Calvini', è stato fornito da Diotallevi. Inizia così un viaggio avventuroso, l'ultimo viaggio di Roberto Calvi alias Calvini verso la morte. In Jugoslavia per mare, a bordo di un motoscafo. Poi in Austria, in automobile: qui, dopo una notte trascorsa a Klagenfurt nella villa del suocero di Vittor, Calvi viene raggiunto da Carboni, accompagnato da una ragazza, Emanuela. Calvi e Carboni tentano di chiamare lo Ior, per strappare un ultimo finanziamento di 300 milioni di dollari, ma la risposta è no. Calvi è disperato: piange, smania, lancia anatemi, minaccia di trascinare il Vaticano nello scandalo, e tutti i segretari dei partiti che ha finanziato nel corso degli anni: cioè quasi tutti. E riprende il viaggio, scortato da Vàton. Fa tappa a Innsbruck, vorrebbe andare in Svizzera, ma 'stranamente' prende l'aereo per Londra. Ed è costretto dagli uomini di Carboni, che hanno organizzato il viaggio, ad alloggiare in un appartamentino - due stanze, cucina e bagno - nel malfamato residence Chelsea Cloister, una sorta di dormitorio per immigrati di colore. 'E un'infamia, qui non posso neppure ricevere le personalità che mi dovrebbero aiutare', si lamenta il banchiere con Vittor. Ma gli ordini di Carboni sono perentori: 'Non muovetevi di li'.
Il 17 giugno, a Milano, la situazione precipita. Crollano le azioni dell'Ambrosiano in borsa. Nell'ultimo drammatico consiglio di amministrazione, Ciarrapico tenta di scongiurare il commissariamento dell'Ambrosiano, propiziando la nomina del finanziere italo-svizzero Orazio Bagnasco al posto di Calvi. Ma il cda boccia la proposta. Rosone informa i consiglieri che lo Ior rifiuta di far fronte ai debiti in scadenza del Banco Andino (anche i responsabili della banca vaticana, Marcinkus, Pellegrino de Strobel e Luigi Mennini, verranno incriminati e raggiunti da mandati di cattura per truffa e concorso nel crac dell'Ambrosiano, anche se poi la Corte costituzionale annullerà i provvedimenti, richiamandosi al Concordato fra Stato italiano e Chiesa cattolica). Le esposizioni delle consociate estere, fino a quel momento rimaste occulte, ammontano a 379 milioni di dollari. Al consiglio di amministrazione non rimane che sciogliersi e deliberare il commissariamento, affidato alla Banca d'Italia (il Tribunale civile dichiarerà fallito il Banco Ambrosiano il 25 agosto 1982, mentre nel 1992, al termine della lunghissima istruttoria, il Tribunale penale condannerà per bancarotta fraudolenta i responsabili del crac dell'istituto, quantificandone il dissesto in un passivo di 2 mila miliardi di lire dell'epoca).
Nel pomeriggio dello stesso 17 giugno 1982, la segretaria di Calvi, Gabriella Corrocher, si toglie la vita gettandosi da una finestra. 'Vergogna fuggire così, sia tu maledetto mille volte' è il suo ultimo messaggio per il banchiere che aveva fedelmente assistito con devozione per quindici anni. Probabilmente, quella sera, Calvi fa in tempo ad apprendere quella notizia, a Londra, nel suo squallido appartamentino numero 881 al residence Chelsea Cloister. Riceve una telefonata di Carboni che gli preannuncia il suo arrivo. Ma poi ritarda, dopo aver convocato lontano dal residence Vittor e aver lasciato Calvi da solo. Alle 22, Calvi esce. L'indomani, alle 7,25 del 18 giugno 1982, un impiegato delle poste di Londra, Anthony Huntley, che cammina frettoloso lungo la riva del Tamigi per andare a lavorare, nota un corpo che pende da una corda legata a un traliccio sotto il ponte di Blackfriars, cioè dei frati neri. E avverte la polizia fluviale.
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